Sospesa nel cambiamento: l’America alla vigilia delle elezioni

Written by Emiliano Alessandri Monday, 29 October 2012 13:42 Print
Sospesa nel cambiamento: l’America alla vigilia delle elezioni Foto: Barack Obama

Il testa a testa fra Barack Obama e Mitt Romney registrato dai sondaggi in questi giorni rivela il dispiegarsi di una dinamica dagli effetti assai rilevanti: da un lato il recupero apparentemente inarrestabile di Romney, dall’altro l’esaurirsi del capitale di popolarità che Obama aveva saputo accumulare nel 2008. A una sola settimana dal voto è difficile prevedere quale sarà il suo esito; ed è ancora più difficile immaginare quale evoluzione potrebbe subire il Partito repubblicano nel caso in cui dovesse uscirne sconfitto.


A poco più di una settimana dal 6 novembre, l’esito delle elezioni presidenziali americane rimane estremamente difficile da pronosticare. A livello nazionale i sondaggi restituiscono l’immagine di un sostanziale testa a testa tra Barack Obama e Mitt Romney. A livello dei singoli Stati – quello che conta davvero per l’attribuzione degli elettori del collegio che sceglierà il presidente – il candidato democratico pare mantenere un vantaggio, anche se limitato. Nei cosiddetti “swing States” in cui lo scarto tra i due maggiori partiti è così ridotto da consentire maggioranze fluttuanti, Obama gode inoltre di margini più generosi di quelli di Romney. Secondo molti sondaggi, la distanza è di quasi tre punti in Iowa, Nevada, Wisconsin, mentre Romney attualmente si aggiudicherebbe il Colorado e la Virginia per solo una manciata di voti – ampiamente entro il margine di errore. La situazione però è bilanciata dal fatto che la superiorità netta di Obama in Ohio – uno Stato geograficamente, economicamente e demograficamente al centro di transizioni sociali più ampie che vanno oltre i suoi confini – è andata significativamente riducendosi. Alcuni sondaggi ora registrano una situazione di quasi parità tra i due candidati. Romney, inoltre, pare avere consolidato il suo vantaggio in Carolina del Nord, e soprattutto in Florida, che da sola vale 29 dei 270 voti che sono richiesti nel collegio elettorale per aggiudicarsi la presidenza.

Ancora meno facile risulta speculare sulla dinamica dominante in corso. Dopo il primo dibattito presidenziale del 3 ottobre, in cui la prestazione di Obama fu da tutti giudicata sorprendentemente deludente, il Partito repubblicano e la maggior parte dei media hanno parlato di un recupero inarrestabile di Romney, il quale a fine settembre era ancora in netto svantaggio nella corsa. I sondaggi hanno certamente confermato il Romney “surge”. Una lettura scrupolosa rivela tuttavia che tale recupero era in realtà già cominciato in prossimità del primo dibattito e si è in parte arrestato attorno a metà ottobre. Da allora, la macchina elettorale del presidente – sia a livello televisivo che sul campo – ha sferrato il contrattacco. Il risultato è che ora i principali strateghi politici, e i numeri disponibili, sono in disaccordo su chi, tra Obama e Romney, sia nella posizione più favorevole per un eventuale sprint finale. Il quadro è così poco chiaro che vi è chi sostiene che basterebbe una gestione inefficiente dell’uragano che si sta abbattendo sulla costa est a modificare gli equilibri.

Le elezioni del Congresso – che sono separate e seguono logiche e dinamiche proprie – non aiutano a chiarire la situazione. Al contrario di quanto si anticipava solo fino ad alcuni mesi fa, il Senato potrebbe rimanere in mano democratica. Questo sarebbe tuttavia almeno in parte attribuibile al fatto che dei 33 seggi in palio la maggioranza è già controllata dai democratici e ad alcuni candidati decisamente deboli tra le fila dei repubblicani. La Camera dei Rappresentanti vedrà probabilmente una maggioranza repubblicana, forse netta. Ma questo potrebbe dipendere almeno in parte dalla nuova suddivisione dei distretti elettorali. In ogni caso i repubblicani controllano la Camera bassa dalle elezioni del 2010, quando a metà mandato l’ancora principiante Obama fu già costretto a prendere atto del rapido dissiparsi di quello straordinario capitale di popolarità che aveva saputo abilmente accumulare attorno allo slogan – e la suggestione collettiva – di un cambiamento possibile (“Change We Can Believe In”).

Se infatti si passa dal piano più strettamente elettorale a quello politico, è inevitabile ricondurre l’attuale situazione di incertezza sull’esito delle presidenziali all’esaurimento di quello che era stato chiamato quattro anni fa – non senza una qualche ragione – l’“effetto Obama”. Se le indicazioni dei sondaggi saranno confermate, la competizione potrebbe essere tornata nei binari più tradizionali di un confronto tra orientamenti politici ed economici distinti, rappresentati a livello locale da diversi gruppi e incarnati da specifici blocchi sociali e di interesse. L’ingloriosa conclusione della controversa presidenza Bush pare non avere più un ruolo significativo nel determinare l’orientamento di voto. Né lo ha il ricordo della terribile crisi finanziaria che si scatenò a chiusura di un prolungato periodo di prevalenza repubblicana dal 2000 al 2007. Anche il fattore propulsivo dell’“effetto Obama”, dall’elezione del primo presidente di colore all’ambizione espressa in quel contesto di superare logiche ed equilibri di potere consolidati, pare essere stato potentemente ridimensionato.

Infatti, il dato forse più critico da esaminare – ma in ogni caso difficile da prevedere – sarà quello dell’affluenza al voto, in particolare di quei gruppi i cui inediti livelli di mobilitazione contribuirono significativamente alla vittoria di Obama nel 2008: gli afroamericani, la minoranza ispanico-latina, i giovani. Chi studia la politica americana sa che in realtà da decenni ormai si parla di una emergente maggioranza democratica, che rifletterebbe la maggiore disponibilità e abilità del Partito democratico a dare rappresentanza alle istanze delle minoranze in espansione – soprattutto quella sempre più ampia e diffusa sul territorio degli ispanici – e alle nuove tendenze sociali e culturali. Tuttavia, le dinamiche politiche ed elettorali non si nutrono solo di demografia, e i processi di trasformazione della società americana verso equilibri più avanzati a livello culturale e sociale si sono accompagnati a fasi politiche di dominio sia di forze progressiste che conservatrici. Se le elezioni del 2008 erano sembrate validare certi assunti circa una “naturale” maggioranza democratica – tanto che la vittoria di Obama era stata salutata anche come l’arrivo alla presidenza della “nuova America” già presente nel paese – a posteriori risulta essere stata sovrastimata quella trasformazione della geografia politica degli Stati Uniti che in tanti avevano provato a ricalcare sui dati di una sola elezione. La demografia premierà ancora in tutta probabilità Obama, ma è meno chiaro se essa sarà decisiva nel 2012 nella misura in cui lo fu nella tornata scorsa. E questo non è certo dovuto alla prontezza del Partito repubblicano nell’aprirsi alle nuove realtà, quanto alla non completa capacità da parte dei democratici di trasformare un’adesione politica spontanea in sostegno partecipato e continuativo.

A questo proposito, il quesito che forse dovrebbe suscitare più interesse è quale sarà l’evoluzione del Partito repubblicano a seconda del risultato. I conservatori dovranno in ogni caso porsi il problema di come intercettare le nuove dinamiche sociali. Una vittoria di misura su Obama potrebbe rendere questo compito meno necessario, ma anche consentire una transizione più graduale. Una sconfitta, invece, porrebbe la classe dirigente repubblicana di fronte al bivio molto più drammatico della trasformazione radicale o dell’oltranzismo (che fu evitato grazie all’affermazione del 2010), imprimendo dunque un’accelerazione al processo di chiarimento all’interno di quell’area politica. Questo chiarimento avrebbe esiti verosimilmente diversi da realtà a realtà, riflettendo divisioni che a livello locale sono già più spiccate che tra i quadri nazionali. Queste tensioni potrebbero infine sfociare in ricomposizioni ma anche in conflitti che se accompagnati da un contesto favorevole alla continuazione di una maggioranza democratica potrebbero anche finire per minare l’unità dei moderati e dei conservatori. Gli scenari sarebbero imprevedibili; questi sì in grado, forse, di ridisegnare la mappa della rappresentazione degli interessi, anche attraverso l’emergere di nuovi soggetti politici o partitici.

Per ora Romney si è limitato a “virare al centro”, per opportunistico bisogno di raggiungere quegli elettori più lontani dalla politica o incerti sull’opportunità di offrire a Obama una seconda chance. La vera trasformazione del Partito repubblicano, tuttavia, comincerà solo dopo le elezioni e sarà interessante da seguire almeno quanto le mosse del prossimo presidente.

 

Le opinioni qui espresse non riflettono necessariamente quelle del German Marshall Fund of the United States.


Foto: Barack Obama

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