Nancy Pelosi, esperienza e capacità di mediazione

Written by Martino Mazzonis Tuesday, 12 March 2019 16:14 Print


«Durante una trattativa difficile, ti taglierà la testa senza che tu nem­meno te ne accorga». Alexandra Pelosi sa di cosa parla, è una dei cin­que figli avuti in sei anni dalla speaker della Camera Nancy Patricia D’Alesandro (una esse) Pelosi, sola donna ad aver ricoperto il ruolo nella non più breve storia degli Stati Uniti. A sua volta l’incarico più alto mai ricoperto da una figura femminile con l’eccezione di quelli non elettivi alla Corte suprema.

Crescere a Baltimora, in una famiglia di solida tradizione politica e italo-americana – diciamolo con franchezza – è una palestra ottima per imparare a navigare nelle difficili acque della politica istituziona­le. Non tanto e non solo tra i flutti del consenso, ma tra le dinamiche delle macchine elettorali, delle relazioni, della strategia parlamentare. In questi tre campi Nancy Pelosi è una maestra indiscussa. Ve lo diranno i suoi avversari, ve lo diranno i suoi amici, ve lo diranno i suoi alleati.

E ve lo spiegherebbe bene Donald Trump, se solo si decidesse ad ammettere che la speaker democratica gli ha tenuto testa e lo ha messo nell’angolo quando si trattava di negoziare sullo shutdown, la sospensione temporanea delle attività dello Stato federale in caso di mancato rifinanziamento, dovuta alla difficoltà di trovare un accor­do per aumentare il deficit, una misura che in teoria i partiti votano ogni anno senza discutere e che da qualche tempo è divenuta l’enne­simo terreno di scontro in Congresso. O quando gli ha fatto ombra con il suo atteggiamento durante il discorso sullo Stato dell’Unione, con gli occhi fissi sul testo pronunciato dal presidente e, poi, con un applauso che, come ha scritto un’altra figlia, Christine, «mi ha riportato indietro agli anni dell’adolescenza, quando quello sguardo significava “So quel che hai fatto e so che sai che lo so. E sono molto delusa che tu possa aver pensato che funzionasse”». Del resto, Pelosi, da madre e nonna, riferendosi al presidente, ha proprio fatto cenno alla sua esperienza: «riconosco i capricci umorali quando li vedo». Con questo atteggiamento serio e duro, ma non oltraggioso, nei confronti del presidente, la speaker ha ottenuto di spiazzare un avversario che si trova invece a suo agio sul ring e lan­ciando insulti via Twitter. È successo durante il discorso sullo Sta­to dell’Unione e negli incontri nei quali si trattava sullo shutdown, quando l’unica donna nella stanza ha messo a tacere il presidente senza bisogno di alzare la voce. Al presidente, che aveva lasciato in­tendere che forse la signora non era nella posizione di negoziare non essendo ancora stata eletta speaker, la Pelosi pare abbia risposto chie­dendogli di non dilungarsi nel descrivere la forza che portava con sé a quel meeting come leader dei democratici alla Camera: «abbiamo appena vinto molto bene» pare abbia rimarcato. Il tema non era insomma se Pelosi fosse ancora “solo” leader del suo grup­po e non speaker della Camera; a quell’incontro rappresentava la nuova maggioranza. È questo tipo di atteggiamento, educato ma molto rigido, a mettere in difficoltà Trump. Di fronte, in fon­do, ha una signora non più giovane, e mancarle di rispetto sarebbe un atto grave. Così l’applauso e le risposte di Pelosi al presidente sono diventate materiale per i social e hanno migliorato molto l’immagine della presto settantanovenne rappre­sentante della California e due volte speaker del­la Camera. Non era scontato, perché in fondo anche lei è un pezzo di quel vecchio establishment che di questi tem­pi non va granché di moda. Non negli Stati Uniti, non in Europa, non in Italia.

La vittoria dei democratici alle elezioni di metà termine – e le pri­marie che hanno preceduto quel voto – ha infatti lanciato un segnale chiaro: gli elettori vogliono facce nuove, rappresentative di una so­cietà che cambia, giovani e radicali. Non una norma priva di ecce­zioni – diversi candidati radicali non sono stati eletti – ma certo era difficile pensare che il volto nuovo dello speaker della Camera potes­se essere Pelosi. Al contrario, invece, Nancy, la regina del fundraising democratico, ha tirato diritto, non mettendo mai in dubbio la sua candidatura e, dopo qualche settimana dal voto, è apparso chiaro che fino al 2020 la leader democratica (nel senso di figura con il ruolo istituzionale più importante) sarebbe stata lei.

La verità è che non era la prima volta che la sua leadership veni­va messa in discussione. Dopo la sconfitta di Hillary Clinton, Tim Ryan, rappresentante dell’Ohio e storico alleato della speaker, aveva corso contro di lei per la carica di capogruppo (i democratici era­no in minoranza fino allo scorso novembre). Ryan proviene da uno degli Stati ex industriali passati a Trump e sosteneva che occorresse un messaggio meno diversificato e tagliato sui mille gruppi che i dem cercano di rappresentare. La sua idea era di occuparsi meno dei diritti dei neri, degli ispanici, della comunità LGBT, delle donne e puntare invece su un messaggio unificante tra questi gruppi, ma anche di rinnovare il modo in cui ci si relaziona con il pubblico: il rappresentante dell’Ohio prometteva di avere molti portavoce che dessero corpo al messaggio. L’idea non ha avuto successo e le elezioni del 2018 sono state condotte nel modo tradizionale. Contro la Pelosi erano poi potenzialmente schierati i moderati, in cerca di visibilità e preoccupati per la svolta a sinistra, a loro parere troppo radicale, che stava interessando il partito. Una sinistra appena arrivata in Congres­so e capitanata da Alexandria Ocasio-Cortez, nata due anni dopo lo sbarco di Nancy Pelosi a Washington.

La Pelosi aveva problemi a destra e a sinistra. È ricca, la sua famiglia ha in mano molte azioni delle grandi corporation tecnologiche che hanno sede nel suo distretto elettorale, possiede diverse proprietà im­mobiliari e una vigna nella Napa Valley di enorme valore. Ed è una delle figure centrali per il fundraising del partito: a San Francisco e in California i miliardari non mancano e la Pelosi è bravissima nel convincerli a donare al suo partito. Questo, oltre alla totale assenza di novità e cambiamento, ne faceva un potenziale bersaglio della nuova sinistra. Le posizioni tipicamente californiane sui diritti LGBT, sulla liberalizzazione della marijuana, sull’aborto, in materia di tasse (votò contro le riforme di Bush come di Clinton), e anche l’opposizione alla guerra in Iraq ne hanno fatto invece un esponente di quel che resta del centro moderato democratico che proviene da quegli Stati dove le posizioni troppo estreme vengono vissute come un problema in termini di consenso (non è tema di questo articolo, ma si tratta di una posizione opinabile: su alcune grandi e piccole riforme i sondag­ gi indicano uno spostamento netto dell’elettorato americano e una politica che pare essere molto più conservatrice e ingessata di quanto non sia la società). Anche dai centristi il tema della mancanza di no­vità era avvertito come rilevante, e i media sono sembrati per qualche tempo dare molto spazio a queste argomentazioni.

Possiamo quindi dire che Nancy Pelosi sia superata dai tempi? Nien­te affatto: è una locomotiva merci a diesel: va lentamente, senza cla­more, ma arriva a destinazione. La speaker riesce a mantenere rapporti continui con tutti i rap­presentanti o quasi (compresi alcuni del partito avversario). Si tratta di una capacità che si dice potrebbe essere frutto di quanto fatto da bam­bina per il padre Thomas D’Alesandro jr., quat­tro volte eletto alla Camera dei rappresentanti e per dodici anni sindaco della città dove Pelosi è nata. Da bambina Nancy annotava su un qua­derno, in bella grafia, i favori fatti e dovuti al padre. Una scuola d’altri tempi, insomma, che pare funzionare ancora benone: il Congresso è un luogo di relazioni e scambi. Non necessaria­mente nel senso deteriore.

E così, a pochi giorni dalle elezioni, la futura speaker portava a casa il sostegno di Ocasio-Cortez, segnalando in qualche modo di aver convinto la sinistra che per ottenere risultati non basta elencarli e farsi eleggere, ma servono voti in Congresso e profonda conoscenza delle procedure. Quella stessa conoscenza che ha consentito alla speaker di far approvare la riforma sanitaria voluta da Obama a una Camera che era ancora composta dal centro clin­toniano, scottato dai tentativi del presidente degli anni Novanta di toccare la materia. Le urla a porte chiuse contro i Blue Dogs (il grup­po moderato del partito, maggioritario fino agli anni Duemila, oggi quasi scomparso) ancora echeggiano per i corridoi della Camera.

Come ha fatto Pelosi a convincere la sinistra? Innanzitutto promet­tendo che dopo il 2022 non cercherà un nuovo incarico – avrà 82 anni, certo, ma che non venga rieletta non è nemmeno pensabile, in tanti anni il suo avversario più votato ha preso il 19%. Poi, ricor­dando ai nuovi rappresentanti che lei, quando a 47 anni è giunta per la prima volta a Washington, era proprio come loro, espressione di una San Francisco liberal e tormentata dall’AIDS in un paese che ancora non riconosceva il problema. E in aggiunta, ricordando come senza di lei numerose leggi, non solo la riforma sanitaria, sarebbero rimaste lettera morta. Compito dello speaker non è dire le cose nel modo migliore, ma negoziare, mediare, offrire modifiche alle leggi in maniera da renderle appetibili per un territorio o un gruppo che non le vede di buon occhio. Se davvero una qualche forma di Green New Deal dovesse arrivare al voto in Congresso, servirà uno speaker che lo faccia votare. La rivolta dell’ala destra del partito è stata un altro fattore che ha convinto la sinistra. Meglio avere una vecchia volpe tua quasi alleata che non un avversario interno.

Dunque Pelosi, pur di fare la storia due volte – è la seconda persona in assoluto a tornare a fare lo speaker dopo essere passata per l’oppo­sizione – si è arresa al vento di sinistra? L’occupazione del suo ufficio da parte di attivisti chiamati dalla Ocasio-Cortez in Congresso l’ave­va spaventata? Macché. La speaker fa la speaker e non cambia modo di essere o di fare. Quando si è trattato di fare le nomine nelle com­missioni ha deciso che Ocasio-Cortez non sarebbe andata in quella Energia e Commercio – dopo aver mancato pure la commissione più importante, quella Bilancio, della quale per anni ha fatto parte Joe Crowley, alleato di Pelosi sconfitto a sorpresa nelle primarie dal­la freshwoman democratica. E a una domanda sul Green New Deal ha risposto: «Vedo che c’è grande entusiasmo attorno a quelle idee. Bene».

Nella stessa intervista Pelosi ha detto di considerare il cambiamento climatico come il tema su cui più si è impegnata in prima persona e ha ricordato che la prima commissione sul clima in Congresso l’ha voluta lei nel 2008. Il Green New Deal sarà una delle tante proposte di cui la commissione dovrà tenere conto. Parole gentili e la consa­pevolezza che l’entusiasmo o la spinta di una base militante, anche forte, non sono abbastanza per far passare grandi riforme. Per quanto possa apparire come una follia (dei repubblicani cui evidentemente non interessa il destino dei loro nipoti), i democratici hanno sbattuto il naso sul tema del clima molte volte. «Stavolta dovremo approvare una legge con un consenso ampio» ha detto Pelosi. Ci sono repubbli­cani da convincere? Probabile: gli effetti del cambiamento climatico si fanno sentire in diversi Stati dove comanda il partito dell’elefante e molti rappresentanti probabilmente voterebbero misure per con­ trastarlo. Ma non una legge che mette assieme il clima, la lotta alla povertà e il lavoro garantito. Anche se una ratio nel mettere le cose assieme c’è: se vuoi trasformare i meccanismi di un’economia e ren­derli compatibili con l’ambiente generi nuovi disoccupati in alcuni settori mentre crei lavoro altrove.

L’esempio del clima è perfetto per capire come ragiona Nancy Pelosi. Per lei l’obiettivo è ottenere risultati. Il Congresso dovrebbe servire a quello. Se i giovani liberal o i lobbisti ci rimangono male il problema è loro. Sarà anche per questo che Ocasio-Cortez ha dichiarato che la speaker sta facendo un ottimo lavoro. Forse ha capito la filosofia, for­se ha capito che se vuole ottenere qualcosa è meglio lavorarci assieme che non averla come nemica. O magari ha letto una frase che per cer­ti aspetti è una dichiarazione di intenti sul suo lavoro: «Il fatto è che chi è un sostenitore mili­tante a favore di qualcosa tende a essere insoddi­sfatto, ostinato e inesorabile. Qualsiasi cosa gli eletti facciano è frutto di un compromesso, non è puro abbastanza». Sarà interessante osservare se l’atteggiamento bonario e un po’ paternalistico con il quale la speaker tratta i freshmen continue­rà a funzionare e se questi accetteranno l’idea che per vincere si fanno anche compromessi.

Le settimane dello shutdown hanno dimostrato che di compromessi, la Pelosi, non è pronta a farne con il presidente se non su temi seri e veri: le infrastrutture, il prezzo delle medicine, la crisi da dipendenza di eroina che devasta alcuni Stati. Sul muro con il Messico non è arretrata di un millimetro. Sapeva bene che era impossibile dare la colpa al suo partito per il blocco del sistema federale e che Trump non sarebbe stato capace di gestire una crisi durante la quale decine di migliaia di persone si sarebbero trovate senza stipendio. Il presidente non conosce in prima persona le difficoltà della vita e non ha nessuna capacità di immedesimarsi con i problemi degli altri. Pelosi sapeva anche bene che sul muro l’ala sinistra del suo partito non avrebbe accettato compromessi. Quello è un capriccio elettorale del presidente, non una policy che affronta un problema. E così, senza cedere, rimandando lo Stato dell’Unione di due settimane, aspettando, ha messo all’angolo Trump e il suo parti­ to, ottenuto concessioni ed è tornata a negoziare. Senza acrimonia. E con questo atteggiamento ha riconquistato consensi nel suo partito.

Non che fosse quello il suo obiettivo, perché in un’epoca di divisioni, polarizzazione politica, toni eccessivi, Pelosi gioca un’altra partita. Quella secondo cui nelle istituzioni ci si comporta in maniera istitu­zionale. Tutta colpa dell’educazione cattolica.