OLP e Hamas: intesa a sorpresa

Written by Maria Grazia Enardu Monday, 12 May 2014 14:59 Print
OLP e Hamas: intesa a sorpresa Foto: Aidan Jones

Il 23 aprile scorso, l’OLP e Hamas hanno annunciato a sorpresa la loro riconciliazione e una road map che dovrebbe condurli presto a elezioni comuni. È questo il risultato dell’ennesimo fallimento dei negoziati con Israele, ma anche dei profondi cambiamenti avvenuti nella regione negli ultimi anni.


La riconciliazione tra l’OLP e Hamas, annunciata lo scorso 23 aprile, quando il negoziato tra Autorità Palestinese e Israele condotto dal segretario di Stato americano John Kerry era appena fallito, ha sorpreso tutti. Si pensava, infatti, che le due principali componenti palestinesi avessero posizioni, ideologie, interessi, obiettivi inconciliabili. Ma è anche vero che la spaccatura aggravava la situazione del popolo palestinese, perché aveva facile gioco chiunque osservasse che l’Autorità Palestinese semmai trattava solo per se stessa, non per tutti i palestinesi. La frattura era resa ancora più grave dall’assenza di organi rappresentativi veri: il Parlamento eletto nel 2006 non si è mai riunito e il presidente Abu Mazen, eletto nel 2005, è in perenne prorogatio. L’accordo ha due punti centrali: sarà costituito un governo unico entro un mese, e tenute elezioni entro sei. Se l’intesa reggesse e permettesse l’attuazione di questi due obiettivi, e già da ora eventuali ritardi possono essere considerati fisiologici, i palestinesi del West Bank e Gaza avrebbero finalmente quelle basi di democrazia che possono davvero dargli voce efficace.

Le reazioni di Israele sono state furibonde, pare, infatti, che i servizi segreti siano stati colti di sorpresa. Forse non per inefficienza quanto per aver sottovalutato dati e fatti che sicuramente conoscevano. L’idea che Hamas accettasse un accordo con l’OLP pareva remota, ma il Medio Oriente è molto cambiato negli ultimi anni e Hamas ne ha subito le conseguenze ben più dell’OLP.

Il sostegno dell’Iran si è ridotto, a causa di dissensi sulla Siria; l’Egitto detesta ogni derivato della Fratellanza Mussulmana e ha chiuso i tunnel di Gaza; la Siria non offre più una base sicura. C’è la concorrenza, piccola in termini numerici ma seria in termini ideologici, del Jihad Islamico, che ha una sua milizia, lancia razzi contro Israele e ha creato una sua rete assistenziale, attraendo gli elementi più attivi di Gaza. Il Jihad ha cura di non irritare troppo Hamas, ne sarebbe schiacciato, comunque è pur sempre un concorrente interno, con fondi iraniani e sauditi.

Ma soprattutto è cambiata la base, a Gaza come nel West Bank. Delusa da questi anni, preoccupata dalla chiusura dei tunnel, che creavano lavoro per tanti, producevano introiti fiscali per Hamas e muovevano l’economia. Ora si dipende dal passaggio ufficiale di Rafah, verso l’Egitto, e di Eretz, verso Israele, aperto con parsimonia. Si è fatto un bilancio fallimentare della vittoria di Hamas nel 2006. Un successo di misura che però aveva comportato un notevole premio in seggi, grazie alla legge elettorale che Fatah aveva scritto senza immaginare che gli attivisti di Hamas, e la sua fama di minor corruzione, le soffiassero la vittoria. Israele aveva reagito chiudendo tutto, impedendo il passaggio dei deputati verso la sede del Parlamento a Ramallah e fermando il pagamento di tasse e diritti doganali che Israele raccoglie dai palestinesi e passa all’Autorità Palestinese. Questo aveva messo in crisi tutto l’apparato, comprese le forze di sicurezza di Fatah che a Gaza si erano trovate senza paga, senza motivazioni, e incapaci di fermare la presa di potere di Hamas nella striscia. Nella sua pertinace politica volta a danneggiare l’OLP, Israele aveva, ancora una volta, rafforzato Hamas, perché il suo imperativo è di spaccare i palestinesi con ogni mezzo. I governi di Israele non vogliono davvero uno stato palestinese, non sono in grado di affrontare un ritiro dei coloni anche limitato. Al massimo vogliono due pezzi, e che non siano proprio uno Stato.

Il fallimento dei negoziati condotti per nove mesi da Kerry ha reso più urgente la necessità di un’intesa, per non perdere un’occasione mediatica eccezionale. La genesi della rottura delle trattative, per certi versi annunciata da fatti come la mai cessata costruzione degli insediamenti dei coloni e in particolare dentro e intorno a Gerusalemme est, ha favorito l’intesa palestinese.

Israele si era impegnato, per la durata dei negoziati, a liberare quattro gruppi di prigionieri. Si trattava per l’OLP di una questione prioritaria e doveva essere un risultato immediato; da parte sua Abu Mazen si era impegnato a non chiedere l’adesione a organismi internazionali, punto su cui Israele è molto sensibile. Ma la resistenza dell’estrema destra al governo (Naftali Bennett) come anche di ampia parte del Likud alla liberazione di condannati, per non parlare delle liste dei nomi, hanno portato infine al blocco dell’ultimo gruppo, il quarto. Nelle convulse settimane finali, ai palestinesi – tutti – questo è parso il segnale definitivo della cattiva fede del governo Netanyahu. A quel punto si sono poste le premesse sia per una reazione diretta dell’Autorità Palestinese – che ha chiesto di aderire a ben quindici organizzazioni internazionali – sia di trovare un terreno comune tra OLP e Hamas.

Anche perché, e l’idea deve essere stata ben presente tra chi ha trattato, al Cairo, sotto l’occhio stavolta benevolo degli egiziani, solo una rappresentanza unitaria della Palestina avrebbe la forza necessaria per chiedere il pieno riconoscimento dello Stato. Stato proclamato nel 1988, riconosciuto da un gran numero di paesi ma non dagli occidentali, mancano infatti gli Stati Uniti e soprattutto i paesi dell’Europa occidentale, gli Stati scandinavi, il Giappone, l’Australia, il Canada, il Messico e altri minori, compresa la Santa Sede.

Hamas pare fermamente intenzionata a non riconoscere Israele, ma anche a non creare ostacoli al futuro governo, che deve presentarsi unito sulla scena internazionale. Come questo possa conciliarsi con gli impegni dell’Autorità Palestinese è da vedere, ma è anche certo che lo snodo decisivo sono le elezioni, e Hamas è già in campagna elettorale.

Nella ricerca di un modello di convivenza, grande peso avrà inoltre la questione delle milizie che Hamas non intende disarmare. Occorre quindi una formula che tenga conto pure degli aspetti economici e sociali, ma che riconduca tutte le forze militari a un comando unico. Da Ramallah è appena arrivata notizia che 300 poliziotti palestinesi (del West Bank) arriveranno a Gaza, per garantire l’ordine pubblico ma anche come segnale di un preciso cambiamento – si spera siano fatti passare senza problemi.

Tra un mese vedremo se il primo e importante punto, un governo unitario, è davvero realistico, in attesa del passaggio più importante, le elezioni. Intanto c’è stato un incontro a Doha tra Abu Mazen e il capo di Hamas, Khalid Meshal. Una foto li mostra mentre si stringono la mano, Meshal sorride, Abu Mazen pare più serio.


Foto: Aidan Jones