Gestione del dissenso, tecnologia e società nella Cina che cambia

Written by Alessandra Cappelletti Tuesday, 17 March 2015 11:58 Print

Per comprendere appieno il fenomeno del dissenso e della sua gestione in Cina occorre contestualizzarlo nell’ambito di un paese che sta attraversando profonde trasformazioni, verso una nuova dimensione internazionale, ma che rimane per molti versi solidamente ancorato al suo retroterra culturale e alla sua visione, confuciana, della gerarchia sociale. È in quest’ottica che va inquadrato anche il blocco dell’accesso ai social network occidentali imposto dal governo centrale. Secondo la mentalità cinese, infatti, non può esserci libertà di stampa senza controllo. Sarà dunque interessante vedere come sapranno interagire, in un futuro prossimo sempre più informatizzato, internet e società civile.

La Cina è un paese che sta attraversando profonde trasformazioni. I cambiamenti in corso non sono veloci come possono sembrare a un primo sguardo e, proprio perché graduali, si configurano come più incisivi e duraturi. La società, l’economia, la proiezione del paese come potenza, nonché la sua cultura millenaria, si trovano in una fase storica le cui caratteristiche e i cui effetti avranno un forte impatto – come già possiamo constatare – sulla vita di tutti noi. Negli ultimi trent’anni il governo cinese ha fatto enormi passi avanti rispetto a una serie di problematiche penalizzanti ai fini dello sviluppo di un paese in un contesto globale: milioni di persone sono uscite dalla povertà; riforme economiche e della giustizia stanno ridisegnando il volto della politica e della società cinese; il contesto produttivo e il mondo del lavoro si stanno sviluppando e diversificando e la leadership di Pechino si siede con sempre più sicurezza ai tavoli internazionali. La Cina, in termini di soft, hard e smart power, sta adottando politiche sempre più sofisticate.1 I progressi in campo economico e sociale stanno chiaramente fungendo da volano per guidare la Repubblica Popolare Cinese, nata nel 1949, verso una nuova dimensione di credibilità internazionale, nonché per l’acquisizione di una nuova fiducia in se stessa e nelle proprie potenzialità. In questo contesto, anche le dinamiche di gestione del dissenso stanno cambiando.

Ogni realtà che vive trasformazioni profonde, che portano a riconsiderare e ridefinire la propria identità in relazione al nuovo ruolo che si è chiamati ad assolvere, dentro e fuori i propri confini, presenta necessariamente delle contraddizioni. In questo momento la Cina ha davanti a sé sfide di vasta portata quali la questione ambientale, le radicali trasformazioni sociali indotte dalle riforme economiche, la ridefinizione dei rapporti tra i protagonisti della politica e della società. È in questo contesto che va inquadrata la dimensione del dissenso interno (includendo anche i dissidenti che vivono fuori dal paese), che in Cina assume molte sfaccettature e ha implicazioni diverse a seconda della sua origine. Tra le maggiori cause di dissenso si possono citare le istanze di parte della popolazione appartenente a minoranze etniche e religiose, che non si sente adeguatamente rappresentata dal governo di Pechino e non approva le sue politiche. Questa tipologia di dissenso può essere motivata da una richiesta di maggiore autonomia oppure di vera e propria indipendenza. Un’altra fonte di dissenso deriva dal rapido processo di urbanizzazione e dalle conseguenti dinamiche di “riqualificazione urbana”, che includono sfratti e demolizioni portati avanti da autorità locali che attuano misure discutibili. Le questioni legate al mondo del lavoro, come ritardi nei pagamenti degli stipendi, ritorsioni sulla popolazione e abusi di potere da parte dei funzionari locali, limitata libertà di stampa e di espressione quando si tratta di affrontare tematiche politiche e sociali considerate sensibili, possono tutte essere annoverate tra le cause di dissenso nella Cina di oggi. L’avvento dell’era della comunicazione online ha offerto una piattaforma e dei canali privilegiati di espressione in un paese in cui le manifestazioni di piazza e ogni forma di aggregazione non autorizzata sono illegali, anche se molto frequenti.

La contestualizzazione del fenomeno è fondamentale per capirne la portata e il possibile impatto futuro: chi ha vissuto tanto tempo in Cina, ha una conoscenza adeguata della cultura e della lingua del paese e segue quotidianamente gli sviluppi della società e della politica cinesi sa che la realtà sul campo parla di condizioni economiche che stanno migliorando in tutto il paese (per alcuni sensibilmente, per altri meno, ma comunque, nonostante l’aumento delle diseguaglianze sociali, stanno migliorando) e di una popolazione che fondamentalmente riconosce al governo il merito dei successi ottenuti. In questo momento la maggior parte dei cinesi ha timore di un cambio al vertice, violento o non violento, magari guidato da principi di sistemi democratici di stampo occidentale al momento profondamente in crisi. Questo non significa che ci sia piena soddisfazione, ma che Pechino, a oggi, gode di un consenso generalizzato che si è guadagnato con una serie di politiche e di passi che hanno migliorato le condizioni di vita della gente. A prescindere da ciò che alcuni media occidentali vogliono proporre, il dissenso non è il fenomeno più significativo e rappresentativo della Cina di oggi, sia in termini quantitativi che qualitativi. Si può, dunque, ragionevolmente sostenere che, in linea generale, questo per la Cina è un momento d’oro: i cinesi sanno che le possibilità di migliorare la propria vita stanno aumentando (soprattutto quelle “capacitazioni” di cui parla Amartya Sen),2 che questo avviene grazie al governo in carica, il quale ha un chiaro “semaforo verde” per portare avanti le sue politiche. Il consenso del popolo, così come il “mandato del Cielo”, sono concetti di prima importanza nella tradizione politica cinese.3 Questo ribaltamento di prospettiva rispetto al mainstream mediatico occidentale si rende necessario se si vuole avere una presa più diretta sull’attuale situazione del dissenso in Cina, senza voler negare l’esistenza di forme di repressione delle libertà di espressione e di confessione, nonché di condanne e processi politici.

Le due dimensioni principali della gestione del dissenso in Cina sono quella locale, controllata dalle autorità a livello territoriale,4 e quella nazionale, che vede gli alti organi del governo impegnati nella supervisione e nella repressione di atti o scritti potenzialmente pericolosi per la stabilità sociale o che contestano direttamente il sistema e il potere centrale.5 Queste due diverse dimensioni si incontrano quando le autorità a livello locale non sono in grado di gestire controversie e dissenso, o perché direttamente coinvolte o perché incapaci di applicare procedure legali e burocratiche di per sé poco chiare. Inoltre, considerazioni di natura storica, culturale e sociologica sono alla base delle modalità di gestione di queste due dimensioni del dissenso. La storia della Cina è piena di dissidenti, alcuni famosi altri meno, e di punizioni esemplari per coloro che non si conformano alla linea stabilita. Dissentire non era, infatti, solo appannaggio di intellettuali, artisti e letterati, ma anche il popolo, nella Cina imperiale, aveva il diritto di dire la sua. Il “sistema delle petizioni” prevedeva che i sudditi potessero protestare contro abusi subiti da funzionari governativi, facendo appello all’umanità dei governanti di grado superiore. Questo canale era utilizzato soprattutto in caso di controversie con funzionari locali, che non potevano dunque essere imparziali nel giudizio, o in caso di sfiducia negli apparati governativi intermedi. Grazie a questo meccanismo il suddito aveva la possibilità di rivolgersi direttamente all’imperatore, scavalcando i funzionari di grado intermedio, in modo che chi dissentiva aveva la percezione di avere a che fare con un potere strutturato secondo una gerarchia che, in casi estremi, poteva essere messa in discussione e scardinata. Questo sistema si è tramandato fino a oggi: il cittadino che voglia denunciare di aver subito danni da parte di funzionari governativi e che, per un motivo o per l’altro, non abbia fiducia in una possibile risoluzione del suo caso può indirizzare una petizione allo Ufficio statale per le lettere e le chiamate (xinfangju o xinfangban). Questo sistema è molto usato e dal 2013 è possibile indirizzare le petizioni direttamente online attraverso il sito dell’Ufficio statale (www.gjxfj.gov.cn/). Va in questa direzione la recente attivazione di due tribunali distrettuali della più alta istanza giudiziaria cinese, la Corte suprema del popolo, concepita nell’ambito del più ampio progetto di rinnovamento del sistema.6 I punti di vista dei giuristi sono diversi: c’è chi sostiene che questi canali siano solo un surrogato di un sistema legale funzionante e auspica, per la Cina, un vero e proprio Stato di diritto sul modello occidentale e c’è chi, invece, ne individua i vantaggi. Di fatto anche oggi la maggior parte delle petizioni – che riguardano principalmente espropriazioni, pestaggi e detenzioni illegali da parte delle autorità – rimangono inascoltate. Invece di cercare di andare incontro alle richieste, Pechino stabilisce delle penalizzazioni per quelle autorità locali che ricevono un numero alto di petizioni e premia le altre. A causa di ciò, le autorità locali hanno tutto l’interesse a che nessuno presenti petizioni contro di loro, per cui utilizzano qualsiasi mezzo (pestaggi, detenzioni, ritorsioni di vario genere) per impedire a chi è sotto la propria amministrazione di inoltrarne. Questa situazione esaspera la condizione dei petitioners, che spesso compiono atti estremi.7 Nella cultura cinese non è visto di buon occhio chi porta avanti istanze individuali che non vadano in qualche modo a beneficio anche della collettività. La società cinese è variegata e poliedrica, ma nello stesso tempo il rispetto delle gerarchie familiari e di status, per la “faccia” (mianzi), per le autorità, è il cardine della società, per questo il dissenso in quanto tale (considerando chi si espone in prima persona per denunciare diritti lesi o rivendica un diritto o l’attribuzione di un bene) generalmente non attrae simpatie o consenso. Questo è dovuto sicuramente all’influenza del pensiero confuciano, che vede la società organizzata in un sistema gerarchico di ruoli e funzioni, ma anche a una propaganda molto efficace, che enfatizza il primato delle esigenze collettive rispetto a quelle individuali. Questa situazione sta lentamente cambiando, con un aumento dei fenomeni di dissenso nelle zone della costa sudorientale, le più sviluppate. Nel 2014 è stata la provincia del Guangdong – che produce più di un quarto dei beni cinesi da esportazione – ad avere il primato per le manifestazioni legate a problemi sul lavoro.8

Al momento, l’espressione del dissenso attraverso piattaforme online è sicuramente una delle forme più preoccupanti per Pechino, il cui controllo si concretizza in una supervisione ferrea della rete (attraverso un sistema che si chiama Great Firewall, in italiano “grande muraglia informatica”) e nella censura di piattaforme, informazioni, commenti e dati considerati sensibili. Lo zelo dell’amministrazione che gestisce il controllo della rete internet, la Cyberspace Administration of China, è dimostrato da un’esibizione dei suoi dipendenti in occasione del capodanno cinese, che esalta, in termini sublimati e poetici, il controllo di internet.9 Nonostante questo, è innegabile che l’avvento della rete abbia dato a una popolazione con un grado di scolarizzazione sempre più alto la possibilità di esprimersi e discutere e, secondo alcuni analisti, questo potrebbe rappresentare un primo passo verso un sistema più democratico. Come dimostrano gli studi degli autori cinesi, le piattaforme dei social network, così come i blog e i “micro blog”, hanno contribuito in modo sostanziale all’aumento di proteste e “incidenti di massa”, espressione quest’ultima utilizzata per indicare manifestazioni e proteste spontanee oppure organizzate senza autorizzazione.

In linea generale, il dissenso che si esprime online riguarda dinamiche politiche, non necessariamente centrali, ma locali. Volendone dunque fare un’analisi, ci sarebbe più di una Cina da studiare. Il dato di fatto è che la popolazione cinese è sempre più educata al consumo mediatico, che sta diventando sempre più sofisticato. Due tra i dissidenti molto conosciuti per la loro presenza online sono Ilham Tohti, il docente uiguro condannato all’ergastolo nel settembre 2014 per le posizioni considerate “separatiste” pubblicate nel suo blog Uighurbiz.net, e l’artista Ai Weiwei, che su Twitter ha quasi 300.000 follower. Come sappiamo, le maggiori piattaforme di social network che si usano in Occidente sono vietate in Cina (Facebook, Twitter, YouTube) e sono sostituite da piattaforme locali simili come RenRen, Sina Weibo, Douban, tutte controllate da sistemi e organi preposti alla censura. Questo non impedisce ai netizen cinesi di utilizzare i social network più popolari in Occidente: basta disporre di un software che, per pochi euro al mese, attiva una VPN (virtual private network) e in questo modo è possibile scavalcare la censura e avere accesso a tutti i contenuti online. Proprio negli ultimi mesi stiamo assistendo al blocco di molti servizi VPN, una situazione denunciata come negativa anche dalla Camera di commercio dell’Unione europea in Cina.10 Alla base di queste misure drastiche ci sono diversi elementi, tra cui una politica sempre più restrittiva da parte della leadership al potere e un diverso concetto di informazione e società.

Informare in Cina significa essenzialmente “educare”, non fornire dati e informazioni, che – secondo Pechino – possono essere facilmente strumentalizzati. Il buon funzionamento della società necessita, inoltre, di una certa dose di controllo, così come dimostrano in modo eloquente le reazioni cinesi alla strage al settimanale satirico francese “Charlie Hebdo”. Mentre una piccola parte dell’opinione pubblica cinese si è schierata con il motto “Je suis Charlie”, un’altra, molto consistente, è rimasta impressionata dalla schiettezza delle vignette e da come non si fosse pensato che quelle immagini avrebbero potuto scatenare una reazione violenta da parte della popolazione di fede musulmana in Europa. I media cinesi stanno molto attenti alle provocazioni mediatiche che possono ferire la sensibilità dei credenti, anche in virtù di esperienze analoghe degli anni Ottanta con la popolazione musulmana cinese, quando pubblicazioni ritenute offensive per i fedeli islamici furono ritirate dagli scaffali. Gli editoriali scritti all’indomani della strage di Parigi sottolineavano il fatto che una libertà di stampa senza controllo, che permetta di scrivere qualsiasi cosa senza dover pensare alle conseguenze, può ledere la convivenza tra popolazioni diverse e la stabilità della società stessa. L’informazione lasciata alla mercé dell’opinione pubblica è, dunque, reputata manipolabile, controproducente, se non pericolosa. Se non si arriva a comprendere i punti di riferimento culturali e il background teorico da cui i pensatori cinesi e l’opinione pubblica cinese partono, è molto difficile comprendere la Cina di oggi.

Diversa la situazione che abbiamo potuto osservare durante le proteste di Hong Kong, che hanno tenuto media e China watchers sulle spine per settimane, nel timore di una alquanto improbabile “altra Tiananmen”. Le manifestazioni, infatti, sono state gestite secondo modalità seguite anche nei paesi democratici, cioè con un massiccio dispiegamento di polizia che ha sporadicamente utilizzato lacrimogeni e gas urticanti. I riflessi delle voci provenienti dalla ex colonia inglese, che chiedevano un’interpretazione in senso più democratico della Basic Law in materia di suffragio universale da parte del nuovo governatore, sono arrivati all’opinione pubblica cinese attraverso le VPN, poiché siti e media ufficiali non riportavano ciò che stava accadendo. Nella Cina continentale non c’è stato supporto a quelle istanze, i commenti che si leggevano su social media e siti cinesi da parte dei coetanei dei manifestanti di Hong Kong parlavano di un certo disappunto nel vedere ragazzi benestanti protestare contro un governo che ha sempre favorito lo sviluppo dell’isola e che parte della popolazione di Hong Kong in realtà sostiene. L’isola, infatti, è uno dei posti al mondo con il PIL più alto e questa crescita economica è stata fortemente incoraggiata dal 1997, quando ci fu il passaggio dal governo coloniale inglese a quello cinese. A questo proposito, è importante ricordare che parte dei manifestanti erano motivati dal timore di perdere il primato di centro della finanza e perno economico regionale e globale, a favore di altre aree in ascesa come Shanghai, Shenzhen e Guangzhou. Considerando che la tecnologia è utilizzata dai membri della società, ovvero la sua diffusione e il suo utilizzo dipendono dalle condizioni sociali – quindi le condizioni della società formano lo sviluppo tecnologico –, sarà interessante capire come internet e la società civile in Cina interagiranno nel futuro in modo da determinare lo sviluppo di entrambi.


[1] Un esempio di come la diplomazia occidentale oggi guardi alla Cina per cercare di trovare soluzioni ai propri deficit in materia di proiezione di soft power si può trovare nell’analisi di F. S. Montesano, Istituti Confucio, una prospettiva politologica sui “draghi di Troia”, in “cinaforum.net”, 11 febbraio 2015, disponibile su www.cinaforum.net/istituti-confucio-prospettiva-politologica-sui-draghi-troia-843/

[2] A. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano2000.

[3] Per una storia del dissenso in Cina in relazione al concetto di “mandato del Cielo” siveda E. J. Perry, Challenging the Mandate of Heaven. Social Protest and State Power in China, M. E. Sharpe, Armonk 2002.

[4] In questo ambito rientrano le rivolte avvenute nel villaggio di Wukan, nella provinciadel Guangdong, alla fine del 2011. In proposito si veda S. He, D. Xue, Identity Buildingand Communal Resistance against Landgrabs in Wukan Village, China, in “CurrentAnthropology”, S9/2014.

[5] Si consideri il caso di Ilham Tohti, che ha coinvolto sia le autorità di Pechino che quelle della regione autonoma uigura dello Xinjiang. Si veda A. Cappelletti, Uighur Offline:chi e perché ha imbavagliato il professor Ilham Tohti, in “cinaforum.net”, 23 settembre2014, disponibile su www.cinaforum.net/tohti/

[6] A. Mavelli, Riforma della giustizia, la Corte suprema del popolo si “delocalizza”, in “cinaforum”, 13 febbraio 2015, disponibile su www.cinaforum.net/riforma-giustizia-cortesuprema-popolo-si-delocalizza-597/

[7] Si consideri il caso di Ji Zhongxing, che nel luglio del 2013 ha tentato di distribuire dei volantini all’aeroporto di Pechino per informare i passanti delle sue sofferenze. Dopo essere stato fermato, si è presentato in aeroporto con un esplosivo fabbricato a mano,che ha fatto esplodere dopo aver avvertito le persone di allontanarsi, ed è stato l’unico a essere ferito dall’esplosione. Questo dimostra che non era sua intenzione ferire nessuno,semplicemente non aveva visto altre vie d’uscita per farsi ascoltare dalle autorità governative. I casi di Yang Jia (che nel 2007 ha ucciso sette poliziotti) e di un petitioner della Cina orientale che nel 2012 si è suicidato dentro un ufficio governativo dopo che i funzionari locali gli avevano impedito di inviare una petizione alle autorità di livello superiore sono esempi analoghi.

[8] C. H. Wong, China Labor Ties Fray as Grievances Rise, Economic Growth Slows, in “TheWall Street Journal”, 9 febbraio 2015, disponibile su www.wsj.com/articles/china-labor-ties-fray-as-grievances-rise-economic-growth-slows-1423528666

[9] “Questa rete è una gabbia”, l’inno alla censura visto dagli internauti, in “cinaforum.net”,13 febbraio 2015, disponibile su www.cinaforum.net/inno-censura-reazioni-679/

[10] Camera di Commercio Ue: censura sul web soffoca affari e ricerca, in “cinaforum.net”, 12 febbraio 2015, disponibile su www.cinaforum.net/censura-internet-danneggia-aziende-ue-769/