Come funziona il M5S e perché vince

Written by Aldo Giannuli Thursday, 14 June 2018 11:46 Print

A molti il Movimento 5 Stelle sembra un evento inspiegabile come la “venuta degli Hyksos”, e in tanti si chiedono il perché del loro successo. Proviamo a spiegarlo.

Il M5S non viene dal nulla: è il figlio (o il nipote) dell’ondata populista nata nei primi anni Novanta a opera di Pannella, Occhetto e Segni, portatori di uno schema politico plebiscitario, simil-presidenzialista, basato su soggetti fluidi raccolti intorno a un leader. La seconda Repubblica è nata e ha vissuto all’insegna del populismo. Ha poi avuto una ulteriore svolta, con l’attuale iperpopulismo, grazie al mix fra la comparsa del media ultrapopulista, il web, e la crisi finanziaria del 2007-08.

Il M5S non è un fenomeno solo italiano: si pensi al Front National francese, ad Alternative für Deutschland in Germania, allo UK Independence Party (UKIP) in Inghilterra. Considerato che l’Italia è tra i paesi che più hanno sofferto la crisi e che più stentano a riprendersi, non stupisce che sia il paese nel quale le formazioni iperpopuliste (Lega e M5S) siano quelle con i risultati elettorali più alti. Come le altre formazioni iperpopuliste il M5S critica la politica in quanto attività separata dalla società civile, predica il mito dell’autosufficienza del popolo, che non ha bisogno di élite, sostiene il carattere post ideologico e l’organizzazione poco strutturata.

Ma il M5S ha peculiarità proprie. Al suo sorgere, esso ha avuto caratteristiche antisistema e si è autoproclamato “né di destra né di sinistra” in nome della critica alla democrazia rappresentativa e a favore della democrazia diretta (che, a voler essere pignoli, è una ideologia di sinistra). In verità, esso ospitava confusamente idee tanto di destra quanto di sinistra con una prevalenza di queste ultime, che ne hanno fatto una cosa ben diversa dal FN francese o dall’AfD tedesca. Ma la diversità fondamentale è data dalla Casaleggio Associati, che è un pezzo a sé del progetto del suo fondatore Gianroberto, come strumento per realizzare la democrazia diretta. La Casaleggio non è stata solo il soggetto che gestiva (sino a pochi mesi fa) il blog di Beppe Grillo e ora il Blog delle stelle. Attraverso un’attività continua di osservazione e analisi dei social, ha cercato di catturare il sentiment della rete di cui, poi, i parlamentari sarebbero diventati portavoce. La Casaleggio era posta come una sorta di “imbuto” attraverso il quale il dibattito nel web si traduceva in opzioni politiche, grazie agli algoritmi elaborati dal gruppo più attivo dell’azienda (Gianroberto e Davide Casaleggio, Luca Eleuteri, Pietro Dettori, Maurizio Benzi). Dunque l’impresa è un pezzo del progetto politico. Come tutti i movimenti iperpopulisti, il M5S è un prodotto della rete ma, a differenza degli altri, si pone come soggetto di essa, con la produzione autonoma di algoritmi per interpretare gli orientamenti della rete.

Per capire l’attuale M5S occorre tener presenti le trasformazioni che sono intervenute dopo la morte del suo fondatore. Il progetto di Gianroberto Casaleggio non era esente da ambiguità e contraddizioni, ma puntava a creare una propria cultura politica. Ad esempio, l’insistenza sul tema “non siamo né di destra né di sinistra” aveva una doppia valenza: rimarcare l’equidistanza dai due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, sancendo il principio della non coalizzabilità con alcuno, e indicare queste distinzioni come proprie della democrazia rappresentativa cui si contrapponeva la democrazia diretta basata sull’unità di popolo. Questo slancio verso l’edificazione di una cultura politica originale è totalmente decaduto dopo la morte di Casaleggio e la stessa osservazione della rete è diventata solo un sondaggio permanente del mercato elettorale.

Come si è detto, il M5S si caratterizza come post ideologico, cioè dotato di una debole cultura politica, che non ha alle spalle una visione coerente di insieme. Superate le ambivalenze del periodo precedente, l’attuale M5S ha completato la parabola approdando a una visione opportunistica della politica. Uso il termine in senso tecnico e avalutativo, per indicare una concezione della politica in cui la tattica prevale sulla strategia; si abbandona, appunto, ogni politica di principio a favore della capacità di cogliere tempestivamente le occasioni favorevoli (in questo senso, grandi opportunisti furono Napoleone, Mussolini o Stalin).

Il M5S decide quale atteggiamento tenere su una particolare questione solo basandosi su considerazioni contingenti: quel provvedimento va osteggiato per combattere il suo proponente, su quell’altro bisogna tenere presente l’orientamento ora prevalente nella rete, su quell’altro ancora è necessario attenuare i toni per l’approssimarsi delle elezioni nelle città settentrionali e così via. Per cui la linea subisce scarti evidentissimi: si può essere neutralisti sino alla sera prima e diventale atlantisti l’indomani, se questo serve ad ammorbidire l’ambasciata americana sull’ipotesi di un governo 5 Stelle; si può essere contro l’euro e passare poi alla più stretta ortodossia pro europea, migrando dal gruppo con l’UKIP a quello con l’ALDE, tornare con l’UKIP e ipotizzare un passaggio con En Marche. Il M5S può negare il suo voto alla legge sull’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali, ma poi i Comuni di Roma e Torino (a conduzione grillina) sono i primi a registrare i bambini di coppie omosessuali, e senza intervento della magistratura. I grillini possono essere la principale forza trainante contro la riforma tendenzialmente presidenzialista di Renzi, ma poi rivendicare la presidenza del Consiglio nel presupposto di avere il candidato che ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti, come se fossimo in un regime presidenziale. L’attuale M5S ha una sostanziale indifferenza sul merito delle questioni, ed è interessato solo a “fare goal nella porta di Palazzo Chigi”, beninteso per assicurare al paese finalmente la rivoluzione dell’onestà, parola magica che copre l’assoluta nudità ideale sottostante.

Ancora più marcato è stato il salto del Movimento 5 Stelle dal punto di vista organizzativo. Il movimento voluto da Gianroberto Casaleggio si definiva leaderless, cioè senza leader. Questo potrà non convincere quanti ricordano la facilità con cui Grillo e Casaleggio irrogavano espulsioni. Il punto va spiegato: i due non si ponevano come capi del movimento ma come garanti di esso dal rischio di infiltrazioni e scissioni. E non si trattava di una questione puramente formale, come dimostra il fatto che nessuno dei due si è mai candidato in nessun tipo di elezione. Ovviamente si può discutere l’opportunità di questo equilibrio interno di poteri sotto il profilo democratico (e personalmente non mi ha mai convinto), ma questo era il senso.

Fra Natale e Capodanno del 2017, Di Maio ha sciolto la precedente associazione (senza una votazione dei suoi iscritti), ha fondato una nuova associazione che ha uno statuto (mai votato da nessuno) che assegna ampi poteri a lui in quanto capo politico del Movimento, compreso quello di definire le decisioni politiche, di riservarsi il giudizio sui candidati alle “parlamentarie” e di nominare i capigruppo parlamentari. È da notare che Di Maio era stato eletto con una consultazione della precedente associazione, ma ha mantenuto la carica e senza alcuna votazione, nella successiva associazione. E questo ha ossificato la struttura organizzativa che, più che mai, ha assunto un carattere verticistico (altro che movimento leaderless!). Il modello di partecipazione in rete ha portato a escludere e proibire ogni altro tipo di aggregazione (ad esempio un movimento giovanile o movimenti di categoria o femminili). Esistono gruppi di base – i meetup – che non sono coordinati fra loro e non hanno istanze provinciali, regionali ecc., raramente danno vita ad assemblee di discussione politica. Il M5S si è formato grazie agli spettacoli di Grillo e all’esistenza del suo blog e ha formato una sua base per l’iniziativa di alcuni personaggi che hanno caratterizzato, pur sommariamente, l’indirizzo di ciascun gruppo locale, esercitando una relativa egemonia in campo regionale. Ne deriva che il Movimento, pur non avendo organismi locali, ha una configurazione molto diversa, da Regione a Regione. Basi che hanno trovato il proprio punto di riferimento nei parlamentari più autorevoli della zona: Crimi in Lombardia, D’Incà in Veneto, Lombardi, Taverna e Di Battista nel Lazio, Fico e Di Maio in Campania, Morra in Calabria, Giarrizzo in Sicilia, per citare i più noti. Per cui, chi pensa a una divisione interna fra “governisti” e “fondamentalisti” cala sul M5S uno schema proprio di altre esperienze organizzative. Nel M5S la dialettica è piuttosto quella dei gruppi regionali tenuti insieme dalla funzione accentratrice del “capo politico” e dall’aspettativa di andare al governo.

Come gli altri partiti, il M5S ha strati distinti: elettori, simpatizzanti, aderenti, amministratori locali, gruppi parlamentari ecc. Nel M5S, però, i vari pezzi non “fanno sistema” e si muovono spesso in modo indipendente l’uno dall’altro. Il M5S è un curioso caso di partito con seguito elettorale di massa, ma a struttura di partito d’opinione, il che è insieme il suo punto di forza e di debolezza. Il M5S ottiene consensi identificandosi con il sentiment della rete e, quindi, proprio per la capacità di imbrigliare le correnti di opinione temporanee, ma, nello stesso tempo, ha una elevata vulnerabilità: per certi versi, il M5S, più che un partito è uno stato d’animo. È fragile ma anche molto elastico e perciò adatto a catturare i flussi più mobili dell’elettorato. In ogni elezione il M5S registra flussi in uscita, compensati però da flussi in entrata, pescando nelle sacche di malcontento momentaneo (i tassisti contro Uber, gli insegnanti contro la Buona Scuola, i Forconi, i romani infuriati contro Alemanno e Marino ecc.).

E infatti l’elettorato grillino è il più mobile di tutti: spesso, nello stesso giorno può esserci uno scorrimento di metà dell’elettorato fra il voto alle politiche e quello alle amministrative. È proprio questa elasticità nel suo agire politico a fare del M5S la struttura adatta a catturare i flussi elettorali più diversi, decretandone il successo (sinché dura). Da ultimo, la struttura del gruppo dirigente. Un errore che viene fatto spesso è quello di dipingere il M5S come una piramide al cui vertice c’è la Casaleggio Associati e, per essa, Davide Casaleggio. Si tratta di un grossolano equivoco. Come già detto, la Casaleggio è un pezzo dello stesso disegno politico del suo fondatore e il problema del rapporto fra le due entità non si è posto sinché è vissuto Gianroberto, che era insieme il capo della sua azienda e il cervello politico del M5S. Dopo è emerso un dualismo per cui Davide ereditava la conduzione dell’azienda mentre, gradualmente, la direzione del M5S passava a Luigi Di Maio. Le due entità sono in relazione fra loro, ma nessuna è sovraordinata all’altra; c’è un evidente interesse a sostenersi a vicenda (tanto più, dopo la separazione del blog di Grillo tanto dalla Casaleggio quanto dal M5S) ma si avverte una tendenziale divaricazione fra esse. In particolare, la Casaleggio è in una fase di ridefinizione dei suoi interessi, dall’editoria digitale all’intelligenza artificiale e all’internet delle cose. Inoltre si è data un proprio pensatoio con SUM, la convention annuale in ricordo di Gianroberto dedicata non a temi politici immediati ma all’analisi delle tendenze sociali, economiche, tecnologiche del futuro meno vicino. Di fatto il vertice del M5S è rappresentato da gruppi parlamentari così stratificati: a) una sorta di segreteria non formalizzata, un “cerchio magico” raccolto intorno al “capo politico del Movimento” che gode di pieni poteri, composto dai due capigruppo(nominati dal capo), dai componenti della “comunicazione” (anche essi dipendenti dal capo) e da alcuni parlamentari particolarmente vicini al capo politico (ad esempio il suo portavoce Vincenzo Spadafora, Alfonso Bonafede, Stefano Buffagni, Emilio Carelli); b) c’è poi un “senato” consultivo e allo stesso modo non formalizzato, composto da parlamentari particolarmente autorevoli che godono di diritto di critica e immuni da sanzioni disciplinari (oltre ai capi regionali citati, Ruocco, Sorial, Fraccaro e pochi altri); c) vengono infine i “peones” con sempre meno potere di intervento (in una delle prime assemblee dopo il 4 marzo, il capo ha avvertito sulla fine del costume “assemblearista”).

Questo schizzo rapido e incompleto spero riesca a far comprendere meglio le dinamiche di un movimento-partito che non è l’invasione degli Hyksos quanto, piuttosto, lo specchio degli errori altrui.