Tunisia ed Egitto: un nuovo ’89?

Written by Francesco Cerasani Tuesday, 01 February 2011 15:38 Print
Tunisia ed Egitto: un nuovo ’89? Foto: Darkroom productions

È ancora difficile fare previsioni sulla piega che prenderanno le manifestazioni che in questi giorni scuotono l’Egitto, ma è probabile che nulla torni ad essere com’era prima. Ciò nonostante l’Unione europea, ancora una volta, sembra incapace di assumere una posizione decisa e coraggiosa.

Le piazze arabe apriranno davvero le porte ad un nuovo ‘89? Dopo la Tunisia, tocca ora alla primavera egiziana – come ha evocato lo scrittore Ala al-Aswani, autore simbolo del nuovo Egitto – destare speranze e attese impensabili fino a poche settimane fa.

Difficile fare previsioni sulla transizione in Tunisia e, più ancora, su quali eventi si susseguiranno al Cairo. A un estremo, il rischio di uno scenario iraniano – una radicalizzazione della protesta su base islamista – dall’altro quello di una rapida transizione e della fine della repubblica ereditaria di Mubarak. In ogni caso, difficile immaginare che tutto resti uguale. Come ha affermato Mohamed El Baradei nel cuore del proprio messaggio di fronte ai manifestanti di piazza Tahrir: «non si può tornare indietro». La fine del Faraone sembra vicina, nonostante la forza della repressione che il regime, in trent’anni, ha mostrato.

Gli eventi di queste settimane hanno stupito soprattutto perché sembrano sfatare il mito dell’immobilismo delle società arabe, la loro eterna incompiutezza e immaturità verso un percorso democratico. Oggi osserviamo i primi segni di una via di uscita da quella malheur arabe che lo scrittore libanese Samir Kassir denunciava imputandone le cause proprio alla frustrazione alimentata da una corruzione endemica e dalla mancanza di alternativa politica.

Se non è ancora un ’89, un rivolgimento epocale, assistiamo però alla dimostrazione della voglia delle popolazioni arabe di rientrare nella storia contemporanea, di riprendersi un ruolo in una globalizzazione che – secondo tutti i principali indicatori delle Nazioni Unite – li vede al margine dei trend dello sviluppo umano, prima ancora che della crescita. Non è facile, quindi, capire lucidamente cosa avverrà in Egitto e se le prime timide sollevazioni avviate anche in altri paesi come Yemen e Giordania daranno l’avvio ad altri clamorosi esempi di svolta, confermando la tesi di un contagio democratico in tutta l’area.

Più che scommettere sull’esito dei movimenti di piazza, un’altra prospettiva attraverso cui leggere gli eventi in corso nelle società arabe è osservare quali evoluzioni avverranno nelle diplomazie europea e americana. È possibile un nuovo inizio nelle relazioni col mondo arabo? Fu proprio Barack Obama, in un passaggio molto sottolineato del suo discorso all’università del Cairo alla fine del 2009, a evocare questo scenario, promettendo un impegno concreto per la promozione di riforme democratiche nella regione.

È fin troppo nota la rilevanza strategica dell’Egitto per gli Stati Uniti. Anche di fronte a considerazioni così importanti di Realpolitik, tuttavia, il messaggio di questi giorni dell’Amministrazione USA verso Mubarak è chiaro: non c’è più la disponibilità ad accettare che le riforme annunciate da anni continuino ad essere disattese. Pur se con la prudenza dettata da una situazione ancora molto poco intelligibile, la diplomazia di Washington sembra aver compiuto finalmente un salto oltre l’ostacolo, oltre il precario equilibrio che, tra istanze securitarie e promozione della democrazia nella regione mediorientale, aveva sempre fatto prevalere l’accettazione dei regimi. Gli Stati Uniti appaiono pronti a mettere la fine del rais perfino davanti ai timori di un salto nel buio. È forse l’analisi della realtà sociale egiziana a fornire elementi per guardare con fiducia ad una svolta positiva: non sono mancati commenti, in molti osservatori dei principali think tank statunitensi, sul carattere post islamista delle manifestazioni di piazza al Cairo.

Chi interpreta la rivolta egiziana legge oggi una minore presa dei Fratelli Musulmani e un ritorno a rivendicazioni primarie di giustizia e libertà, più simili alla base di consenso formatasi all’epoca della decolonizzazione che non all’impianto ideologico islamista degli anni ’90. A determinare la svolta egiziana, più che i partiti di opposizione, è stato in fondo il boom demografico (la maggioranza della popolazione è oggi composta da giovani sotto i 25 anni) associato all’impatto fondamentale delle nuove tecnologie. Questa sarà ricordata come la rivoluzione di Facebook e dei blogger. Da anni si conosceva l’ampiezza del fenomeno della dissidenza online nei paesi arabi – soprattutto in Egitto – ma per la prima volta il nuovo linguaggio si unisce con successo alla più antica delle rivendicazioni, il pane.

La prova per le diplomazie occidentali sarà quindi capire cosa si muove di nuovo nelle società arabe ma, allo stesso tempo, anche saper finalmente affrontare il nodo del rapporto con i movimenti islamisti. Scommettere sulla loro maturazione, aprire al dialogo politico, mostrando coraggio e capacità di lettura delle sue diverse tendenze. Non è un caso allora che l’attore che più è sembrato distante e in ritardo nel reagire agli eventi egiziani sia stata proprio l’Europa. L’Europa la sua opportunità per un nuovo inizio nelle relazioni col mondo arabo la sta già perdendo. La perde non solo per lo scarso attivismo diplomatico e per l’attendismo mostrato finora. L’Europa è discreditata agli occhi delle masse arabe – da diversi anni molti sondaggi lo mostrano chiaramente – proprio in virtù del suo immobilismo nel chiedere ai regimi la promozione di riforme. Peggio ancora, l’ossessione per la sicurezza e la chiusura delle politiche migratorie dei paesi europei alimentano la spirale perversa di un accordo con gli stessi regimi, con l’effetto paradossale che proprio nei giorni delle rivolte contro Ben Ali l’Europa procedeva con la discussione di un accordo avanzato di cooperazione con la Tunisia.

L’Europa si trova in una situazione di impasse anche perché ha dimostrato di possedere una scarsa capacità di leggere e analizzare i mutamenti in corso nelle società del Sud del Mediterraneo, e di non saper andare oltre la scelta tra democrazie camuffate o il rischio di teocrazie, senza capire, in modo miope, che è la mancanza di ricambio a costituire il primo vero pericolo per la sua sicurezza.

Alla prova dei fatti, la distanza europea dalle popolazioni arabe e il silenzio nei giorni della rivolta del Cairo è la logica conseguenza dell’oblio in cui tutta l’area del Mediterraneo è stata fatta cadere. Al di là dei proclami di un paio di anni fa, le nuove relazioni euromediterranee sono fallite già prima di nascere. L’Unione per il Mediterraneo è stata di fatto utilizzata come uno strumento per allentare le relazioni tra l’Europa e le popolazioni della sponda Sud: un’Unione fatta solo per i governi, che taglia progressivamente finanziamenti e programmi regionali volti a promuovere il sostegno per la fragile società civile dei paesi arabi.

Le manifestazioni in Tunisia, in Egitto, in tutti gli altri paesi parlano in primo luogo all’Europa, alle nostre stesse società. Se i nostri vicini meridionali hanno un tasso di disuguaglianza e di corruzione tale da esasperare le popolazioni fino a portarle a rivoltarsi, sta all’Europa fare una scelta coraggiosa e ribaltare il paradigma che, oltre la retorica, regge le relazioni euromediterranee. Già vediamo gli effetti della frustrazione che la Turchia vive per il discorso ambiguo dell’Europa nei suoi confronti. È il momento di sostenere con coraggio le popolazioni del Sud del Mediterraneo e di smetterla di trattarle come abitanti scomodi di una grande e dimenticata periferia dell’Europa.

 

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