è segretario nazionale della Federazione Lavoratori della Conoscenza della CGIL.
Della scuola, dei suoi problemi attuali e futuri e di come essa dovrà impegnare il dibattito pubblico non solo oggi ma nei prossimi anni parlano diffusamente in questa sede Giuseppe Bagni ed Eraldo Affinati. Rinvio dunque ai loro preziosi contributi per il merito delle questioni che essi hanno sollevato, che condivido pienamente. Vorrei però affrontare qui un tema decisivo che pure è entrato nel dibattito pubblico in punta di piedi, e poi è stato immediatamente rimosso, per i problemi che esso crea: il conflitto tra diritti costituzionalmente sanciti, del diritto alla salute e del diritto allo studio, apertosi proprio a causa della diffusione dell’epidemia e risolto, sia dal governo che dal Parlamento, in modi che lasciano assai perplessi per effetto di una distorsione della logica emergenziale.
Di cosa parliamo quando parliamo di neoliberismo? E quando parliamo di senso e missione dell’istruzione e dell’educazione? Vi è un nesso fra i due termini? «Il liberismo – ha spiegato Gramsci – è un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale». Il liberismo, dunque, non è «espressione spontanea, automatica del fatto economico», ma è una “regolamentazione” di carattere statale, un fatto di volontà consapevole dei propri fini.
Sulla scuola e sull’università, negli ultimi cinquanta anni, si è giocata un’enorme partita ideologica, che ha a che fare con le egemonie culturali e gli interessi della formazione dei gruppi dirigenti. Progressivamente, la scuola pubblica è diventata il luogo dove le diseguaglianze sociali non vengono ricomposte ma moltiplicate. In un paese dove aumentano le diseguaglianze, la scuola dovrebbe invece essere uno degli strumenti per limitarle. La sottrazione delle risorse e le politiche adottate che hanno cambiato in peggio la scuola e l’università hanno determinato, nei fatti, una sorta di alfabeto dell’esclusione dei molti, a vantaggio dei pochi. Allora come deve essere costruita l’infrastruttura scuola del XXI secolo?
La crisi ha portato clamorosamente alla luce tutti i ritardi che il sistema economico italiano ha accumulato negli ultimi tre decenni, a cominciare da quello gravissimo che riguarda gli investimenti in ricerca, sviluppo e istruzione, individuato già da tempo come causa della peculiare debolezza economica del nostro paese e della nostra specifica crisi. Per recuperare il terreno perduto, anche alla luce delle caratteristiche intrinseche del sistema produttivo italiano, serve un impegno straordinario dello Stato. Solo così potremo davvero entrare nella società e nell’economia della conoscenza.
L’università italiana è tra le ultime in Europa per finanziamenti e per numero di iscritti e laureati, ricercatori e dottori di ricerca. Il quadro, già fosco, si incupisce quando ci si concentra sulla situazione delle università del Sud, sempre più penalizzate da criteri per la distribuzione delle risorse ideati per premiare le realtà con le performance migliori. Quale sviluppo possiamo immaginare per il paese e per il Mezzogiorno senza puntare sull’istruzione superiore e la ricerca?