Le disparità di genere in Italia: un'analisi di sviluppo umano

Di Valeria Costantini e Salvatore Monni Lunedì 01 Maggio 2006 02:00 Stampa

Il 2 giugno scorso sono trascorsi sessant’anni dalle prime elezioni politiche nelle quali le donne esercitarono il diritto di voto, e tra due anni saranno sessanta anche gli anni della nostra Costituzione. Quella stessa Costituzione che all’articolo 3 ci ricorda il ruolo della Repubblica nel promuovere sia l’uguaglianza formale (comma 1) che quella sostanziale (comma 2) di tutti i cittadini italiani. Ad oggi, purtroppo, le differenze tra gli individui (cittadini e non) nel nostro paese permangono forti. In particolare, le differenze di genere rimangono marcate e presentano per certi versi una dinamica ancora più preoccupante. Nel corso di questa nota si cercherà di leggere le disparità di genere attraverso il nuovo e relativamente recente approccio delle «capacitazioni» o capabilities. Questo approccio, introdotto da alcuni scritti di Amartya Sen alla fine degli anni Settanta e ripreso tra gli altri dalla filosofa statunitense Martha Nussbaum in una chiave più specificamente di genere, cerca di superare un ostacolo teorico che caratterizza le più diffuse teorie degli assetti sociali, quali l’utilitarismo e il liberalismo, ovvero la definizione del problema dell’eguaglianza basata sulla sola misura dell’uguaglianza di reddito o di utilità.

1) Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

2) È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Articolo 3, Costituzione italiana

 

Il 2 giugno scorso sono trascorsi sessant’anni dalle prime elezioni politiche nelle quali le donne esercitarono il diritto di voto,1 e tra due anni saranno sessanta anche gli anni della nostra Costituzione. Quella stessa Costituzione che all’articolo 3 ci ricorda il ruolo della Repubblica nel promuovere sia l’uguaglianza formale (comma 1) che quella sostanziale (comma 2) di tutti i cittadini italiani. Ad oggi, purtroppo, le differenze tra gli individui (cittadini e non) nel nostro paese permangono forti. In particolare, le differenze di genere rimangono marcate e presentano per certi versi una dinamica ancora più preoccupante. Nel corso di questa nota si cercherà di leggere le disparità di genere attraverso il nuovo e relativamente recente approccio delle «capacitazioni» o capabilities.2 Questo approccio, introdotto da alcuni scritti di Amartya Sen alla fine degli anni Settanta e ripreso tra gli altri dalla filosofa statunitense Martha Nussbaum in una chiave più specificamente di genere,3 cerca di superare un ostacolo teorico che caratterizza le più diffuse teorie degli assetti sociali, quali l’utilitarismo e il liberalismo, ovvero la definizione del problema dell’eguaglianza basata sulla sola misura dell’uguaglianza di reddito o di utilità.4

Diversamente, in Sen l’idea tradizionale di utilità viene sostituita con i concetti di capabilities e funzionamenti (functionings), dove i funzionamenti rappresentano «stati di fare o di essere»,5 mentre le capabilities sono «le varie combinazioni di funzionamenti che un individuo può raggiungere».6

La prima conseguenza logica di questa diversa interpretazione dell’eguaglianza è che la povertà può essere definita come mancanza di capabilities, sottolineando così come il reddito svolga l’importante ruolo di strumento ma non di obiettivo delle politiche. Non è solo quindi un reddito basso a determinare l’assenza di capabilities e, di conseguenza, le politiche incentrate esclusivamente sull’incremento di reddito potrebbero rivelarsi inefficaci nel ridurre la povertà.

Risulta inoltre importante sottolineare come la relazione tra reddito e capabilities cambi in società diverse e per individui diversi. Lo stesso Marx, ci ricorda Sen,7 nella sua divisione della società in classi, incentrava l’analisi sul processo di produzione, evitando di considerare il reddito da lavoro come il solo criterio per il raggiungimento dell’obiettivo dell’eguaglianza. Al centro dell’analisi vi è quindi l’espansione delle libertà, che sostituisce l’incremento di reddito sia come primo obiettivo da raggiungere che come principale strumento da utilizzare per ridurre le disuguaglianze.8

A questo riguardo è importante ricordare come l’approccio delle capabilities non rappresenti una teoria che serve a spiegare la povertà, l’ineguaglianza o il benessere, ma ha il solo compito di fornire strumenti utili per concettualizzare e valutare questi fenomeni.9

L’approccio delle capabilities è anche alla base del paradigma dello sviluppo umano10 portato avanti nel corso degli anni Novanta dal Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) che, a partire dal 1990, pubblica ogni anno il Rapporto sullo sviluppo umano. Punto di eccellenza del Rapporto è il tentativo di calcolare un Indice di sviluppo umano (ISU) attraverso la quantificazione numerica di alcune delle principali dimensioni che rappresentano l’approccio delle capabilities. L’ISU ha subito negli anni numerose modifiche, sia in risposta alle critiche metodologiche ricevute da autorevoli studiosi, ma soprattutto in vista dell’evoluzione continua cui è soggetto il paradigma stesso dello sviluppo umano.

Proprio attraverso questo paradigma, e soprattutto avvalendoci della metodologia empirica di misurazione da esso promossa, abbiamo cercato di leggere le disparità di sviluppo esistenti tra le regioni italiane, dedicando uno sguardo particolare alle differenze di genere. Nel corso degli anni, accanto al classico Indice di sviluppo umano, sono stati realizzati alcuni indici più specificamente orientati alla misurazione delle disparità di reddito (come ad esempio l’Indice di povertà umana specifico per i paesi ricchi, IPU-2) e alla misurazione delle disparità di genere. In questo secondo caso, due sono gli indici compositi proposti dal Rapporto UNDP: l’Indice di sviluppo di genere (ISG) e la Misura dell’empowerment di genere (MEG), entrambi volti a qualificare il livello di sviluppo raggiunto anche in termini di opportunità garantite alle donne nella partecipazione alla vita sociale, economica e politica del paese.11

Ai fini della nostra analisi abbiamo quindi calcolato i quattro indici sopra descritti – ISU, IPU-2, ISG e MEG – per le venti regioni italiane, ponendoli a confronto tra loro e con un indice di sviluppo basato solo sul reddito pro capite. A differenza dell’indice basato sul solo reddito, i quattro indici proposti dal Rapporto UNDP contengono alcuni elementi aggiuntivi, quali il grado di istruzione e l’aspettativa di vita (l’ISU), un indice legato alla distribuzione del reddito e una quantificazione della disoccupazione di lunga durata (l’IPU-2), la misurazione delle componenti dell’ISU suddivise per genere (l’ISG), o ancora la presenza delle donne negli organi politici – consigli e giunte regionali nel nostro caso – e la loro partecipazione attiva ai processi decisionali ed economici – nel nostro caso il livello di occupazione femminile nel mercato del lavoro (il GEM).

Per un pieno confronto tra i diversi indici, la metodologia del Rapporto UNDP propone di classificare i paesi, e quindi nel nostro caso le regioni italiane, sulla base di una graduatoria costruita utilizzando i valori di ciascun indice. La regione con il più alto valore dell’ISU, quindi, si posizionerà in cima alla graduatoria, e la regione con il valore più basso sarà l’ultima della lista. Ovviamente, utilizzando diversi indici le graduatorie si modificano, per cui un confronto tra le graduatorie consente di verificare se esistono alcuni elementi, come gli investimenti per l’istruzione o la maggiore partecipazione delle donne alla vita sociale appunto, che caratterizzano un sentiero di sviluppo non solo orientato alla crescita economica in senso stretto, ma piuttosto indirizzato ad allargare le libertà di scelta nonché ad ampliare le capabilities a favore di ciascun individuo.

Guardando ai risultati, emerge con forza la differenza tra l’approccio basato sul solo reddito e quello basato sulla più ampia definizione di sviluppo umano. Scorrendo la graduatoria del reddito pro capite (PIL) troviamo ai primi posti rispettivamente Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, quindi al terzo posto la Lombardia e al quarto l’Emilia Romagna. La spaccatura tra Nord e Sud del paese è subito evidente e la ricchezza diminuisce ridiscendendo la penisola. Focalizzando invece l’attenzione sull’approccio delle capabilities catturato dagli indici di sviluppo umano, notiamo immediatamente che se la ricchezza risulta distribuita soprattutto al Nord del paese, lo sviluppo umano sembra invece distribuito soprattutto a favore del Centro Italia. In effetti, Emilia Romagna (+3), Marche (+9) e Toscana (+7) occupano nella graduatoria ISU rispettivamente le prime tre posizioni, mentre la prima regione settentrionale è il Friuli Venezia Giulia (al quinto posto), e ancora la Lombardia perde ben sei posizioni rispetto alla graduatoria reddito, e il Trentino addirittura undici. In entrambe le graduatorie, il Sud rimane indietro, pur con qualche differenza, come ad esempio la Calabria che, grazie alla dimensione che descrive l’accesso al sistema scolastico, guadagna ben tre posizioni.

Tabella 1

Ma ora focalizziamo la nostra attenzione sulle dinamiche di genere.12 Colpisce immediatamente il dato assoluto, laddove guardando la differenza nei valori medi tra l’Indice di sviluppo umano (uomini e donne) e l’Indice di sviluppo di genere (solo donne), quest’ultimo risulta di circa un terzo più basso. A dire la verità, questa non è una caratteristica esclusivamente italiana; non vi è, infatti, alcun paese in cui le donne vivano le stesse condizioni di benessere e partecipino alla vita politica e sociale al pari degli uomini.13 Tornando alle graduatorie, una lettura di sviluppo umano ci dice che anche in questo caso il Centro Italia presenta di gran lunga la posizione migliore. Ai primi due posti troviamo ancora Marche ed Emilia Romagna, al terzo il Friuli Venezia Giulia e quindi Toscana, Umbria, Abruzzo e Lazio. Questi risultati sono spiegati in parte dai tassi di occupazione femminile più elevati rispetto alla media del paese, con il 43,5% in Emilia Romagna, il 39,5% nelle Marche e il 38% in Toscana. Ma la migliore performance delle regioni dell’Italia centrale rispetto al Nord è legata soprattutto agli elevati livelli di partecipazione scolastica superiore femminile. La partecipazione scolastica, che è misurata attraverso il tasso di iscrizione all’università, si presenta infatti particolarmente elevata nelle regioni centrali, tutte con valori abbondantemente sopra il 40%, come le Marche con il 45,7%, l’Umbria con il 45,2% e la Toscana con il 44%. Diversamente, nelle regioni settentrionali il tasso di iscrizione universitaria risulta essere più basso di circa dieci punti o anche più come in Trentino dove il tasso di iscrizione terziaria è del 28,2% o in Piemonte con 32,4% e Lombardia con il 33,5%. Un discorso a parte meritano i risultati straordinari di Abruzzo con il 56,8% e Molise con il 56%.

A questo riguardo, proprio un approccio multidimensionale come quello dello sviluppo umano ci insegna che pur essendo gli indici compositi sicuramente di aiuto, uno sguardo attento alle singole dimensioni dello sviluppo risulta essere altrettanto importante. Si nota così come a volte regioni particolarmente virtuose sul lato dell’istruzione terziaria femminile risultano al tempo stesso caratterizzate da tassi di disoccupazione femminile ben più elevati rispetto alla media nazionale. Se si considerano nello specifico alcune regioni meridionali come Calabria, Campania e Sicilia, il fenomeno appare ancora più accentuato laddove sono presenti tassi di istruzione terziaria femminile superiori alla media nazionale e, contemporaneamente, tassi di disoccupazione femminile che sfiorano il 30%. Questi valori sembrerebbero confermare che, mentre l’uguaglianza formale – colta nel nostro caso dalla partecipazione scolastica – sembra essere stata raggiunta anche per le donne, diversamente l’uguaglianza sostanziale, ovvero l’accesso al mercato del lavoro, sembra essere ancora un obiettivo lontano.

In aggiunta a ciò, si è tentato di capire se questa differenza tra uguaglianza formale e sostanziale può essere spiegata anche con l’aiuto di indicatori di «partecipazione politica» (traduzione inesatta del termine anglosassone empowerment) che dovrebbero consentire di evidenziare il ruolo delle donne nella definizione del disegno delle politiche. I risultati ottenuti non consentono in questo caso di dare una risposta certa al nostro interrogativo. Potrebbe dipendere in particolare dai problemi incontrati nella definizione di quest’ultimo indicatore, causati dall’incompletezza delle fonti statistiche (come ad esempio la non piena disponibilità a livello regionale dei dati sui differenziali salariali). La conseguenza è che i risultati, come appare chiaramente dalla Tabella 1, presentano dinamiche controverse.

Nonostante questa doverosa premessa, se una conferma sembra arrivare da questi risultati è che laddove la presenza femminile nelle istituzioni risulta minore in maniera continuativa nel tempo sia negli organi assembleari che di governo, come nel caso dell’Italia meridionale, e in particolare in regioni come Calabria, Sicilia e Campania, le differenze tra uguaglianza formale e sostanziale tendono ad aumentare ulteriormente, aggravando se possibile il quadro di riferimento che appariva già critico.

Tabella 2

L’analisi, nel suo complesso, sembra quindi confermare appieno le potenzialità dell’approccio delle capabilities nel cogliere, anche con riferimento allo sviluppo territoriale, alcune importanti sfumature diversamente trascurate. In particolare, attraverso questo approccio multidimensionale, è possibile dare maggiore rilievo ad aspetti più propriamente legati ai problemi dello sviluppo come le disparità di genere, altrimenti relegati ai margini delle analisi economiche di stampo ortodosso orientate alla sola valutazione dei profili di crescita del reddito.

Da queste osservazioni emerge con forza che l’Italia non solo presenta le ben note disparità nei tassi di crescita regionali, ma ancor di più risulta caratterizzata da un’ampia divergenza in termini di sviluppo e permangono in particolare marcate disparità di genere.

Forse un intervento più incisivo per garantire una maggiore partecipazione delle donne al sistema politico e decisionale potrebbe innescare quel processo virtuoso, dai più auspicato, che consentirebbe finalmente al nostro paese di ridurre il divario tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale.

 

Bibliografia

1 Il riferimento è al voto tenuto il 2 giugno 1946 per il referendum Monarchia-Repubblica e per la composizione dell’Assemblea costituente.

2 «Capacitazioni”, insieme al termine più generale di capacità, rappresenta una delle traduzioni più utilizzate del termine anglosassone capabilities.

3 Si può a questo riguardo vedere Women and Human Development. The Capabilities Approach, Cambridge University Press, tradotto in italiano da Il Mulino con il titolo Diventare persone. Donne e universalità dei diritti.

4 A. K. Sen, Inequality Re-examined, Claredon Press, Oxford 1992.

5 Sen, Development as Freedom, Random House, New York 1999.

6 Sen, Inequality cit. Una esaustiva bibliografia su questo approccio si può trovare sul sito dell’associazione Human Development and Capability Association, www.hd-ca.org.

7 Sen, Inequality cit.

8 Sen, Development cit.

9 I. Robeyns, The Capability Approach: A Theoretical Survey, «Journal of Human Development», 1/2005, pp. 93-114.

10 S. Fukuda-Parr, The Human Development Paradigm: Operationalizing Sen’s Ideas on Capabilities, «Feminist Economics», 2-3/2003, pp. 301-317.

11 Per una rassegna completa degli indici prodotti dal Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, e per un’analisi della metodologia utilizzata, è possibile consultare i rapporti pubblicati dall’UNDP disponibili anche in rete sul sito www.undp.org.

12 Sempre Sen, occupandosi di disparità di genere, osserva come queste si «possono meglio comprendere occupandosi degli obiettivi reali delle politiche quali espansione delle capabilities e delle functoning degli individui piuttosto che dei mezzi per giungere loro come la disponibilità di risorse». Sen, Inequality cit.

13 UNDP, Human Development Report, 1997, Oxford University Press, New York 1997.

14 Iscritti all’università per 100 giovani di 19-25 anni. Per le regioni il riferimento è alla residenza degli studenti.