L’Arabia Saudita e l’Iran tra jihadismo e Realpolitik

Written by Fabio Atzeni Tuesday, 25 March 2014 15:33 Print
L’Arabia Saudita e l’Iran tra jihadismo e Realpolitik Foto: Christiaan Triebert

La contrapposizione tra sunniti e sciiti nel mondo islamico, espressione delle tensioni fra Arabia Saudita e Iran, si manifesta con particolare violenza in Siria, dove la guerra civile ha assunto le caratteristiche di una sorta di “proxy war”, ma gioca un ruolo importante anche nelle fratture interne all’Iraq di Al Maliki e nell’instabilità del Libano.


Secondo il rapporto annuale “Conflict Barometer”, dell’Heidelberg Institute for International Conflict Research, il 2013 ha registrato un drammatico aumento della violenza politica in tutto il Medio Oriente. In particolare, sono aumentati gli scontri etnico-religiosi e quelli animati da spinte nazionalistiche attraverso le multiformi entità statali della regione che sono state spesso imposte dalle potenze coloniali. Queste tendenze al mutamento delle relazioni nell’area, sono ancora più evidenti se inquadrate nell’ambito dello scontro tra sunniti e sciiti, influenzato dall’azione più o meno diretta dei due paesi in lotta per l’egemonia regionale: l’Arabia Saudita e l’Iran. Tale scontro politico-strategico, mascherato e catalizzato da motivazioni ideologico-religiose, si è recentemente polarizzato a causa delle indecisioni e dell’inerzia di Washington nella sua politica mediorientale che, sommato all’apparente ammorbidimento nei confronti di Teheran, ha frustrato le aspettative della monarchia saudita.

In tale contesto, Riyad può farsi forte del vantaggio strategico acquisito nei confronti degli sciiti e quindi dell’Iran in Iraq, con il ritorno dell’insurgency sunnita contro il governo sciita filo-iraniano di Al Maliki; in Libano, dove da diversi anni lo scontro tra sunniti e sciiti ha minato il tradizionale laicismo dello Stato; in Afghanistan, dove il possibile ritorno al potere di alcune fazioni talebane nel prossimo governo potrebbe bloccare l’influenza iraniana nell’Ovest del paese.

L’Iran, apparentemente indebolito nella regione, sempre più pressato da una tenaglia di entità sunnite e provato da una perdurante crisi economica, si trova imbrigliato nelle dinamiche del negoziato sul nucleare. Pertanto, il compito “funambolico” del presidente Rouhani sarà quello di mantenere il proprio “leverage” regionale, pur senza sottrarsi allo scontro con l’acerrimo nemico saudita.

A questi elementi, vanno anche aggiunte le fonti d’instabilità interna dei due paesi.

L’Arabia Saudita, già provata di recente da sommosse e dalle possibili ricadute dei mutamenti delle primavere arabe, ospita al suo interno numerose cellule dormienti di Al Qaeda che, unitamente alle tensioni intermittenti delle popolazioni sciite nell’Est del paese, ricco di petrolio, potrebbero innescare una vera e propria crisi violenta della monarchia. Riyad, ultimamente, ha fatto alcuni tentativi per combattere l’estremismo islamico con operazioni antiterrorismo e di polizia, attraverso lo strumento religioso, con la fatwa del gran muftì che vieta ai giovani di recarsi all’estero a condurre il jihad senza permesso e con iniziative politiche, come la sostituzione del capo dell’intelligence, il falco principe Bandar Bin Sultan con un altro membro più moderato della casa reale. Nonostante questi tentativi, più di facciata che effettivi, la strategia adottata dalla monarchia saudita per rispondere alla minaccia terrorista è sempre quella di esportare il jihadismo nella regione, con il fine di destabilizzarla a proprio vantaggio, acuendo lo scontro religioso con gli sciiti, pur nella consapevolezza di un possibile ritorno di fiamma.

Parallelamente, il presidente iraniano Rouhani dovrà sopravvivere allo scontro interno con i falchi e con le ambiguità dell’ayatollah Alì Khamenei, che sembrerebbe apprezzarne le doti politiche e la grande competenza nelle questioni economiche, ma non ne condividerebbe appieno le scelte in politica estera. Nonostante l’apparente moderazione della dirigenza iraniana, l’interventismo delle forze politiche vicine a Teheran, così come le attività del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie (IRGC) e di Hezbollah sono aumentate in tutta l’area nello scontro con i sunniti e le milizie legate ad Al Qaeda.

Per tali ragioni, la guerra in Siria contro il regime di Bashar Al Assad, rappresenta la partita decisiva tra Arabia Saudita e Iran, pur essendo condotta sul campo da altri attori a essi affiliati, in una sorta di “proxy war”: i ribelli sunniti moderati del Free Syrian Army (FSA) e le forze legate al Salafismo e ad Al Qaeda (Al Nusra Front e Islamic State of Iraq and Greater Syria – ISIS) da un lato; il governo di Assad, i mercenari alawiti detti “Shabiha” (spettri), Hezbollah e il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane dall’altro. Sullo sfondo s’intravede la presenza di Washington e Mosca in una dialettica che, pur distante dagli schemi della guerra fredda, ne condiziona comunque i comportamenti.

 

Dentro la guerra siriana: i fronti interni alle fazioni ribelli

Il recente fallimento dei colloqui di pace di Ginevra II, pongono il destino della guerra nelle mani dei ribelli sunniti e in quelle delle truppe fedeli ad Assad, appoggiate dagli sciiti e dall’Iran. Gli equilibri delle forze giocano a favore dell’esercito regolare siriano; senza un’assistenza tecnico-militare e un sostegno logistico adeguato è impensabile che i ribelli possano sconfiggere l’esercito di Damasco.

Inizialmente gli Stati Uniti hanno fornito un certo grado di addestramento e assistenza ai ribelli sunniti, che dall’estate del 2011, hanno raggiunto l’entità complessiva di circa 100.000 uomini. Tale galassia di formazioni differenti si è riunita sotto l’emblema del Free Syrian Army (FSA) e dalla fine del 2012 tali forze sono, formalmente, sotto il comando unificato del Supreme Military Council (SMC), presieduto dal generale Salim Idris. Nonostante il generale Idris affermi di controllare il 90% delle forze dell’insurgency siriana, la realtà sul campo sarebbe ben diversa: secondo le stime della Jane’s Defense Consultancy, oltre alle Forze variegate del FSA, vi sarebbero nel paese circa 10.000 jihadisti legati ai Salafiti e ad Al Qaeda e circa 30-50.000 dei ribelli ne condividerebbero la visione estremista dell’Islam, benché a differenza di Al Qaeda, non puntino all’instaurazione di un Emirato Islamico, ma solamente all’abbattimento del regime alawita. Questa pericolosa vicinanza ideologica, così come le inevitabili alleanze di convenienza, quotidianamente strette per fini operativi sui campi di battaglia, rende gli obiettivi delle varie fazioni ribelli difficili da distinguere. La parziale interruzione dell’assistenza militare occidentale ai ribelli sunniti è quindi da imputarsi all’inaffidabilità di questi e al timore per le consistenti infiltrazioni qaediste al loro interno.

La strategia di Al Qaeda in Siria, infatti, appoggiata indirettamente sotto traccia dalle monarchie del Golfo e finanziata prevalentemente da donazioni “private” di cittadini arabi, rappresenta una grave minaccia per tutta l’area: essa avrebbe come obiettivo quello di portare la guerra sui confini di Israele, incoraggiando uno “spillover” di violenza in tutta la regione e di indebolire le forze sciite e l’influenza dell’Iran.[1] Negli ultimi mesi però, il fronte qaedista si è fratturato: l’Al Nusra Front, rinforzato nel corso del 2012 dal gruppo iracheno dell’ISIS, guidato da Al Baghdadi, si è più volte scontrato con i moderati del FSA, nelle città di Bab e Azaz. In tali scontri sono emerse le differenze ideologiche e l’estremismo delle forze qaediste, che non esitano a ricorrere all’impiego di attacchi suicidi anche contro i propri confratelli sunniti. Inoltre, dallo scorso febbraio vi è stata un’ulteriore frattura interna alle forze di Al Qaeda, tra Al Nusra Front, direttamente dipendente da Al Zawahiri e l’ISIS. Quest’ultimo, ancora più estremista, ha cercato invano di cooptare l’Al Nusra Front: l’obiettivo unico dell’ISIS sarebbe l’instaurazione di un Emirato Islamico a differenza di Al Nusra, che vede l’abbattimento di Assad come un passaggio obbligato e prioritario. Tuttavia la brutalità dei metodi utilizzati e il fanatismo ispirato al radicalismo più violento, nel modello “zarqawista” dell’ISIS rischia di alienare i favori dei sunniti siriani, compromettendo anche la capacità di influenza di Al Nusra sulla popolazione. Questi scontri violenti si sono tradotti sul campo nel massacro di centinaia di combattenti ribelli.[2]

Questi eventi costituiscono un inaspettato vantaggio tattico per Assad, che già in precedenza aveva tentato di opporre ai ribelli le unità dell’esercito siriano a prevalenza sunnita, in modo da scoraggiarne lo scontro fratricida e per riprendere il controllo della situazione.

Lo stallo del conflitto, le aberrazioni degli eccidi e delle distruzioni, l’incertezza dei suoi esiti evidenziano quindi l’urgenza e la necessità di una risoluzione politico-diplomatica della crisi, benché Damasco sembri ancora intenzionato a temporeggiare e a voler risolvere lo scontro con la forza, per assicurare la sopravvivenza del regime a ogni costo.

 

La polveriera mediorientale e l’estensione del conflitto: la valenza strategica dell’Iraq e del Libano

La causa principale della diffusione della violenza nella regione è da ricondursi al carattere transnazionale del jihadismo salafita di matrice qaedista, che rappresenta una parte rilevante dell’insurgency siriana, anche se più in termini di influenza che quantitativi e che appare sovente come una scheggia impazzita, tanto da giocare, nella pratica e in modo paradossale, a favore del regime di Assad. Grazie ai vantaggi strategici acquisiti dai suoi gruppi affiliati nei paesi vicini, Al Qaeda può sfruttare la porosità di questi confini con la Siria per far transitare armi, mezzi, materiali e personale.

Se le forze occidentali e i servizi stranieri d’intelligence, hanno avviato un programma di addestramento per i ribelli moderati del FSA in Giordania, per l’impiego di armi leggere, contraerei, difesa NBC e trattamento prigionieri, Al Qaeda ha avviato un’organizzazione simile facendo perno sull’Iraq e sul Libano.

Le aree sunnite dell’Iraq, ossia la provincia di Anbar, le città di Fallujah, Ramadi e Baquba e alcune aree di Baghdad, sono oramai sotto il completo controllo dell’ISIS, che dall’inizio dell’anno ha riunito l’insurgency sunnita conducendo numerosi attacchi contro le forze governative di Al Maliki a maggioranza sciita e filo-iraniane. Da queste aree proviene il grosso degli armamenti, del personale combattente e degli addestratori diretti in Siria.[3] Nei prossimi mesi, l’apparente uscita di scena di Moqtada Al Sadr e l’indebolimento delle milizie sciite dell’esercito del Mahdi, oltre al possibile vuoto politico derivante dagli esiti incerti delle elezioni presidenziali previste in primavera, potrebbero portare a un’escalation degli scontri etnico-religiosi, avviando una nuova stagione di guerre civili, a vantaggio dell’ISIS. I tentativi di Al Maliki di ripercorrere la strategia statunitense di separare il fronte sunnita moderato dai jihadisti, ricostituendo le forze del risveglio sunnita per mezzo di finanziamenti governativi alle milizie locali di Al Sahwa (in passato conosciute come i Sons of Iraq), rischia di non funzionare, proprio a causa della sfiducia dei sunniti nei confronti del governo di Baghdad.

Il Libano invece, costituisce il campo di addestramento e la base logistica per le operazioni arretrate di Al Qaeda in Siria.[4] Oltre a ciò, la presenza jihadista in Libano consente di circondare Israele e di attaccare Hezbollah nel suo stesso territorio. In realtà gli obiettivi di Al Qaeda in Libano prevedono la polarizzazione dello scontro religioso tra sunniti e sciiti, la destabilizzazione del paese e delle sue Forze Armate, notoriamente imparziali e garanti delle differenze etnico-religiose e l’attacco di obiettivi ad alto impatto politico e simbolici legati a Hezbollah e all’Iran. In aggiunta, vi è stato il recente e manifesto tentativo dell’Arabia Saudita di creare una frattura interna alle Forze Armate libanesi, con il finanziamento di queste per un importo di circa 3 miliardi di dollari (quasi tre volte il budget annuo della Difesa) per aiutarle a combattere le milizie di Hezbollah, la cui azione è per lo più tollerata dai vertici militari e politici di Beirut. Questa iniziativa, unitamente alla crescente sfiducia della popolazione sunnita nei confronti del governo libanese, che invece di arrestare le infiltrazioni di Hezbollah in Siria, ne appoggerebbe tacitamente l’azione, potrebbe portare in futuro a un peggioramento delle tensioni nel paese, con il rischio di un vero e proprio scontro aperto tra sunniti e sciiti.

A queste dinamiche a sfondo politico-religioso, vanno infine aggiunti altri elementi di tensione, legati ai crescenti nazionalismi etnici, che attraversano orizzontalmente i confini dei principali paesi dell’area. Le popolazioni curde dell’Iraq del Nord si sono di fatto alleate con quelle siriane, così come i sunniti dell’Iraq occidentale si trovano, ora più che mai, a condividere la stessa visione dei sunniti della Siria orientale. Questi popoli, uniti da sentimenti comuni ma separati da confini artificiali e imposti, potrebbero determinare in un prossimo futuro dei sommovimenti nella regione, contribuendo ad accendere la miccia della polveriera mediorientale

 

Tregua in Siria e guerra in Medio Oriente e poi?

La polarizzazione dello scontro religioso da parte dell’Arabia Saudita e dell’Iran è un gioco molto pericoloso, che a prescindere dagli esiti della guerra in Siria potrebbe presto ritorcersi contro di loro, con ritorni imprevedibili. Il rischio potrebbe addirittura aumentare qualora si trovasse una temporanea soluzione al conflitto siriano, poiché molti jihadisti, delusi dalle sorti della guerra, potrebbero ritornare ai propri paesi d’origine contribuendo a innescare fenomeni di violenza interna a questi regimi. In particolare Riyad, potrebbe perdere il controllo di queste sue “estensioni operative”, ritrovandosi direttamente minacciata.

Per quanto concerne Al Qaeda ad esempio, il tentativo di Al Zawahiri, di effettuare un “rebranding” in senso più religioso, adottando il nuovo nome di Brigate Abdullah Azzam, avrebbe la finalità di dissociare il gruppo dall’idea negativa di terrorismo internazionale, accrescendone la legittimità, la capacità di reclutamento e nazionalizzando i conflitti della regione. Tuttavia, i contrasti interni e tra le varie generazioni di leader jihadisti, come quello emerso di recente in Siria con l’ISIS, costituiscono un importante campanello di allarme per la dirigenza di Al Zawahiri, che rischia anch’essa di perdere il controllo dei propri affiliati.

Il conflitto siriano è quindi il laboratorio di sperimentazione delle dinamiche che potrebbero influenzare il futuro dell’intera regione.

Difficilmente si perverrà a una risoluzione del conflitto in tempi brevi, e un maggiore coinvolgimento dell’Occidente, volto ad alterare gli equilibri di forza a favore dei ribelli, è impensabile proprio a causa della compartimentazione del fronte sunnita, fortemente infiltrato dalle forze estremiste di Al Qaeda. L’unica condizione che potrebbe portare gli Stati Uniti a riprendere le forniture e l’assistenza militare dei ribelli siriani, sarebbe l’acquisizione da parte del Supreme Military Council di una capacità credibile di governance sul territorio e sulle popolazioni sunnite, in modo da poter isolare la componente estremista da quella moderata del FSA.

Poiché Damasco non sembra intenzionato a trattare con i vari fronti dell’opposizione ricercando una soluzione politica, ma piuttosto ad annientarli militarmente, una via alternativa che porterebbe a una situazione accettabile potrebbe passare attraverso l’instaurazione di un più ampio negoziato regionale. La ormai totale dipendenza del regime di Assad dai propri sponsor esterni, potrebbe essere la chiave di volta del conflitto: se si riuscisse a coinvolgere maggiormente Russia e Iran, pur accettando la probabile sopravvivenza del regime siriano, si potrebbe tentare di percorrere la strada delle riforme del paese, per avviare una parziale riconciliazione con le frange più moderate dei ribelli e con l’opposizione tradizionale, antecedente la ribellione del 2011.

Inoltre, gli Stati Uniti e la Russia dovrebbero impegnarsi a riequilibrare le proprie posizioni nei confronti dell’Iran e dell’Arabia Saudita, in modo tale da placare le loro ambizioni politiche nella regione e l’azione violenta delle milizie e delle organizzazioni a essi riconducibili.[5]

Ciononostante, la pericolosità della deriva estremista dello scontro e la sua estensione in Siria, in Iraq e in Libano, può essere arginata unicamente da un intervento volontario dei paesi sostenitori del jihadismo transnazionale. Ciò potrebbe realizzarsi qualora le monarchie del Golfo e l’Iran accettassero la possibilità di una coesistenza tra i sunniti e gli sciiti nelle varie realtà subnazionali. Pur essendo impensabili una dialettica e un confronto pacifico tra le due confessioni religiose e tra i due paesi che le rappresentano, Arabia Saudita e Iran, si potrebbe accettare, nella pratica, l’instaurazione di Stati aconfessionali in Iraq, in Libano e in futuro in Siria, contribuendo così a limitare l’estremismo religioso violento.

Rimane tuttavia da chiedersi se la ricerca di stabilità nella regione, con il rischio di un ritorno dei jihadisti nei propri paesi d’origine, sia di vero interesse e possa giovare o meno alle politiche egemoniche di Riyad e di Teheran.



[1] Abu Jihad Al Shami, A Strategy for the Land of Gathering (Syria): an Attempt to Pinpoint the Pivotal Aspects, manuale di Al Qaeda per il jihad in Siria, 22 luglio 2011.

[2] A. Baker, N. Rayman, S. Shuster, The Battle Within Al Qaeda in Syria, in “Time”, 17 febbraio 2014.

[3] Abu Jihad Al Shami, op. cit.

[4] Abu Jihad Al Shami, op. cit.

[5] Nel mese di marzo 2014, è prevista la visita di Stato di Obama a Riyad, finalizzata a ripristinare al meglio le relazioni diplomatiche tra i due paesi. Difficilmente gli Stati Uniti adotteranno un approccio più imparziale nei confronti dei Sauditi, dovendo ripristinare le relazioni bilaterali logorate in precedenza dalle proprie ambiguità.

 

 


Foto: Christiaan Triebert