Escludere Lula per evitarne il ritorno

Written by Fausto Durante Thursday, 14 June 2018 16:06 Print

Credo, con ragionevole certezza, di essere stato uno degli ultimi italiani ad avere incontrato Luiz Inácio Lula da Silva da uomo libero, prima della sua consegna alla polizia e dell’inizio della sua detenzione nel carcere di Curitiba. Ho incontrato Lula il 15 marzo scorso – quindi circa venti giorni prima del suo ingresso in prigione – nel grande Estádio de Pituaçu a Salvador, la capitale dello Stato di Bahia, dove in quei giorni si svolgeva il Forum sociale mondiale. L’occasione dell’incontro è stata l’Assemblea in difesa delle democrazie, che ha rappresentato una delle iniziative di più intensa e folta partecipazione popolare tra le tante in calendario nel forum. Una assemblea indetta per discutere della crisi della democrazia e dell’attacco alle esperienze dei governi progressisti e di sinistra degli ultimi due decenni in America Latina, ma che di fatto si è trasformata in una sorta di processo pubblico al contrario, con una appassionata arringa difensiva pronunciata dallo stesso Lula davanti a un gigantesco tribunale popolare composto da decine di migliaia di brasiliani accorsi ad ascoltarlo, per confutare e respingere le accuse di corruzione. Quelle accuse per le quali, invece, è poi davvero finito dietro le sbarre il 7 aprile, dopo aver lasciato il quartier generale del sindacato dei metalmeccanici di São Bernardo do Campo a San Paolo, lo stesso luogo che lo aveva visto diventare leader sindacale e, successivamente, fondatore della confederazione sindacale CUT e del PT, il Partito dei lavoratori.

Un leader amato, simbolo del riscatto di milioni di brasiliani poveri, che per anni si sono immedesimati in quell’operaio tornitore, nordestino del Pernambuco trapiantato nell’area industriale di San Paolo, dove già negli anni Sessanta operavano grandi imprese come Volkswagen e Scania, privo del mignolo della mano sinistra per un incidente sul lavoro, già provato nella dimensione degli affetti personali per aver perso a soli 25 anni la moglie incinta di otto mesi a causa di una epatite mal curata, organizzatore di grandi lotte operaie e animatore dell’opposizione alla dittatura militare.

È al termine di questo percorso che, dopo tre tentativi falliti nelle precedenti elezioni, il 27 novembre del 2002 Lula viene eletto presidente del Brasile e avvia una esperienza di governo che in pochi anni realizza un cambiamento radicale per gran parte dei ceti popolari del paese. Certo, il governo di Lula opera in un contesto segnato da difficoltà e contraddizioni, derivanti tanto dal non disporre di una autonoma maggioranza parlamentare, quanto dal permanere di forti fenomeni di corruzione nella conduzione dell’attività politica e nella gestione del potere, da cui lo stesso PT non è stato immune. Sotto la guida del presidente operaio senza istruzione e senza laurea, nonché di Dilma Rousseff che gli è succeduta prima di essere defenestrata da un golpe di palazzo, si è realizzato il maggior investimento in cultura e istruzione in tutta la storia del Brasile, un aumento del 218% in dodici anni, da 18 miliardi di reais del 2002 a oltre 115 nel 2014, con la creazione di 422 scuole tecniche, 18 università federali, 173 campus. Un investimento che ha più che raddoppiato il numero degli studenti nel paese e che ha permesso di aumentare considerevolmente i salari degli insegnanti. Le politiche di inclusione sociale, simbolicamente rappresentate dal progetto Bolsa Família, hanno permesso a circa 36 milioni di brasiliani di uscire dalla fascia della povertà e hanno contribuito (secondo quanto confermato anche dalla FAO) a ridurre dell’82% la quota di persone in situazioni di insufficiente alimentazione. Il progetto Luz para Todos ha portato l’accesso all’energia elettrica a oltre 15 milioni di brasiliani, prima privati di questo servizio. Le spese per la sanità pubblica sono cresciute del 195% e il programma Mais Médicos ha aumentato di 18.000 unità il numero di medici preposti alla cura delle famiglie. Con il programma Minha Casa Minha Vida si è data una abitazione dignitosa a quasi 7 milioni di persone.

Tutti i principali indicatori macroeconomici (dal PIL all’inflazione, dal tasso di occupazione agli investimenti diretti esteri, dai livelli di debito alle riserve) hanno fatto segnare dal 2002 al 2014 risultati di crescita forte. Lula, e dopo di lui Dilma, hanno operato per realizzare la più grande e veloce riduzione delle diseguaglianze nella storia del Brasile. Non hanno risolto tutti i problemi dell’enorme nazione-continente che il paese rappresenta, ma hanno dato per la prima volta, negli ambiti di azione sociale e nei confronti delle classi popolari, degli indigeni, della popolazione più povera e in condizioni di arretratezza (che sono estremamente gravi in vaste aree del Brasile) un segnale di speranza. E, soprattutto, di messa in discussione degli equilibri nei rapporti di forza e del potere delle grandi concentrazioni finanziarie, economiche, agrarie, di recente anche informative e bancarie, che hanno sempre retto i destini del Brasile e del suo popolo dalla fine dell’epoca coloniale.

È altamente probabile che sia tutto questo ciò che Lula e, in forma minore, Dilma stanno pagando. È possibile che, sulla base di dubbi e controversi particolari di una delle tante indagini – in questo caso l’inchiesta Lava Jato sui fenomeni corruttivi che segnano da decenni la vita politica brasiliana, si sia messo in piedi quello che molti osservatori, in Brasile e all’estero, su posizioni vicine a Lula come su posizioni distanti o neutrali, considerano come un complotto per evitare il probabile grande ritorno, ossia per escludere Lula dalla corsa delle prossime elezioni presidenziali in programma a ottobre. In Italia, ad esempio, sostengono questa tesi personalità come il giurista Luigi Ferrajoli, che ha parlato di «aggressione giudiziaria alla democrazia brasiliana», riviste come “Famiglia Cristiana”, che sulla questione ha pubblicato un articolo che sin dal titolo parla esplicitamente di “oligarchie economiche” dietro l’arresto di Lula, mentre figure come Romano Prodi, Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema, Susanna Camusso e i leader sindacali Barbagallo e Furlan e molti altri hanno firmato un appello per chiedere garanzie per Lula e per la sua partecipazione alle prossime elezioni. Mentre, all’estero, il nuovo presidente del gruppo dei Socialisti e democratici al Parlamento europeo Udo Bullmann si è dichiarato preoccupato «della possibile politicizzazione del sistema giudiziario in Brasile e delle voci sull’interferenza dei militari», così come Herta Däubler-Gmelin, stimata esponente della SPD e ministro della Giustizia nel governo tedesco dal 1998 al 2002, ha bollato come «scandaloso il comportamento dei magistrati nelle iniziative contro Lula».

È evidente come il comportamento del giudice Sérgio Moro – il quale, in virtù del peculiare sistema giudiziario brasiliano, ha svolto l’indagine, istruito il processo, emesso i mandati, pronunciato la sentenza di primo grado alla base della carcerazione di Lula – sia lontano da ciò che siamo abituati a considerare normale quanto a imparzialità del giudizio e separazione tra chi indaga e chi giudica. Lula e i suoi avvocati lamentano la violazione di diversi diritti: presunzione di innocenza, giusto processo, habeas corpus, riservatezza, libertà e segretezza delle comunicazioni tra imputato e legali, durata eccessiva dell’inchiesta, “confessioni” ottenute con la promessa di benefici, discrezionalità nell’uso delle testimonianze e altro ancora. Anomalie che appaiono evidenti, non solo tra i sostenitori dell’ex presidente brasiliano e che gettano un’ombra pesante di sospetto sull’intera vicenda. Ombra che si ingigantisce se si pensa che su Michel Temer, attuale presidente del Brasile e organizzatore del complotto che ha portato alla destituzione di Dilma Rousseff nell’agosto del 2016, pesano accuse di gravità pari o superiore a quelle contro Lula, ma con un corso e una velocità delle azioni giudiziarie completamente diversi.

Il sospetto di una nuova manovra politico-giudiziaria contro Lula e il PT, ma in definitiva contro la democrazia brasiliana dopo l’infondato impeachment di Dilma, volge verso la certezza, se si considerano tutti i sondaggi di opinione svolti in Brasile di recente. Lula è, sebbene detenuto, largamente in testa per l’elezione presidenziale. Le percentuali della sua popolarità personale vanno dal 31 al 39%, molto al di sopra degli altri potenziali candidati. L’esponente della estrema destra Jair Bolsonaro non supera il 15%, l’ex ministro dell’Ambiente Marina Silva è intorno al 10%, il presidente uscente Temer è inchiodato da mesi a un misero 2%. In caso di ballottaggio, Lula batterebbe tutti gli altri candidati con un vantaggio tra il 54 e il 56%. In più, esistono dati che forse preoccupano di più i nemici e i persecutori di Lula: secondo un sondaggio dell’istituto di rilevazioni Vox Populi condotto tra il 10 e il 15 aprile, il 41% degli intervistati pensa che Lula sia stato condannato senza prove; il 44% pensa che la sua detenzione sia ingiusta; il 58% pensa che egli abbia il diritto a essere candidato alle presidenziali di ottobre. È questa candidatura con il suo certo successo che si vuole evitare, tenendo Lula nella cella di Curitiba in isolamento pressoché totale?