Egypt's power players

Written by Daniel Williams Friday, 11 February 2011 19:21 Print
Egypt's power players Foto: Hossam el-Hamalawy
A poche ore dalle dimissioni di Hosni Mubarak pubblichiamo un articolo di Daniel Williams, giornalista e senior researcher di Human Rights Watch, apparso sul Los Angeles Times il 10 febbraio.

 

La voce è giunta dalla strada: una folla si era raccolta davanti alla porta d’ingresso, bloccando l’uscita dagli uffici dell’Hisham Mubarak Law Center, una pioneristica organizzazione per i diritti umani in Egitto.

L’ex direttore Ahmed Seif era consepevole di quanto stava per accadere: un raid. Ci ha consigliato di rimanere seduti e di non opporre resistenza, per non «provocare una risposta violenta». Poi sono arrivati loro. Alcuni uomini corpulenti con dei grossi bastoni, altri nelle giacche sportive tipiche degli agenti di sicurezza dello Stato, e poliziotti in uniforme. E quindi una sorpresa: la polizia militare con il caratteristico berretto rosso.

L’esercito si è presentato come una forza neutrale nel corso degli sforzi dei gruppi pro-democrazia e dei cittadini per costringere alle dimissioni il presidente Hosni Mubarak. Eppure, chiaramente, sono stati membri della polizia militare ad essere responsabili dei raid del 3 febbraio al Law Center. Per le successive trentasei ore, quanti di noi si trovano lì quel giorno – più di venti fra attivisti, giornalisti e ricercatori – hanno potuto osservare da vicino i vecchi metodi repressivi del governo egiziano.

Questa vicenda fornisce una prospettiva importante su un aspetto essenziale dei tumulti in Egitto: da che parte sta l’esercito in quest’epica battaglia per il futuro dell’Egitto? La transizione dopo ventinove anni di regime di Mubarak condurrà alla fine della repressione politica, delle torture, di elezioni farsa e stretti vincoli alla libertà di espressione, di riunione e di associazione? O piuttosto il risultato sarà un probabile “mubarakkismo” senza Mubarak, con i militari occupati a sorvegliare la preservazione del vecchio sistema sotto nuova forma?

I militari che hanno condotto le operazione al Law Center non hanno agito in modo neutrale. Un soldato ci ha richiamato duramente per la “riunione sospetta” e  a causa degli stranieri decisi a “rovinare il paese”. Forze in borghese hanno frantumato le finestre e saccheggiato l’archivio del centro. Ci hanno ordinato di sedere sul pavimento e di consegnare i nostri oggetti. Un poliziotto in uniforme mi si è avvicinato accusandomi di essere una spia. «Tu sei del Mossad!», mi ha urlato, facendo riferimento ai servizi segreti israeliani. Gli ho spiegato che faccio parte di Human Rights Watch, sebbene a giudicare dal suo sguardo torvo queste credenziali non devono essergli sembrate migliori.

I nostri polsi sono stati ammanettati dietro la schiena, provocandoci un forte dolore, e poi siamo stati portati alla tromba delle scale, dove ci hanno costretto a sedere per circa dieci ore. Quando un soldato ha notato che stavo masticando una gomma, mi ha dato quattro ceffoni sulla nuca. Ho sputato la gomma. È venuto un maggior generale che indossava una divisa mimetica per il deserto e a un suo ordine siamo stati portati al piano inferiore, ci hanno fatto sfilare fra la folla nella strada, e con due pullman siamo stati portati al Campo 75, una base militare a Nord-Est del Cairo.

Al Campo 75 ci hanno tolto le manette ma ci hanno bendato gli occhi. Il mio interrogatorio è stato blando, breve e in inglese. Perché mi trovavo all’Hisham Mubarak Law Center? Cosa fa esattamente Human Rights Watch? Perché avevo un visto dallo Yemen e uno dalla Tunisia nel mio passaporto? Per le successive 24 ore, ancora bendato, sono rimasto seduto sul pavimento contorcendomi di tanto in tanto. Non potevamo alzarci se non per usare il bagno, e in quel caso solo dopo aver ottenuto il permesso. Il 4 febbraio, appena dopo mezzanotte, cinque stranieri, me incluso, sono stati rilasciati. Con l’aiuto di un ufficiale disponibile incontrato a un checkpoint, siamo riusciti a trovare un albergo nel quale hanno accettato di accoglierci.

Ho il sospetto che la nostra esperienza sia stata molto tollerabile in confronto a quella di alcuni detenuti egiziani. Al Campo 75 abbiamo sentito urla di dolore riecheggiare attraverso le sale. La scorsa settimana, Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto di 95 pagine su come le temute forze di sicurezza fanno il loro sporco lavoro in Egitto, e sull’uso diffuso e sistematico della tortura contro molte migliaia di egiziani sotto il regime di Mubarak.

Il futuro dell’Egitto, persino senza Mubarak, sarà tetro a meno che non vengano eliminate le pratiche illegali delle forze armate. Nel nostro caso, così come in altri che adesso Human Rights Watch sta documentando, l’esercito è stato chiaramente responsabile di arresti arbitrari e talvolta violenti, anche quando a perpetrare le violenze e gli abusi sono stati esponenti di altre agenzie o bande di delinquenti.

Ciò che è in gioco nell’attuale battaglia che si sta combattendo in piazza Tahrir e nel resto del paese non è soltanto il destino di Mubarak, ma anche le prerogative delle forze armate egiziane in un sistema che esse stesse hanno creato. Sin dal colpo di Stato del 1952 che spodestò la monarchia, sono stati uomini dell’esercito – Gamal Abdel Nasser, Anwar Sadat e Mubarak – a detenere la carica del potere supremo in Egitto, ovvero la presidenza. Fino al 2005, le elezioni presidenziali erano un plebiscito a favore di un unico candidato. Nel 2005, quando fu reso possibile candidare più persone alla presidenza, Ayman Nour, che ottenne il secondo posto, è stato sbattuto in prigione, subito dopo il voto, per quattro anni con l’accusa, naturalmente costruita ad arte, di frode. Tutte le cariche di governatore in Egitto sono occupate da ufficiali o ex ufficiali dell’esercito. Omar Suleiman, il nuovo vicepresidente, è un generale. Ahmed Shafik, il nuovo primo ministro, è un maresciallo dell’aeronautica in pensione.

In Egitto, essere militari non è una professione; significa appartenere a una casta di governo.

Per ridimensionare i sospetti che, nelle mani dei militari, il passato brutale non sia che il prologo, il governo deve immediatamente proteggere i diritti fondamentali, porre fine agli arresti arbitrari e ai maltrattamenti di coloro che si trovano in detenzione, e deve assicurare la libertà di espressione e di associazione, che include il libero uso di internet e dei canali di comunicazione per tutto il paese. Questo significa abolire immediatamente le leggi di emergenza che esistono da trent’anni e che sono state la giustificazione legale per limitare i diritti dei cittadini egiziani.

Il sistema repressivo al centro della crisi egiziana è stato creato dall’esercito nei 59 anni in cui ha comandato. A meno che gli Stati Uniti e gli attori chiave che possono influenzare le forze armate egiziane non promuovano velocemente una transizione democratica per smantellare il sistema, il risultato degli attuali disordini non sarà altro che un dibattito sulla partenza di Mubarak.

 

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Foto di Hossam el-Hamalawy