Diseguaglianze e impoverimento del ceto medio

Written by Paolo Guerrieri Wednesday, 14 May 2014 13:55 Print


È ben noto come la diseguaglianza, in termini di redditi e ricchezza pos­seduta, sia regolarmente aumentata negli ultimi decenni in pressoché tutti i paesi più sviluppati e con essa il declino del ceto medio. In Italia il processo è stato altrettanto profondo, con una crescita delle distanze e una brusca frenata, in pochi anni, dell’ascensore sociale. Di segno oppo­sto il fenomeno verificatosi nei paesi emergenti, con una classe media in forte aumento a partire dall’inizio degli anni Novanta e che si arricchirà di altri due miliardi di persone da qui al 2030, in particolare in paesi quali i BRIC (Brasile, Russia, India e Cina).

Molteplici fattori hanno contribuito a tali fenomeni. In primo luogo, l’affermarsi dell’era della globalizzazione, anche grazie alla nuove tecno­logie dell’informazione e della comunicazione. L’estendersi dello svilup­po e dell’industrializzazione a molti paesi dell’Asia del Pacifico – innan­zitutto alla Cina – sospinti dalla delocalizzazione dei comparti e delle fasi produttive a più alta intensità di lavoro ha avuto tra le sue conseguenze la creazione di un eccesso di forza lavoro a più bassa specializzazione negli Stati Uniti e in Europa. Più di recente, la forte sperequazione dei redditi e della ricchezza ha contribuito a generare la Grande crisi, determinando una crescente divaricazione fra capacità produttiva (offerta), da un lato, e redditi (domanda), dall’altro. Una distanza che è stata coperta per molti anni dal massiccio aumento dell’indebitamento privato e degli strumen­ti della finanza creativa, ma è poi esplosa con la crisi finanziaria del 2007-2008. Le diseguaglianze hanno poi continuato ad aumentare, visto che i costi di aggiustamento della crisi negli ultimi anni si sono riversati più intensamente sulle classi di reddito basse e medio-basse.

Se guardiamo all’Italia, ad esempio, i redditi medi delle famiglie italiane hanno subito, a partire dal 2007, una netta flessione e sono ritornati ai livelli di inizio anni Novanta. I giovani in particolare hanno pagato – e stanno pagando – un prezzo elevatissimo.

A fronte di queste tendenze, nessun paese avanzato – tranne poche eccezioni – ha messo in campo politiche redistributive, per cercare di mitigarne gli effetti più negativi. Al contrario, le politiche fiscali hanno contribuito in questi anni – non solo in Italia – a spostare progressi­vamente l’onere fiscale dalla ricchezza verso il ceto medio e il lavoro. L’imposizione fiscale sui salari è aumentata nel tempo e quella sui capitali è diminuita. Allo stesso tempo, la quota delle imposte sul reddito ha costantemente perso d’importanza sul totale delle entrate fiscali, mentre sono aumentate fortemente le quote provenienti dai contributi sociali, dall’IVA e da altre imposizioni sulle transazioni. Tutte scelte che veniva­no presentate e giustificate sul piano tecnico come dettate dalle superiori esigenze delle forze di mercato. Si sosteneva, in effetti, che tassare il lavo­ro più del capitale fosse necessario per favorire la crescita, perché gene­rava maggiori incentivi sia per il binomio risparmi-investimenti che per quello innovazione-imprenditorialità. Una crescita più elevata sarebbe poi andata a vantaggio di tutti, anche delle classi più povere, attraverso fenomeni di percolazione (trickle-down growth).

Non è andata affatto così, come sappiamo. Le deludenti performance e le drammatiche sperequazioni di reddito e ricchezza che si sono prodot­te in questi anni hanno disvelato pienamente le ragioni squisitamente politiche che stanno dietro le scelte di concentrazione dei redditi e della ricchezza effettuate in passato. Una abbondante e crescente letteratu­ra ha offerto ulteriori autorevoli conferme in questa direzione. Più di recente, anche il Fondo monetario internazionale ha dimostrato in un suo studio come non sia affatto vero che le diseguaglianze favoriscano le potenzialità di crescita di un’economia. Semmai, è vero il contrario. Allo stesso tempo è possibile dimostrare che le politiche redistributive messe in atto per ridurre le diseguaglianze sono in grado di generare effetti po­sitivi sulla crescita, grazie a tutta una serie di favorevoli impatti indiretti.

Andrebbe finalmente preso atto che miglioramenti della distribuzione dei redditi e della ricchezza sono pienamente compatibili con un effi­ciente funzionamento dell’economia di mercato, in direzione di una crescita elevata e sostenibile. Si devono mettere in campo strumenti e misure d’intervento che siano in grado di migliorare l’eguaglianza delle opportunità oltreché colmare le diseguaglianze nelle condizioni di par­tenza, realizzando allo stesso tempo una combinazione virtuosa tra dina­ mismo dei mercati e un’effettiva redistribuzione. Alcune di queste azioni (quali politiche del lavoro e di welfare, nuove strategie di lotta alla pover­tà e all’esclusione) vengono individuate con riferimento al nostro paese nei contributi a questo numero della rivista. Esse vanno nella direzione di riaffermare quel delicato giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici che è alla base dell’efficiente funzionamento di un’econo­mia di mercato orientata alla crescita. Un equilibrio che negli ultimi de­cenni la fase del liberismo ideologico e della globalizzazione senza regole ha spezzato, generando diseguaglianze e crescenti instabilità, oltre a una eccessiva concentrazione del potere economico e finanziario nelle mani di una ristretta élite.

Come affermato qualche mese fa dal presidente Obama in un suo im­portante intervento, la lotta alle diseguaglianze economiche rappresenta la sfida politica fondamentale della nostra epoca. Ma occorre far presto, prima che certe tendenze perniciose, pericolosamente in atto, arrivino a compromettere ancor più il tessuto e la tenuta sociale su cui si basano il sistema democratico del nostro paese e degli altri paesi più sviluppati.

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