Ripensare la sicurezza internazionale

Di Federica Caciagli Lunedì 02 Gennaio 2006 02:00 Stampa

Lo scorso 4 novembre si è tenuto presso la Fondazione Italianieuropei il seminario «Rethinking security, or how to deal with insecurity», in occasione del quale leader politici progressisti europei hanno affrontato insieme ad analisti di relazioni internazionali e di politiche di sicurezza e ai rappresentanti di alcuni dei maggiori think tank democratici statunitensi – già consiglieri di Bill Clinton durante le sue presidenze – le principali questioni relative alla sicurezza internazionale e al futuro delle relazioni transatlantiche, riflettendo sulle possibili linee di una strategia politica condivisa dalle forze progressiste europee e statunitensi. Dalla discussione è emerso un confronto ampio e costruttivo sugli scenari critici che minacciano la sicurezza internazionale e le ragioni che ne sono all’origine, sulla cui analisi si dovranno impostare in futuro le basi della cooperazione transatlantica.

 

Lo scorso 4 novembre si è tenuto presso la Fondazione Italianieuropei il seminario «Rethinking security, or how to deal with insecurity», in occasione del quale leader politici progressisti europei hanno affrontato insieme ad analisti di relazioni internazionali e di politiche di sicurezza e ai rappresentanti di alcuni dei maggiori think tank democratici statunitensi – già consiglieri di Bill Clinton durante le sue presidenze – le principali questioni relative alla sicurezza internazionale e al futuro delle relazioni transatlantiche, riflettendo sulle possibili linee di una strategia politica condivisa dalle forze progressiste europee e statunitensi. Dalla discussione è emerso un confronto ampio e costruttivo sugli scenari critici che minacciano la sicurezza internazionale e le ragioni che ne sono all’origine, sulla cui analisi si dovranno impostare in futuro le basi della cooperazione transatlantica.

I principali temi affrontati nel dibattito sono sintetizzati qui di seguito. 

 

1. Esportare o promuovere la democrazia?

Nel dibattito seguito gli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, è più volte emerso un messaggio di indubbio fascino. Quello che invita ad «esportare la democrazia», poiché la democrazia impedirebbe al terrorismo di radicarsi nella società. Si tratta tuttavia di uno slogan senza efficacia, se l’esportazione della democrazia si traduce in un processo che esula dal rispetto delle istituzioni internazionali, e che anzi ne indebolisce il ruolo e la credibilità, rafforzando al contrario il rischio che i fondamentalismi e il terrorismo si consolidino nei paesi islamici.

È necessario quindi riflettere su cosa significhi «esportare la democrazia», e quali ne siano le implicazioni, tanto più a fronte dell’esperienza dell’Iraq in cui la decisione di intervenire militarmente per ripristinare la democrazia, rovesciando con l’uso della forza il regime dittatoriale di Saddam Hussein, sembra avere avuto effetti molto più controproducenti di quanto ci si aspettasse. Nel momento in cui alcuni membri della comunità internazionale decidono a favore di un intervento unilaterale che viola la sovranità di un altro Stato ci si deve interrogare su quale sia – se ne esiste uno – il prezzo giusto da pagare in termini di vite umane e di rischi sia per la comunità internazionale che per l’ordine stesso del paese in cui si interviene. E valutare se quel prezzo possa estendersi anche al rischio che il paese vada incontro a una guerra civile da cui i gruppi estremisti possano trarre beneficio, rafforzandosi a scapito di quelli riformisti.

Al concetto di «esportazione della democrazia» sembra dunque opportuno sostituire quello di «promozione della democrazia», quest’ultimo fondato sul presupposto del rispetto dei diritti umani, dell’uguaglianza sociale e dello Stato di diritto. La promozione della democrazia si pone come obiettivo la risoluzione alla radice delle cause che generano frustrazione e risentimento tra le popolazioni islamiche e che possono trasformarsi in strumento di propaganda funzionale ai terroristi.

Sostenere la democrazia non significa tuttavia escludere in linea di principio il ricorso all’azione militare. Ma significa piuttosto ponderare l’uso della forza in relazione alle circostanze e alle caratteristiche specifiche dei casi che si pongono all’attenzione della comunità internazionale. Le circostanze recenti in cui si è ricorsi allo strumento della forza militare apparivano molto diverse da quelle in cui si muove oggi il terrorismo globale. A differenza delle crisi balcaniche, il terrorismo internazionale non è circoscritto a uno Stato territoriale. Non ha la forma di un esercito da sconfiggere che, per quanto forte, resta comunque identificabile. E richiede pertanto che si ricorra a una vasta serie di strumenti che associno misure di prevenzione a sforzi coordinati di intelligence nel quadro di una cooperazione internazionale continua.

È quindi necessario concepire una terza via tra l’impotenza di fronte al terrorismo e la guerra, tra la tolleranza passiva verso dittature sanguinarie e l’esportazione della democrazia attraverso l’azione armata. Una via nuova che si fondi sull’assunzione della responsabilità a proteggere per garantire la sicurezza internazionale, sostenendo il complesso percorso della transizione verso la democrazia, e avendo come obiettivo il sostegno alla ricostruzione delle istituzioni dello Stato e la restaurazione della sovranità. Passaggi, questi, senza i quali il pur importante tassello delle elezioni democratiche non garantisce la stabilità di un paese. L’esercizio del voto resta infatti un elemento fondamentale poiché crea Stati responsabili di fronte a cittadini che – a loro volta – maturano la consapevolezza di essere parte del processo politico, ed è un elemento indispensabile alla costruzione di un ordine costituzionale proprio delle società liberali. Sono infatti le rivoluzioni democratiche che partono dal basso quelle che si evolvono e si consolidano nel tempo, proprio perché appartengono ai cittadini che se ne fanno co-promotori e attori. L’«imposizione della democrazia» dall’esterno è d’altra parte un esperimento che si è in molte occasioni dimostrato fallimentare – basti pensare ai casi recenti della Georgia o dell’Ucraina.

Il concetto di «promozione della democrazia» da parte dei paesi occidentali stenta spesso a trovare nei paesi islamici un terreno fertile, non solo a causa del processo di estremizzazione di alcuni segmenti della società, ma anche – ed è questo un dato forse ancora più preoccupante – per l’assenza di una riflessione profonda sulla democrazia all’interno della società civile e nei gruppi intellettuali locali. L’appropriazione della democrazia da parte del mondo islamico resta un concetto ancora troppo spesso estraneo alla cultura di questi paesi, ben di più che l’interiorizzazione della cosiddetta politica delle riforme spesso incoraggiate da pressioni esterne. Sulla difficoltà di promuovere la democrazia pesa dunque quella ulteriore di riuscire a costruire un percorso che semini gli elementi di democrazia in quel terreno. Si tratta di un percorso di lunghissimo periodo in cui è necessario valutare quanto l’introduzione di politiche di secolarizzazione e la distinzione tra la dimensione religiosa e quella secolare delle istituzioni e della politica favorisca il passaggio a regimi democratici.

Questa resta una materia controversa su cui influisce l’interpretazione di alcuni processi storici di secolarizzazione delle culture islamiche e l’evoluzione dei paesi che sono passati attraverso questo esperimento con esiti molto diversi, basti pensare alla Turchia di Atatürk e all’Iran dello Shah Pahlevi. I processi di secolarizzazione sono molto spuri e si trovano a dover convivere con una persistenza e una resistenza culturale dell’identità da parte degli islamici che rifiutano ciò che interpretano come una forzosa globalizzazione culturale. Vi resistono sotto forma di olismo, di comunitarismo, con il rischio che la secolarizzazione imposta dall’esterno si traduca in un effetto controproducente e aumenti l’attrazione della popolazione verso gli estremisti.

Promuovere la democrazia, ma con processi che partono dall’alto, può far emergere movimenti islamisti neo-tradizionalisti, ovvero quei gruppi che, a partire dal basso, intendono reislamizzare la società, e che crescono a livello tale che devono poi entrare nel sistema politico. Una delle realtà con cui l’Occidente dovrà inevitabilmente misurarsi nei prossimi venti anni sarà l’emergere di movimenti islamisti neotradizionalisti che potranno diventare la classe di governo dei loro paesi, ponendo quindi agli Stati occidentali il problema di instaurare con essi un dialogo. Ne è un’indicazione il fatto che mentre gli occidentali si confrontano sul tema della democrazia, i movimenti islamisti e neotradizionalisti, discutono di cosa fare se potessero governare i loro paesi: se in quell’ eventualità sia preferibile adottare la cosiddetta «via cinese», ov ve ro una sorta di neutralizzazione della loro posizione sul piano esterno in cambio della garanzia che non ci saranno interferenze al loro interno e che renderà possibile reislamizzare la società. Oppure se sarà più conveniente perseguire, come ritengono oggi le correnti minoritarie, la linea di un panislamismo internazionalista che produca solidarietà da paese a paese e possa contare su proiezioni internazionali in situazioni di crisi.

 

2. Le risposte europee alle minacce per la sicurezza

Le minacce che si presentano ai governi occidentali coincidono con diversi cerchi, distinti ma in parte sovrapposti. Il primo cerchio è il più noto ed immediato riferimento al terrorismo globale, quello di al Quaeda. Il secondo è il cerchio che può essere definito «etno-nazionalista», di cui sono esempio – tra gli altri – i ribelli ceceni e i kashmiri, composto da gruppi che in alcuni casi hanno legami con al Quaeda. Il terzo cerchio coincide con i terroristi cresciuti all’interno di quei paesi che ne sono poi state le vittime. I terroristi home-grown, cresciuti in Europa, gli eurojihadisti, che sono al cuore del problema identitario sorto dalle contraddizioni di un mondo globalizzato in cui non esistono più confini. Vi sono infatti comunità islamiche integrate socialmente ed economicamente ma non culturalmente, e sono queste che, incorrendo nella sensazione di una perdita di identità, possono essere attratte dal tentativo di reislamizzarsi. Possono ricercare un elemento di rifondazione identitaria, muovendosi contro l’Occidente dal suo stesso interno. Esempi di questa tendenza vengono dalla Spagna, dalla Gran Bretagna, e dall’Olanda. E anche il caso francese dei recenti incidenti nelle periferie conferma che esiste il problema di come rivolgersi alle seconde e terze generazioni di figli di immigrati.

Sebbene la maggioranza degli immigrati musulmani in Europa tenda a secolarizzarsi, ciò non significa che accetti e condivida ogni aspetto della democrazia occidentale, ma che piuttosto partecipi nella sostanza al mercato dei beni e acceda quindi alla secolarizzazione principalmente attraverso il consumo. Accanto a questa maggioranza vi è però anche un Islam politico organizzato che tende a reislamizzare la comunità su basi ideologiche, eliminando anche le differenze etniche, e proponendo un modello ideologico che si sovrappone all’identità etnica. Emerge quindi il tema della politicizzazione delle comunità da parte degli attori dell’Islam organizzato dal quale può derivare un problema di lealtà politica verso le istituzioni. Esistono attori mobili che di volta in volta scelgono gruppi o interferiscono con realtà locali, che tendono a porsi, in epoca di deterritorializzazione, come attori transnazionali in grado di incidere anche sulle politiche interne degli Stati.

Nonostante questi ostacoli, la riforma dell’Islam non può venire che dall’Europa, dall’Islam in Occidente, dove il confronto con la religiosità e con la dimensione del rapporto con la politica è frutto di una scelta individuale. Ed è solo qui che possono nascere elementi di riforma e di confronto di carattere democratico. Alle comunità immigrate musulmane in Europa si deve chiedere una convergenza minima sui valori democratici, mentre si promuove una reale inclusione democratica di queste comunità.

È appunto nel tentativo di elaborare i modelli di convivenza e inclusione più adatti che occorre riflettere sui diversi esperimenti di integrazione avviati nei paesi europei, prendendo atto del fatto che i modelli di integrazione europei si sono tutti dimostrati imperfetti. Quello francese dell’integrazione, condotta dall’alto, degli immigrati nella società ma anche quelli olandese e britannico di estremo multiculturalismo che, seppure molto più liberali, hanno tuttavia dimostrato di non fondarsi su una comprensione profonda e sufficiente delle comunità islamiche e dei processi che le hanno portate a radicalizzarsi.

Gli Stati europei, in quanto membri della UE, dispongono di uno strumento collettivo che si accompagna alle politiche nazionali. Si tratta delle politiche di integrazione e di allargamento, e di quella più recente di «vicinato» che l’Unione europea applica verso quei paesi che si trovano in prossimità dei suoi confini per garantirne la stabilità. La UE può offrire un continuo «potere di traformazione» forte dell’offerta di una futura partecipazione all’Unione. È appunto la prospettiva dell’adesione alla UE l’incentivo principale per i paesi che guardano all’Unione come obiettivo e motore per l’avvio di politiche di riforma al loro interno. La questione che si pone è però quanto la UE possa spingersi nei casi in cui non vi siano condizioni sufficienti per offrire la «carota dorata» dell’accessione e in che forme debba invece essere concepita una «carota d’argento» che stimoli comunque il processo di riforme, lasci aperta la porta dell’Unione, pur senza promesse irrealistiche. L’integrazione è un forte incentivo a procedere lungo la via di riforme democratiche e il cammino della Turchia, con i progressi che il paese ha registrato, ne è un esempio eloquente.

L’Unione non deve restare statica e deve anzi continuare a modularsi sulle evoluzioni della storia, adeguando le proprie istituzioni per predisporsi ad accogliere nuovi paesi sia pur con forme di membership limitata, prima di tutto nel suo stesso interesse. Fare fronte a molti dei problemi che si pongono di fronte all’ipotesi di allargare ulteriormente i confini ad Est e Sud-Est – e tra questi, i flussi migratori, il controllo delle fonti e delle linee di trasporto dell’energia – significa indirettamente prevenire fenomeni che potrebbero, se non governati, ledere in primo luogo la sicurezza degli stessi Stati membri.

Se si ritiene che l’Unione sia in grado di aiutare i gruppi musulmani moderati, allora la questione dell’ingresso della Turchia assume un’importanza straordinaria. Così come diventa fondamentale ripensare le istituzioni, elaborando forme di membership parziale che potrebbero inizialmente coincidere con la partecipazione all’area economica comune o all’area Schengen di paesi come l’Ucraina o la Georgia, rispondendo da un lato alle loro aspettative, ma tenendo conto, dall’altro, delle grandi diversità e delle difficoltà di questi paesi e della gradualità con cui il loro avvicinamento all’Unione deve procedere. Sulle decisioni della UE relative ai prossimi allargamenti influirà inevitabilmente l’esperienza e l’evoluzione dei rapporti con le comunità islamiche che già vivono nel territorio dei suoi Stati membri. Le relazioni tra diverse comunità hanno registrato un forte aumento delle tensioni in molti paesi europei. In Gran Bretagna, a seguito degli attacchi terroristici del 7 luglio scorso, sono aumentati gli incidenti e gli episodi di intolleranza, mentre gli sforzi compiuti per approfondire il dialogo con le comunità musulmane non hanno dato risultati soddisfacenti. Al contrario, molti dei leader di queste comunità continuano ad insistere sulla separazione dei loro valori, dell’educazione, delle tradizioni e delle consuetudini dal resto della società, dimostrando scarso interesse alla reciproca comprensione e al dialogo.

 

3. Cooperare per una governance globale progressista

La sicurezza internazionale è ancora più chiaramente un «bene pubblico» dopo che l’11 settembre ne ha rivoluzionato la concezione tradizionale degli anni della Guerra Fredda. Sul fronte europeo la Strategia di sicurezza europea elaborata nel 2003 da Javier Solana, si concentra sulle sfide globali e sulle minacce comuni contro il genere umano sul piano europeo e internazionale. Tra queste si annoverano minacce convenzionali e non-convenzionali, incluse le catastrofi naturali e quelle provocate dall’uomo, le epidemie e i disastri su larga scala causati dalle cosidette «infrastrutture della globalizzazione», blackout energetici o di Internet su scala transnazionale ad esempio. Questi nuovi tipi di minacce, non solo trovano i governi impreparati poiché essi ancora stentano ad elaborare sistematicamente strategie preventive, ma suscitano anche tra i cittadini una diffusa percezione di insicurezza interna ed esterna, collettiva e individuale che rimette in dubbio i confini tradizionali tra paesi, organismi internazionali e Stati.

Nella «comunità del rischio» – com’è stata definita la società internazionale da Anthony Giddens e Ulrich Beck – i pericoli e le incertezze si riconducono ad almeno quattro cerchi di vulnerabilità: nazionale, europeo, transatlantico e globale che, a diversi livelli, devono essere contrastati ricorrendo alla nozione di «solidarietà», alla condivisione delle responsabilità e delle capacità, alla predisposizione degli strumenti necessari a rispondere alle nuove sfide con valori e interessi comuni. Solo considerando la sicurezza un bene pubblico e adottando il valore della solidarietà nelle sfere nazionali e internazionali è possibile rispondere alle nuove sfide e alle diverse percezioni di insicurezza che si stanno consolidando in Occidente.

È quindi necessario che gli Stati Uniti e l’Europa si concentrino sull’elaborazione di una governance globale progressista, attraverso un percorso che canalizzi le risposte alle maggiori sfide della globalizzazione, e alla cui base vi sia la consapevolezza che – senza una forte guida politica – questa non solo può determinare ingiustizie e disuguaglianze, ma essere anche causa di conflitti drammatici come quelli che la comunità internazionale si trova di fronte oggi. Tale guida deve fondarsi su relazioni transatlantiche solide che diano vita a un contesto di effettivo multilateralismo in cui sia possibile difendere la sicurezza tramite la libertà, la democrazia e la giustizia sociale. In questa prospettiva l’intervento militare in Iraq non sembra dunque essere stata la risposta giusta alla crisi irachena. Non lo è stata dal punto di vista della strategia militare, poiché si è riprodotto un intervento classico, ed è stata usata una risposta convenzionale, la guerra, per scongiurare una minaccia non-convenzionale, asimmetrica. La risposta all’11 settembre ha messo in luce l’incapacità dell’Amministrazione Bush di interpretare una situazione molto più fluida e ingestibile di quanto potesse essere fatto con il semplice intervento di truppe straniere.

Le ragioni sembrano derivare da una sorta di incomprensione nel pensiero strategico occidentale rispetto al modo di affrontare una minaccia globale che è impossibile localizzare dal punto di vista territoriale. Al Qaeda si è consolidata come una «rete di reti» a cui non serve più pianificare strategicamente attentati a livello centrale, potendo ormai contare su un insieme di sottogruppi che condividono un comune nemico e una comune ideologia e contro i quali nessun intervento di carattere convenzionale può costituire un antidoto o una forma di dissuasione efficace. Questo tipo di minaccia, il «jihadismo globale», può essere affrontato solo con un meccanismo di collaborazione multilaterale, con operazioni di antiterrorismo di largo respiro che trovino però in organismi internazionali la propria fonte di legittimazione. Mentre l’antiterrorismo globale è necessariamente cooperativo e presuppone che siano messe insieme informazioni, reti, conoscenze, e strumenti diversi, la guerra convenzionale accerchia il piano multilaterale ed assume una forma strettamente unilaterale e inefficace.

 

4. La paternità contesa dei valori democratici

Nella missione irachena Bush ha utilizzato la retorica della libertà per attribuire ai neocons la paternità della promozione della democrazia e dei diritti umani in Medio Oriente come elemento chiave della sicurezza nazionale americana contro il terrorismo, strumentalizzando le paure consolidatesi nella società americana e fornendo ai cittadini risposte incomplete e sul lungo periodo inefficaci. I conservatori hanno adottato la retorica di temi tradizionalmente progressisti associandola a obiettivi e visioni politiche fallimentari. L’obiettivo della «libertà» è stato strumentalizzato per giustificare le forzature dell’intervento militare e le violazioni dei diritti umani che si sono registrate in seguito. Ma la promozione della democrazia – così come è stata utilizzata da Bush per coprire gli errori della sua Amministrazione – non è affatto monopolio delle forze conservatrici. Ed è proprio l’evidente fallimento dei neocons che dovrebbe spingere i progressisti a rivendicare l’iniziativa della difesa della libertà, elaborando nuove idee e una nuova strategia che dia priorità all’azione politica, ad iniziative culturali, al dialogo interreligioso e a politiche che riducano la povertà e ridistribuiscano le opportunità all’interno della società.

I limiti della decisione dell’Amministrazione Bush di intervenire in Iraq sono anche confermati dal calo di consensi registrato tra i cittadini americani, e dalla richiesta della maggioranza della popolazione di invertire il corso della politica del paese in Medio Oriente, anche perché la presenza di truppe occidentali in Iraq viene interpretata come un’aggravante dei fattori di rischio per nuovi attentati sul territorio statunitense. La maggioranza degli americani ritiene che l’uso della forza militare non sia la via giusta per rovesciare una dittatura e pensa allo stesso tempo che la minaccia del ricorso alla forza possa produrre effetti negativi piuttosto che benefici per il paese in cui si interviene, se questo non è contestualmente messo nelle condizioni di portare avanti riforme democratiche.

L’esempio dell’Iraq dimostra, a quasi tre anni dalla decisione di intervenire, che il paese resta dominato dall’instabilità e dal rischio crescente che si radichino conflitti settari all’interno della società. Dallo studio di oltre sessanta casi di transizioni da governi autoritari fin dal 1972, un Rapporto della Freedom House indica come elemento chiave ai fini dello sviluppo di una democrazia sostenibile il ruolo dell’iniziativa da parte della società civile. E su questo dovrebbe fare leva un’agenda progressista che intenda promuovere, attraverso l’appoggio forte e costante ai gruppi locali, gli elementi critici del «costituzionalismo liberale»: una governance efficace, lo Stato di diritto, un potere giudiziario indipendente, mezzi di comunicazione indipendenti, e l’assunzione di responsabilità dei governanti di fronte ai cittadini.

È necessario tuttavia pensare con orizzonti temporali e termini realistici, nell’ambito dei quali il cambiamento democratico possa avere luogo. Con realismo si deve infatti accettare che l’instaurazione e il consolidamento della democrazia si muovono su tempi lunghi, in cui la democrazia deve trovare spazio grazie al sostegno coerente e continuo ai diritti fondamentali dei cittadini da parte delle forze progressiste. Ci si deve però predisporre ad affrontare il rischio – fisiologico e associato a un cambiamento radicale nelle strutture di potere e al tentativo delle élite dominanti di conservare i loro privilegi – che nel corso del processo di democratizzazione si acuiscano conflitti, tensioni e divisioni all’interno della società in rapido cambiamento. Il sostegno alla democrazia può tradursi in iniziative di successo solo attraverso programmi di profilo contenuto, disegnati su misura, concepiti per aiutare tutti gli attori democratici, trasparenti ma al tempo stesso elaborati e portati avanti sullo sfondo della scena principale.

Sono questi valori e questi obiettivi che devono guidare i progressisti e con i quali essi devono per primi dare l’esempio a quanti devono confrontarsi con il complesso esperimento della democratizzazione. Non è ciò che ha fatto l’Amministrazione Bush nella sua missione contro il terrorismo internazionale. I Rapporti del Dipartimento di Stato americano sul rispetto dei diritti umani in altri paesi contrastano evidentemente con le violazioni commesse dagli Stati Uniti di quegli stessi principi che essi si propongono di promuovere all’estero. Oltre a inevitabili considerazioni di ordine etico, l’atteggiamento dell’Amministrazione Bush a questo proposito, ha comportato anche implicazioni pratiche per cui molti paesi, soprattutto in Medio Oriente, criticano l’inosservanza dei diritti umani da parte degli Stati Uniti come argomento per opporsi a un processo di riforma imposto dall’esterno. Il rischio che emerge è che le popolazioni islamiche non sentano propri i valori della democrazia e della liberà di cui gli occidentali si presentano difensori, e che – d’altra parte – diventino terreno fertile per la propaganda dei terroristi. La dichiarazione di Dick Cheney dopo l’11 settembre sulla necessità di «muovere verso il lato oscuro» è stata, nonostante l’opposizione dei Repubblicani in Senato, il preludio alla giustificazione di serie violazioni dei diritti umani – fino a quella brutale della tortura – che hanno contravvenuto ai principi di quella Convenzione di Ginevra della cui attuazione furono proprio gli Stati Uniti ad avere il merito, per deciderne oggi l’abrogazione di fatto, fino a ridicolizzare come «femminea», secondo la definizione di Cheney, l’idea di applicare ai terroristi i regolari strumenti giudiziari.

Si tratta di un atteggiamento ben diverso dal liberalismo internazionale su cui gli Stati Uniti hanno impostato la loro politica estera nella seconda metà del Ventesimo secolo e che si fondava su una coalizione di Democratici e Repubblicani moderati creata da Roosevelt durante la seconda guerra mondiale. Oggi al contrario, non sembrano più esistere Repubblicani liberali ispirati dai valori dell’internazionalismo. E lo stesso Partito Democratico sta attraversando una fase di confusione, in cui non riesce a dare voce alle proprie idee nonostante il Partito Repubblicano sia in un momento di straordinaria debolezza, afflitto da continui scandali al suo interno. La crisi politica che sta minacciando la credibilità dell’Amministrazione Bush, trova origine nel trionfo dell’ideologia che ha portato al fallimento di una strategia di sicurezza tanto declamata. Il vuoto politico che si registra adesso nella politica americana è stato determinato dall’assenza di un missione precisa, dalla confusione rispetto alle ragioni dell’intervento in Iraq e dalle contraddizioni interne all’Amministrazione che hanno portato alla sostituzione di molti dei vertici della prima presidenza Bush.

In queste circostanze l’Amministrazione repubblicana di Bush offre, paradossalmente, un incentivo ai Democratici che non possono lasciarsi sottrarre la paternità dei valori democratici.

 

5. Come uscire dall’Iraq? Per un’agenda progressista

Le forze progressiste americane ed europee devono impostare un dialogo stretto e costante per sostenere le transizioni democratiche, dando vita a uno sforzo coordinato che offra incentivi e incoraggi i progressi verso la democrazia in Medio Oriente, in Asia centrale e negli altri scenari internazionali in cui si richiedano aiuti esterni. Si deve quindi invertire la tendenza adottata dal presidente Bush, che dell’unilateralismo ha fatto la linea conduttrice della propria politica estera, rinunciando alla cooperazione con gli alleati tradizionali degli Stati Uniti e sminuendo l’impegno a costruire un quadro di sicurezza cooperativa costruito nel corso degli anni Settanta e Ottanta dalla collaborazione tra Europa e America nell’ambito dell’OCSE.

È importante però che i progressisti delle due sponde dell’Atlantico riflettano su quanto veramente intendano seguire una linea comune in Medio Oriente. Sembra infatti emergere una sorta di reciproco scetticismo e di mancanza di fiducia tra Stati Uniti ed Europa, suggerita dall’ipotesi che gli europei non stiano facendo abbastanza per prevenire nuovi attacchi terroristici che potrebbero partire dall’Europa e colpire l’America. E questo è un punto che potrebbe seriamente ostacolare quel dialogo strategico che è ora più che mai necessario tra le due parti. Il problema di una diversa percezione della guerra e del terrorismo in Europa e negli Stati Uniti è reale e deve essere affrontato con la cooperazione internazionale associata a quella bilaterale in politica estera, giudiziaria e di polizia per rendere più efficaci possibile le sinergie necessarie a sconfiggere il terrorismo. Ma è necessario definire anche quali obiettivi un’agenda strategica debba perseguire, se essa debba mirare a contenere i terroristi, a prevenirne le azioni, o a elaborare il deterrente migliore. Probabilmente, la via più efficace sarà quella che riuscirà ad isolare i terroristi, non solo dai loro obiettivi, ma prima di tutto dalle loro risorse e dai loro sostenitori.

Tra progressisti americani ed europei resta inoltre controversa la questione di come gestire il ritiro del contingente internazionale dall’Iraq. In vista delle elezioni politiche italiane, parte dei Democratici americani ipotizza uno «scenario spagnolo», ovvero la promessa all’indomani di un eventuale successo elettorale del centrosinista di un ritiro immediato delle forze italiane dall’Iraq, ritenuto per certi versi non auspicabile. Questa ipotesi è alla base di visioni discordanti all’interno dello stesso schieramento di centrosinistra italiano – emerse anche nel corso del seminario – tra quanti sostengono che al ritiro seguirebbe una guerra civile su larga scala e che la permanenza delle truppe abbia invece lo scopo di prevenire la frantumazione del paese, e quanti sostengono che questa tesi sia contraddetta dai fatti e dal radicalizzarsi delle tensioni all’interno della società irachena. I sostenitori di questo secondo argomento ritengono infatti che la presenza in Iraq di truppe straniere non sia affatto un fattore di stabilizzazione, e che anzi la maggioranza degli iracheni le percepisca come un esercito di occupazione la cui presenza ha contribuito ad attrarre in Iraq i terroristi jihadisti e ad estremizzare il conflitto con quella componente della società che considera le truppe come un invasore e non un liberatore. Le forze che hanno avuto il merito di porre fine alla dittatura di Saddam Hussein dovrebbero – ancora secondo coloro che sono a favore del ritiro delle truppe – lasciare il posto a un contingente internazionale di peacekeeping che supervisioni le diverse fasi della ricostruzione garantendo la sicurezza del popolo iracheno, a cui sarebbe così restituita la totale gestione del paese. D’altra parte però, vi è chi obietta che occorrerebbero realisticamente tempi troppo lunghi perché un contingente internazionale possa sostituire quello attualmente presente in Iraq – soprattutto in considerazione del fatto che l’ONU non ha truppe proprie. E che la chiave di volta debba piuttosto essere trovata in una soluzione politica interna affidata agli iracheni e fondata su di un’equa redistribuzione della rappresentanza politica e delle risorse economiche, tenendo in particolare considerazione la componente sunnita della popolazione.

Nonostante interpretazioni divergenti su come dovrà essere impostata la strategia di uscita dall’Iraq, resta comunque indispensabile definire le possibili forme di una legittimazione internazionale dell’uso della forza. Non si può negare che le coalizioni dei volenterosi potranno in futuro ripetersi e sostituirsi talvolta al sistema di sicurezza collettivo. Alcune eventualità non possono essere evitate, e tra queste, quella che suscita maggiore apprensione nella comunità internazionale è che l’Iran si doti di un arsenale nucleare. Di fronte a ciò che sembra verosimilmente inevitabile, una risposta ragionevole, che non comprometta l’equilibrio delle relazioni internazionali, può solo derivare da un esteso e solido sistema di deterrenza fondato sulle istituzioni multilaterali. Il che presuppone in primo luogo che si modifichino i meccanismi di decisione delle Nazioni Unite – da molti ritenute tuttavia non riformabili – facendo parlare l’Europa con una voce sola tramite un unico seggio, e ridimensionando l’uso del potere di veto. Condizione per la quale sarà necessario che Europa e Stati Uniti dimostrino un reale interesse per la riforma delle Nazioni Unite. È d’altra parte opportuno essere realistici, poiché difficilmente si può prevedere che un governo statunitense, sia esso repubblicano o democratico, vincoli la propria discrezionalità politica all’autorizzazione delle Nazioni Unite.

Un’agenda progressista deve muovere dal presupposto che non esiste un’unica piattaforma in cui si possano definire interrelazioni tra fatti, decisioni ed eventi, poiché promuovere la democrazia non significa aspettarsi che ogni paese del mondo condivida un identico schema di valori. Sia gli europei – con l’esperienza della colonizzazione – che gli americani – con la loro missione storica di diffusione dei valori della democrazia e l’eccezionalità della convivenza multiculturale che continuano a sperimentare sul loro territorio – devono fare propria questa realtà. Poiché il terrorismo si è dimostrato compatibile con società democratiche, all’interno delle quali si è mosso, portando in superficie un disagio che quelle stesse società stanno vivendo.

È quindi migliorando la qualità delle nostre democrazie, riconoscendo che riformare l’Islam è un processo lungo e tortuoso ma che deve partire dall’Europa, accogliendo le richieste dei diversi nazionalismi, riconciliando i diversi bisogni che si sviluppano all’interno dello stesso paese con la coesione nazionale, nutrendo con convinzione il senso di identità comune, che si può riuscire a trovare la cura giusta e duratura per la crisi che devono affrontare le nostre società. Ciò non sarà sempre sufficiente, il soft power non sarà sempre in grado di prevenire le crisi, così come la «carota dorata» dell’ingresso nell’Unione europea non sarà l’antidoto contro gli estremismi né potrà da solo eliminare il terrorismo. Tuttavia le democrazie occidentali dovranno utilizzare, in tutte le loro possibili interazioni, ogni strumento di cui dispongono. Solo così potranno debellare il terrorismo.