I vaccini, l’Istituto superiore della sanità, l’Agenzia dello spazio, sono questioni che perdono ogni autonomia tecnico-scientifica per entrare nel campo degli appetiti politici del governo del popolo. Del resto, la peculiarità della strategia populista è proprio quella per cui al tempo stesso «depoliticizza e iperpoliticizza le relazioni sociali. Il leader populista spesso si pone simbolicamente al di fuori del regno politico, sostenendo che non è un politico».1 Su questa mistica proclamazione di estraneità, il populista fonda l’escursione arbitraria in ogni ambito della convivenza. Dopo aver calpestato la complessità del governo politico, in nome del principio che uno vale uno, il populista invade ogni sfera della società per applicare in qualsiasi ambito che sfiora il dominio del senso comune che non riconosce limiti in nome della metafisica del cambiamento.
“Italianieuropei” mi chiede come sia possibile ricostruire la credibilità della competenza in un tempo, il nostro, nel quale larga parte dell’opinione pubblica delegittima il sapere. La domanda è dettata dalla preoccupazione che l’incompetenza al potere, versione contemporanea del sonno della ragione, generi mostri. Oltre trent’anni di lavoro in quotidiani e settimanali e una legislatura in Senato mi darebbero, secondo la rivista, una expertise adatta a individuare il contributo che il giornalismo può offrire alla nobile causa.
«These are dangerous times», scrive Tom Nichols in un libro che sta avendo un grande successo: “The Death of Expertise: The Campaign Against Established Knowledge and Why it Matters”, pubblicato dalla Oxford University Press. In italiano, il titolo suonerebbe più o meno così: la morte della competenza: la campagna contro la conoscenza consolidata e perché essa funziona.
Tom Nichols insegna presso lo US Naval War College, la scuola di guerra della marina della Harvard University Extension School, una delle dodici scuole in cui è strutturata la Harvard University di Cambridge, nel Massachusetts. È un rappresentante, dunque, non solo della comunità che coltiva la “conoscenza consolidata”, ma anche una personalità molto vicina ai gruppi politici e militari degli Stati Uniti.
I partiti tradizionali e gli attuali modi di organizzazione della politica scontano, da una ventina d’anni e più, l’affermarsi, in ragione della rivoluzione tecnologico-informatica, di nuove forme di disintermediazione, ossia di riduzione del ruolo e della funzione degli intermediari.
La crisi di autorevolezza degli intermediari e la messa in discussione del valore delle competenze, due tra i più notevoli fenomeni psicologici e sociologici del nostro tempo, hanno riguardato ambiti rilevanti come la politica, l’insegnamento, la sanità, il commercio, il turismo, il giornalismo, la pubblicità, la comunicazione, la fruizione della musica, del cinema, della televisione, della rete e, quindi, inevitabilmente, anche e soprattutto, il mondo della conoscenza.
Pubblichiamo di seguito il “Manifesto per la democratizzazione dell’Europa”, parte di una articolata proposta per la rifondazione democratica, sociale e ambientalista del progetto europeo avanzata da un gruppo di economisti, giuristi e politologi costituito intorno a Thomas Piketty.
Quando si parla di Europa si usa ormai il condizionale per dire quel che avrebbe potuto essere, e non è stato. Oggi si deve ammettere che, come suggerisce il Manifesto di Thomas Piketty, l’Europa è in una inquietante impasse: da un canto movimenti politici ambigui, il cui programma sembra coagularsi solo nell’odio contro gli stranieri, d’altro canto quel liberismo “duro e puro” che pretende di imporre ovunque il dogma di un’austerità implacabile, producendo una competizione generalizzata tra tutti. A cominciare proprio dagli Stati europei.
Come individuare idee e progetti per rilanciare un’idea di Europa che torni a scaldare i cuori di opinioni pubbliche nazionali scettiche e disilluse, quando non apertamente ostili, e che sia in grado di mobilitare consensi e sostegni oltre a legittime critiche? Si tratta certamente di un’operazione complessa e dagli esiti incerti in questa congiuntura politica. Ma anche di una operazione necessaria se si vorrà evitare che alle prossime elezioni del Parlamento europeo le forze politiche che continuano a investire sul progetto di integrazione subiscano un pesante ridimensionamento.
L’Europa non è (più) “naturalmente” popolare. È questo il dato di cui occorre prendere atto per apprezzare la gravità della situazione, che cosa è in gioco alle prossime elezioni europee, dove abbiamo sbagliato e in che modo possiamo partire per risalire la corrente. Diciamocelo con chiarezza: lo squilibrio dell’Unione attuale è frutto in buona parte del suo successo, la realizzazione del mercato unico, che era il compito assegnato innanzitutto alle istituzioni comunitarie dal Trattato di Maastricht. Per quanto paradossale possa apparire, è proprio il conseguimento di questo storico traguardo – dal quale il consumatore europeo ha tratto più benefici che svantaggi – ad aver progressivamente messo in difficoltà il cittadino europeo. Se per il primo le opportunità di acquisto a prezzi vantaggiosi soprattutto di beni non durevoli e semidurevoli sono sostanzialmente cresciute, per il secondo la tutela e l’implementazione dei diritti sociali sono progressivamente divenute più difficili.
La crescita del sentimento antieuropeo, testimoniata dalla forza che hanno ormai raggiunto nei diversi paesi del continente i partiti che lo interpretano e lo cavalcano elettoralmente, difficilmente potrà essere arginata senza prima aver preso coscienza dei numerosi fattori – storici, culturali, economici e naturalmente politici – che sono alla base di tale crescita. È infatti la crisi del progetto di unificazione europea, per come esso si è sviluppato nell’arco degli ultimi quindici anni, all’interno di un contesto storico radicalmente mutato rispetto a quello in cui si era originato, ad aver determinato l’aumento della disaffezione/delusione dei cittadini nei confronti dell’Europa, non viceversa. Bisogna dunque partire dalle cause, non dagli effetti o dai sintomi.
Le previsioni economiche, talvolta, hanno la stessa durezza dei fatti. In termini di PIL, oggi l’Italia è all’ottavo posto nel mondo e l’Unione europea è al secondo, dopo gli Stati Uniti e prima della Cina. Tra undici anni, nel 2030, l’Italia sarà sparita dall’elenco dei primi otto e l’UE sarà scesa al terzo posto, preceduta, nell’ordine, da Cina e USA. Nel 2050 l’Unione sarà al quarto posto, superata anche dall’India, e per trovare l’Italia bisognerà scendere di molti posti nella classifica. Dei paesi europei, solo la Germania figurerà ancora tra gli otto più ricchi (in termini di PIL) del mondo, ma sarà al settimo posto, incalzata dal Messico. Sarebbe davvero necessario che queste cifre entrassero, oltre che nel dibattito politico, anche nel senso comune. Lo spirito del tempo che considera l’Europa una zavorra da cui liberarsi e una matrigna che impone solo sacrifici dovrebbe essere costretto a misurarsi con i fatti.
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All’inizio del lungo percorso che ci porterà al voto per il rinnovo del Parlamento europeo il prossimo maggio, abbiamo voluto riflettere sul modo in cui viene considerato e percepito il progetto di integrazione
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