Bolivia: la lunga transizione dall'utopia armata al socialismo comunitario

Di Alberto Filippi Lunedì 02 Gennaio 2006 02:00 Stampa

La lunga e ostacolatissima marcia dell’aymara Evo Morales – e degli oltre cinquanta movimientos sociales che lo hanno accompagnato – attraverso le istituzioni è giunta al punto cruciale di svolta: l’inizio del suo governo, con un programma quanto mai originale e ambizioso. Fra le priorità vi è quella di indire entro sei mesi un’Assemblea costituente che «rifondi politicamente e costituzionalmente» la Bolivia, generando le condizioni e le regole istituzionali per porre fine al Estado colonial e iniziare la lotta per la «seconda Indipendenza», dopo quella combattuta contro l’Impero borbonico tra il 1810 e il 1825, guidata da José de San Martín e Simón Bolivar e che diede vita alla República de Bolivia nel 1826.

 

La lunga e ostacolatissima marcia dell’aymara Evo Morales – e degli oltre cinquanta movimientos sociales che lo hanno accompagnato – attraverso le istituzioni è giunta al punto cruciale di svolta: l’inizio del suo governo, con un programma quanto mai originale e ambizioso. Fra le priorità vi è quella di indire entro sei mesi un’Assemblea costituente che «rifondi politicamente e costituzionalmente» la Bolivia, generando le condizioni e le regole istituzionali per porre fine al Estado colonial e iniziare la lotta per la «seconda Indipendenza», dopo quella combattuta contro l’Impero borbonico tra il 1810 e il 1825, guidata da José de San Martín e Simón Bolivar e che diede vita alla República de Bolivia nel 1826.

La vasta e strepitosa vittoria elettorale del carismatico e sorprendente Morales – insieme alle federazioni dei movimenti dei contadini e dei minatori, ma anche ad alcuni settori della classe media urbana e a molti intellettuali e forze studentesche – segna dunque una fase nuova nella politica dei paesi andini, e molto significativa nella mutante configurazione politica delle diverse coalizioni di centrosinistra che stanno governando nell’America del Sud. Una determinante conferma è venuta con l’elezione a presidentessa del Cile di Michelle Bachelet come candidata della Concertación.

Si tratta di un passaggio storico assai complesso e ancora tutto da verificare: dall’utopia guerrigliera alla politica riformista del consenso multietnico, tenacemente voluta e gestita da Morales (de la inclusión y no de la exclusión, come ama ripetere il presidente boliviano). Morales non è affatto la fantomatica riapparizione di un Che Guevara indio e, tanto meno, come ritiene il sempre più decaduto Mario Vargas Llosa, un promotore di un supposto «nuovo razzismo» degli aymara e dei quechuas contro i presunti «bianchi» latinoamericani.

Morales viene accusato dal «Los Angeles Times» di essere il continuatore ideale dei guerriglieri degli anni Sessanta e, dall’altra parte, da alcune frange trotskiste e dell’estrema sinistra sudamericana, di esercitare negativamente una política de democratismo izquierdista. Di fatto, egli propone il rifiuto dei modelli che vengono dall’esterno della realtà boliviana e sostiene che la rivoluzione delle riforme (perché questo significa rifondare la Repubblica) è un processo storico che inevitabilmente deve essere specifico e irripetibile. Dunque, quello di Morales e dei suoi compañeros y hermanos – incominciando dal vicepresidente della Repubblica Alvaro García Linera (che fu dirigente negli anni Ottanta dell’Ejército Guerrillero Túpak Katari e incarcerato dal 1992 al 1997) – è un movimento che ha deliberatamente rifiutato la rivoluzione delle pallottole (de las balas), per sostituirla con quella dei voti (de los votos). Un movimento che per ora, e in estrema sintesi, potremmo definire come un movimento popolare democratico, multietnico, di centrosinistra, che non si identifica con altre esperienze precedenti, latinoamericane o non, di «comunismo reale», di populismo autoritario o di «socialismo realizzato».

Per avere una prima idea della complessità del progetto concepito da Morales e delle diverse forze sociali, istituzionali e culturali che lo possono sostenere od ostacolare, è utile far riferimento alle cerimonie del suo insediamento il 21 e 22 gennaio scorso. La prima, quella dell’investitura da parte dei popoli originari, una cerimonia che si è svolta per la prima volta dopo cinquecento anni, sullo scenario delle rovine millenarie di Tiwanaku (a 3.845 metri di altezza), nel tempio di Kalasasaya, sotto gli auspici e la protezione della madre terra (Pachamama) e del padre sole (Tata Inti), e dove Morales ha ricevuto gli attributi di comando che avevano le autorità politiche e religiose negli anni precedenti alla conquista ispanica, nell’epoca feconda del Pachakuti.

La seconda, quella della tradizione repubblicana e democratica, nella sede del parlamento, dove Morales ha delineato il suo programma di governo: l’assemblea costituente, la nazionalizzazione delle risorse naturali, includendo l’acqua, la valorizzazione del comunitarismo e dell’ayllu, la democrazia politica e il pluralismo etnico e religioso.

La terza, quella della festa pubblica e popolare, assieme ai cittadini venuti da tutto il paese e che nelle varie piazze di La Paz, tra suoni di erkes e di sikus, hanno festeggiato Morales, il quale ha salutato e ringraziato i nove presidenti latinoamericani che hanno partecipato al suo insediamento, molti dei quali, tuttavia, non avranno una politica di appoggio incondizionato o di sicura alleanza nei suoi confronti.

Grande interesse, dunque, sia teorico che politico, per un’esperienza che vuole rilanciare in modo sostanzialmente innovativo il ruolo delle tre grandi componenti della economia e della società boliviane: quella comunitaria, quella familiar e quella moderno-industrial, con l’intenzione di dare vita a forme nuove di organizzazione sociale e del lavoro nel settore pubblico e della società civile, nell’autogestione e nell’auto-organizzazione delle relazioni di produzione e di un peculiare sviluppo mercantile propriamente andino e amazzonico (autogestión y en la auto-organización de relaciones de producción y de un peculiar desarrollo mercantil propiamente andino y amazónico).

In questa visione del riformismo e del socialismo – o, per essere più precisi, del socialismo comunitario, come lo chiama Evo Morales – che vengono intesi come un processo storico, e non come modello ideologico, i dirigenti del MAS ritengono che la Bolivia continuerà ad essere capitalista per i prossimi decenni. Pertanto, lungi dall’essere una utopía arcaica – come sdegnosamente ritengono le destre dei «bianchi» offesi dal responso delle urne boliviane – la lunga e progressiva transizione al socialismo proposta dal MAS è, piuttosto e realisticamente, il risultato di una riflessione critica e antidogmatica, che scaturisce dal constatare e comprendere che la prospettiva di una rivoluzione socialista (nel senso che aveva voluto indicare Marx) nella società boliviana è un progetto a venire, che esige quanto meno il superamento della vecchia condizione coloniale e neocoloniale dell’economia, della politica e della società.

Il trionfo elettorale delle lotte del MAS, e la conseguente entrata al governo dei popoli indigeni (dei pueblos indígenas originarios, gli aymara, quechua e guaraní) apre insomma – per la prima volta dopo due secoli di vita repubblicana – una possibilità, reale e concreta, di trasformazione della società e dello Stato, e della relazione tra società civile e potere, sulla base della ricomposizione di una economia di capitalismo andino-amazónico, che nella prospettiva futura diventa la condizione essenziale per non far decadere l’attesa del socialismo a un semplice esercizio demagogico e illusorio. Per almeno due ragioni, spiegano gli amici del MAS. La prima è che con il blocco storico, imposto dalle oligarchie, di ogni forma considerevole di industrializzazione delle risorse del paese, la classe operaia è politicamente inesistente. In secondo luogo, perché le economie comunitarie sia nelle campagne che nei centri urbani sono state indebolite o eliminate dalla devastazione imposta dalle politiche neoliberali.

Per ricostruire queste redes comunitarias (reti di comunità), e l’economia boliviana in generale, sarà necessario un grande lavoro di lungo periodo, il quale, inoltre, dovrà tenere anche conto delle varianti che si determineranno sulla base dell’integrazione della Bolivia nel Mercosur, sempre che si realizzi positivamente come sostengono adesso i presidenti del Brasile Lula e dell’Argentina Kirchner.

Come era già in parte accaduto con alcune previsioni di José Carlos Mariátegui e, molto tempo dopo, con quelle dei dirigenti della rivoluzione boliviana degli anni Cinquanta, la tendenza a immaginare e ad avere una visione quasi volontaristica e idealistica dei tempi storici (ritenuti rapidissimi) della rivoluzione anche adesso puo incombere tra i leader del MAS, con il pericolo di una visione immediatista o a breve termine del processo rivoluzionario o, meglio ancora, del vincolo tra riforme e rivoluzione. Bisogna, dunque, fare tesoro dell’esperienza. Negli anni Cinquanta, Hernán Siles Suazo, Victor Paz Estenssoro, Juan Lechín e gli intellettuali del Movimiento Nacionalista Revolucionario (MNR), pensavano che le comunità indigene sarebbero state assorbite dal progresso capitalista prima, e socialista dopo; e che in molti, o forse, moltissimi, sarebbero divenuti moderni, industriosos, capitalistas y asalariados; ma oggi sappiamo che ciò non accadde. Anzi, dopo gli anni Ottanta vi fu nell’economia e nella società un progressivo allontanamento da quasi tutte quelle mete vanificate in un semplice miraggio.

Oggi, la «modernità industriale» in Bolivia è rappresentata da percentuali della popolazione attiva che oscillano, a seconda dei settori, tra il 15% e il 7%. Soltanto l’1% della popolazione ha accesso all’uso del gas, che paradossalmente costituisce la maggiore risorsa della nazione. La Bolivia, dopo Haiti, è il paese più povero delle Americhe: l’80% della popolazione, dipendendo dalle diverse zone geografiche, si trova in situazioni di povertà o di miseria. La dura realtà di questi dati impone ai dirigenti del MAS una straordinaria consapevolezza circa i tempi storici della revolución de las urnas y de las reformas (rivoluzione delle urne e delle riforme).

Per concludere, mi permetto una riflessione legata ad un antico ricordo che risale all’epoca del mio primo viaggio in Bolivia, tre anni dopo la morte del Comandante Ernesto Guevara e che ho associato a Morales bambino, cresciuto in una poverissima famiglia di sette figli, dei quali soltanto quattro riuscirono a superare il primo anno di vita. Infatti, domenica 22 gennaio vedendo alla televisione argentina le immagini in diretta della terza cerimonia dell’insediamento di Evo nella piazza di San Francisco, non mi è sfuggita la presenza, assieme alle bandiere tricolori della Bolivia e le Wipholas (le meravigliose bandiere con il colori dell’ a rcobaleno i quali rappresentano le 37 etnie che coesistono in Bolivia, come pure la storica resistenza dei pueblos originarios), dell’immagine del Che visibile in altre bandiere dove appare la sua effige, con il basco con la stella dorata in testa ( immortalata per caso da Alberto Korda nella celebre foto del 1960), volto che spiccava tra i visi austeri e allegri degli indios, adornati con i gorros, i berretti indossati per le grandi feste.

Mi venne a mente il mio viaggio di allora, nel Departamento di Oruro (dove, sappiamo, undici anni prima, il 26 ottobre 1959 era nato Evo Morales Ayma, nella comunità di minatori di Isollavi, a Orinoca), durante il quale viaggio, e poi, ritornando a La Paz via Cochabamba, chiesi ripetutamente agli indios se conoscessero la figura di Guevara e, con tremendo stupore, mi resi conto che pochissimi sapevano chi fosse e cosa rappresentasse politicamente, e che fosse stato in Bolivia, dove era morto poi nel 1967 a La Higuera vicino a Vallegrande, mentre faceva la rivoluzione armata per liberare anche loro. L’effetto combinato dell’analfabetismo, della censura e della repressione dei governi antipopolari e reazionari dei militari René Barrientos e di Alfredo Ovando spiegavano il silenzio, la paura, e l’omertà nei confronti del Che.

Così, adesso, dopo quarant’anni, il Che è tornato in mezzo alla gente, nelle piazze e nelle strade della Bolivia, perché dopo la sconfitta della sua rivoluzione armata, è in corso un’altra rivoluzione política, democrática y cultural, come la definisce Evo, che molti boliviani stanno facendo anche per lui, e per poterne vendicare la memoria, assieme a Tupak Katari e agli altri combattenti che «lottarono per la libertà, che lottarono per l’emancipazione, che lottarono contro lo sfruttamento», come ha detto il presidente Morales nel suo appassionato discorso di fronte ai parlamentari boliviani e ai presidenti latinoamericani, lo scorso 22 gennaio a La Paz.