Il non-comizio ben studiato di Grillo

Written by Michele Prospero Friday, 07 December 2012 11:36 Print
Il non-comizio ben studiato di Grillo Foto: JJ Merelo

Ogni comizio di Grillo segue un canovaccio ben definito, sviluppa un non-discorso in cui viene spezzata ogni struttura logica in modo tale da lasciare che il comico si insinui nello spontaneo moto pulsionale della massa, accecata dall’ira contro dei poteri nascosti che Grillo evoca e rende tangibili come oggetto di scherno.


Talvolta lo precedono le note di un inno. Le cui parole ritmate scolpiscono la fortunata melodia dell’antipolitica odierna: «non siamo un partito, non siamo una casta. Siamo cittadini punto e basta». Poi, esaurito il motivetto, Grillo irrompe come un divo. Una volta sul palco, la scena è tutta sua, i candidati sono delle semplici comparse, ombre senza nome. Fino all’ultimo istante, egli domina l’uditorio, con codici espressivi rudimentali che prevedono una batteria di parole spesso disadorne. Anche la fisicità più rude lo aiuta a esercitare un effetto di trascinamento quasi istintuale in chi attorno al palco ascolta una scarica continua di cattive parole, di scherzi e gesti gettati per rompere in maniera premeditata l’ordine del discorso. Prima ancora di cominciare a intrattenere una folla che nel suo animo pare agitata contro i politici d’ogni colore, intima a chi lo ascolta di deporre le pesanti armi del logos e di seguirlo indifeso nel non-comizio.

Spezzando le strutture logiche del discorso il comico si insinua nello spontaneo moto pulsionale della massa che pare accecata dall’ira contro dei poteri nascosti che egli evoca e rende tangibili come oggetto di scherno. Servendosi di immagini scurrili e di raffiche di invettive sparate a casaccio, Grillo scende al livello elementare della indignazione popolare contro un nemico indefinito e induce all’istante la folla plaudente ad abbassare ogni resistenza cognitiva nei confronti di chi ha il microfono in mano per svolgere un pubblico servizio di rischiaramento e senza altro scopo che quello di smascherare i luoghi macabri del potere. Solo un comico ricco e potente può permettersi di scivolare così in basso nella decostruzione della forma senza scatenare un pronto rigetto da parte di chi ascolta e dovrebbe essere allertato magari in nome del logos tradito da cortocircuiti espressivi, da insaziabili appetiti di semplificazione.

L’accoglienza trionfale che ricevono le sue parole, talvolta demenziali altre volte munite di una qualche soltanto approssimativa verosimiglianza, confermano invece che il comico ha ottenuto dal suo pubblico una piena libertà di manipolazione. L’exordium di Grillo segue un copione molto ripetitivo; senza leggere alcun testo scritto, ma con un canone recitativo che non è improvvisato e per questo avanza sempre uguale in ogni luogo, all’inizio riferisce i dati della questura sull’affluenza. Dedica inoltre un po’ di tempo per snocciolare la sua penetrazione irresistibile nei social network. A chi naviga in rete evoca il trascinamento della piazza reale, alla piazza riunita propone invece la suggestione dell’oceano sterminato dei navigatori.

Con questi richiami ai luoghi della quantità Grillo cerca di lanciare la sensazione di una inarrestabile onda, cui nessuno più resiste. Con i luoghi della qualità, l’oratore traccia invece un solco molto netto tra gli altri («tutti a casa», «i condannati via dal parlamento», i politici «sono schifosi», delle «merde che vanno a puttane tutti i giorni») e i suoi giovani adepti («guardate questi ragazzi: non sono iscritti ai partiti, sono incensurati»), in uno schematismo manicheo che trascende ogni polarità destra-sinistra e non lascia alcun dubbio con chi schierarsi.

Il probare in Grillo, che è avvezzo nell’affrontare tematiche multiformi con l’apparenza della provocazione informata su dati minuti, non ha alcuna rilevanza. Anche quando si accosta ai grandi temi della finanza, della crisi mondiale, non trascende la frase ad effetto che si insinua nella recitazione senza degli ancoraggi solidi. Non ama il logos e quindi procede con le sue parole, che sono un eterno elogio della semplicità, senza stringere molti nessi causali reali tra gli accadimenti, e le proposte di uscita dalle emergenze appaiono dense di fughe e diversivi («quelli della mia età che mi guardano tanto non serve a niente»). Alla catena di solidi argomenti recuperati per persuadere, il comico preferisce un non-discorso attraversato da una sterile carica recriminatoria, studiata apposta per suscitare un flusso emozionale continuo alla ricerca di capri espiatori e di fughe fantasiose.

Cominciano ad affiorare nei suoi affondi, però, talune figure e immagini inquietanti, e anche trame di un lessico sospetto, poco sorvegliato. Spesso sollecita soluzioni drastiche per risolvere il nodo della casta responsabile di ogni male. Nei non-comizi Grillo rivendica il «diritto a fare un processo pubblico ai politici, con una giuria popolare estratta a sorte». Contro il politico di professione (che per Grillo, «non fa un cazzo dalla mattina alla sera») usa a gettito continuo trite metafore mortuarie. A tutti coloro che non apprezza dedica l’espressione “morto”, “stramorto”, “sepolcro”, “anime morte”, “zombie”. La coppia nella sua trama narrativa vede da una parte la vita (lui, eroico nuotatore dello stretto) e dall’altra la spettrale morte (i politici). Abbondante è poi il repertorio blasfemo che però lui definisce un “lessico aristocratico”. Sono solo la ricchezza accumulata e la celebrità mediatica che accompagnano il corpo del comico, che trasformano in attestati di carisma le immagini scurrili che in bocca di qualsiasi altra persona sarebbero considerate solo come la fastidiosa intemperanza di un attempato sporcaccione.

Solo chi si reputa un capo assoluto, in grado di tirare le fila di una folla manipolabile, può permettersi di divagare nel non-senso e di trascurare così a lungo le esigenze del probare. La costruzione del sé in Grillo è molto curata, nel descrivere la propria soggettività privata come qualcosa di pubblico somiglia in parte al repertorio già da altri utilizzato per spiegare la mitica discesa in campo. Parla infatti, anche il comico, di sé, della sua famiglia, dei figli coinvolti in un paese alla rovina, le cui macerie non lo potevano certo lasciare indifferente. «Facevo il comico. Perché giro? Sono un pazzo, a casa mi guardano strano. Pure i miei figli. Non lo so, non potevo starmene fermo a fare il comico. È un sogno in cui sono rinato. Ringiovanisco, con le pacche sulla schiena, con gli abbracci. Sono in mezzo a voi ed è fantastico». La curva della redenzione descrive il percorso di vita esemplare di chi rinuncia a ciò che prima era per tentare di rinascere grazie a un intenso contatto fisico con il pubblico trascinato con il suo esempio verso il traguardo di una “assoluta rivoluzione”.

Le sue parole divaganti e perse nel vuoto semantico, quando recuperano una referenzialità nel significato la rintracciano nella dura invettiva contro lo Stato, contro Equitalia. Il contenuto economico della mimica agitatoria di Grillo («Io invito a non pagare il canone, io non lo pago più») non è diverso da quello della Lega o di Berlusconi. «Io ho paura dello Stato, delle ingiunzioni di pagamento. Equitalia per una multa mette l’ipoteca. Ci sono bollette che non capisci, abbiamo paura. Siamo da soli, andiamo in emergenza, lo Stato non esiste. Una multa, non la recepisco, andate affanculo». Nelle frasi spezzate che si susseguono senza puntuali agganci argomentativi si avvertono lontani echi bossiani per cercare nuovi proseliti tra la piccola impresa con i capannoni infiniti.

I soggetti di Grillo non sono più, come alle origini, i giovani navigatori («La rete è meravigliosa, il mondo lo cambiano i ragazzi non i pensionati di 75 anni»), ma l’elettorato tipico della destra che ha nel fisco il nemico giurato. Per andare oltre la ristretta cerchia degli inizi, il comico moltiplica le immagini per indurre a tollerare l’evasione . Il programma sociale è presto fatto: chiudere un occhio sull’evasione e però rivendicare la pista ciclabile, le energie rinnovabili. Un’evasione dal volto ecologico.

Aristotele sosteneva che il vero problema, nello studio della retorica politica, non è di imbattersi nell’uso di registri scadenti da parte dell’oratore che intende scivolare verso il più infimo livello cognitivo dell’uditorio. L’enigma risiede nella presa che trovano nel pubblico certe sortite dal livello argomentativo invero molto basso, o aggressioni prolungate come quelle di oggi contro la casta («Noi non abbiamo accettato soldi rubati ai cittadini, andiamo avanti con i bambini che chiedono gli euro»).

La questione rilevante non è più Grillo, con le sue sparate semplicistiche e le sue similitudini ardite, ma una fetta di paese che sembra rimanere rapita da annunci spesso banali («Un miracolo, una lista tutta di gente incensurata, non era mai successo»), da schematismi puerili («democrazia o partitocrazia, cittadini o sudditi»), da facili invettive a casaccio («Vanno a mangiare spaghetti alla matriciana insieme»), dai miraggi di una semantica impoverita che sorregge il mito fasullo di una “politica semplice”. Così semplice, quella venduta dal comico che si paragona a Pitagora, da essere terribilmente falsa, senza una storia, priva di radici nella cultura e quindi consegnata a gesti velleitari di un corpo appesantito. Dopo aver toccato i bassifondi per vent’anni, di nuovo si annuncia una politica a formato ridotto che, in spregio alla complessità di una ricognizione critica dei poteri reali, si risparmia la fatica di un pensiero.

 

 


Foto: JJ Merelo

 

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