Il Protocollo di Kyoto: quali effetti sul sistema sociale internazionale?

Di Luca Bussotti Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

Quali novità ha introdotto il Protocollo di Kyoto sul sistema sociale internazionale? Quali equilibri ha alterato o rischia di alterare, se i principi su cui si basa saranno seguiti dai principali paesi industrializzati? E, viceversa, quali sono i rischi nel caso in cui ciò non dovesse avvenire? Questi interrogativi, che stanno animando il dibattito tra «ottimisti» e «catastrofisti» ambientali, sottintendono risposte complesse, le cui fondamenta sono da ricercare in un’analisi di tipo sistemico di carattere sociologico, che incidono o possono incidere sia sul genere di modello di sviluppo che sull’articolazione delle relazioni internazionali da essa derivante.

Quali novità ha introdotto il Protocollo di Kyoto sul sistema sociale internazionale? Quali equilibri ha alterato o rischia di alterare, se i principi su cui si basa saranno seguiti dai principali paesi industrializzati? E, viceversa, quali sono i rischi nel caso in cui ciò non dovesse avvenire?

Questi interrogativi, che stanno animando il dibattito tra «ottimisti» e «catastrofisti» ambientali, sottintendono risposte complesse, le cui fondamenta sono da ricercare in un’analisi di tipo sistemico di carattere sociologico, che incidono o possono incidere sia sul genere di modello di sviluppo che sull’articolazione delle relazioni internazionali da essa derivante.

Il Protocollo di Kyoto, sino ad oggi, è stato esaminato essenzialmente per i suoi effetti climatico-ecologici e, in seconda battuta, per i suoi costi economici rispetto alla crescita dei paesi industrializzati. In realtà, tale accordo può – in linea di principio – mettere a durissima prova l’intero sistema sociale internazionale costruito verso la fine del secolo XVIII e oggi nella fase della cosiddetta «globalizzazione».

Ciò che prevede l’accordo è noto: i 39 paesi industrializzati che, per il momento, vi hanno aderito (e, insieme agli altri, formano un esercito di 141 Stati) si sono impegnati ad abbattere le emissioni dei gas serra entro il 2012 sotto i livelli del 1990, per una media del 5,2%, mediante «azioni domestiche strutturali» o altri meccanismi che coinvolgano anche i paesi in via di sviluppo, come i Clean Development Mechanism. Quale che sia il giudizio politico che si intende dare, si tratta del primo caso in cui l’impatto ambientale ha trovato formalizzazione nel massimo degli attuali consessi internazionali, l’ONU, ponendo limiti precisi e quantitativamente indicati rispetto al paradigma vigente sin qui incontrastato, quello dello sviluppo senza limiti. Non è, naturalmente, la prima volta che si compiono tentativi in tal senso: basti ricordare il Rapporto Nord-Sud elaborato dalla Commissione-Brandt sul finire degli anni Settanta, ma sonoramente bocciato – insieme alle indicazioni sul riequilibrio delle relazioni internazionali tra paesi ricchi e paesi poveri – nella Conferenza di Cancun (1981), in cui – per usare un’espressione del recentemente scomparso ex presidente della Tanzania, Julius Nyerere – «Reagan disse no e fu tutto».

La domanda che dobbiamo porci è la seguente: che cosa può significare, in termini di equilibrio del sistema, il consapevole e quantitativamente determinato decremento delle emissioni in atmosfera da parte dei settori energetico-industriali maggiormente inquinanti?

Per fornire una risposta in qualche modo soddisfacente, in grado di aprire nuovi scenari prospettici, cerchiamo di offrire una schematica rappresentazione grafica del modo di funzionamento dell’attuale sistema, in questo peraltro non troppo differente da quelli che l’hanno preceduto, e di cui si accennerà più avanti.

Grafico 1

Ciò che qui interessa approfondire sono i meccanismi in entrata e in uscita (input/output), con particolare riguardo alle questioni relative all’impatto ambientale. Per il resto, la parte centrale dello schema è talmente nota, che non è opportuno soffermarvisi ulteriormente.

Si intende perciò analizzare come i principi stabiliti dal Protocollo di Kyoto possano portare l’attuale sistema in condizioni di disequilibrio apparente sul piano geo-politico, ma avere, al contrario, una funzione stabilizzatrice in termini globali e di lungo periodo, aprendo una oggettiva contraddizione tra l’una e l’altra prospettiva. Per far questo è necessario partire da un breve esame dell’input che alimenta il sistema, l’approvvigionamento energetico.

Qualsiasi «civiltà» necessita di una certa quantità di energia per poter funzionare. Il controllo delle fonti energetiche, linfa vitale per ogni attività, ha sempre costituito un oggetto privilegiato dell’attenzione delle classi dirigenti, oggi come nel passato. Ciò che, nel corso dei millenni è cambiato, è stato il tipo di approvvigionamento energetico di cui si è potuto disporre: agli inizi dell’epoca storica si trattava, generalmente, di risorse naturali, soprattutto agricole, e tale modalità è proseguita, grosso modo, sino all’avvento della rivoluzione industriale, quando carbone prima, petrolio poi, sono divenuti i «motori» della produzione. Il secondo elemento che accomuna tale, lungo cammino, è da reperirsi nell’organizzazione sociale necessaria per garantire alle classi dirigenti non soltanto il controllo, bensì l’effettivo sfruttamento delle risorse energetiche. Un’organizzazione sociale stratificata, che prevedeva una divisione netta tra chi produceva e chi dirigeva. Il mondo antico adottò lo strumento della manodopera schiavistica per ottenere quello che, secondo V.G. Childe, è da interpretare come il vero motivo a cui si deve la nascita e la conservazione di una civiltà complessa: l’aumento della produzione agricola, poiché ciò dà modo alla classe dirigente di poter distribuire il surplus ottenuto, svincolandolo dal mero autoconsumo per i produttori.

Affinché si raggiunga una qualche forma di equilibrio, quindi, occorre una gestione delle fonti energetiche da parte dell’élite dominante, e una consolidata divisione del lavoro di tipo sociale. Gli esempi sono innumerevoli: tutte le antiche civiltà, dagli egizi ai greci sino ai romani, fecero di tali caratteri il loro modello. Anche nel Medioevo le cose non subirono una profonda trasformazione, nel senso che l’unica variazione fu l’apparizione del servo della gleba – nelle sue varie forme – in luogo dello schiavo: ma, quanto a obiettivi e struttura sociale, il quadro è in decisa continuità rispetto a quello precedentemente ricordato.

L’avvento del capitalismo, sin dai suoi prodromi – dalla scoperta dell’America in poi – modifica lo scenario appena descritto, aprendo i mercati mondiali, dettando una nuova divisione internazionale del lavoro, con una «differenziazione tra il centro dell’economia mondiale europea e le zone periferiche»,1 introducendo la figura del prestatore d’opera, che vende la propria forza-lavoro in cambio di un salario (divisione sociale del lavoro).

La divisione internazionale del lavoro viene sancita dalla Conferenza di Berlino (1885), mediante la spartizione dei territori afro-asiatici tra le potenze europee. Il ruolo di tali regioni è allora chiaro: garantire la produzione agricola e l’estrazione di minerali preziosi e delle risorse energetiche in senso proprio. Il Terzo mondo diventa il «motore» dei primi due. Divisione sociale e divisione internazionale del lavoro trovano, così, il loro punto di incontro. Tale quadro subirà un tentativo di modifica soltanto nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, con la decolonizzazione e le indipendenze nazionali, per poi arrestarsi bruscamente e, per ora, definitivamente, col primo shock petrolifero (1974), letale per i paesi in via di sviluppo non produttori di petrolio.

Se così viene sistemato il primo output, equilibrandolo mediante una stabilità basata sull’emarginazione dei PVS, altrettanto può dirsi del secondo: nel mondo industrializzato, l’affermarsi di un solido Welfare State ha consentito di depotenziare la carica eversiva del conflitto sociale tra capitale e lavoro, contenendola entro limiti del tutto accettabili.

L’analisi del terzo output parte da due domande. La prima: se, nei due precedenti, una qualche forma di antagonismo è stata messa in atto, con esiti giudicabili ciascuno soggettivamente, ma che hanno portato alterazioni alla realtà antecedente, perché ciò non è stato possibile per il terzo, quello relativo all’impatto ambientale? La seconda: alla luce di quest’ultimo quesito, che cosa ha comportato, storicamente, un simile atteggiamento da parte delle classi dirigenti, e qual è la condizione attuale, sotto questo aspetto?

Al primo interrogativo è relativamente semplice rispondere: mentre le relazioni internazionali e, soprattutto, i disordini sociali possono costituire un visibile e percepibile pericolo per l’equilibrio del sistema, soprattutto sul piano locale, ciò non può essere detto per l’impatto ambientale. Quest’ultimo ha caratteri tali da non dover preoccupare le classi dirigenti, poiché tira in ballo conseguenze globali; tali conseguenze si collocano in una dimensione temporale non soltanto non immediata, ma addirittura neanche percepibile; in ragione di questi due aspetti, non c’è un movimento sociale organizzato che ne segnali e pretenda il rispetto. Per tali ragioni nessuna classe dirigente l’ha mai preso in seria considerazione.

Occorre, allora, dare risposta al secondo quesito. Per farlo, è utile, in questo caso, esemplificare.

Antica Roma: qui, è opinione abbastanza comune, tra gli storici, ritenere che l’interruzione della fase espansiva, in termini di conquista territoriale, abbia seguito un percorso parallelo al declino della struttura agricola, provocando la diminuzione della fertilità della terra e la riduzione delle rese agricole, anche a seguito di una grande opera di deflorestazione. A ciò deve associarsi che, dal III al V secolo d.C., l’apparato burocratico e l’esercito continuarono a espandersi, necessitando di sempre maggiori risorse economiche, che si pretendeva dovessero giungere dalla tassazione verso i contadini, i quali, rapidamente, lasciarono le campagne, provocando una diminuzione del terreno arabile di circa 1/3 e, quindi, la paralisi della macchina adibita all’approvvigionamento energetico della grande Roma.

Isola di Pasqua (Pacifico): nel 400 d.C. fu colonizzata da navigatori polinesiani e, al tempo, la sua vegetazione era quella tipica della foresta pluviale. In seguito al completo disboscamento, compiuto per utilizzare il legno in vario modo, tra cui sollevare enormi statue di pietra, il sistema entrò in crisi, riducendo gli abitanti prima alla caccia agli uccelli marini e, una volta estinti questi, al cannibalismo.

Anasazi (America del Nord): qui, a causa dell’eccessivo sfruttamento del suolo e della risorsa idrica, l’intero canyon fu abbandonato, ma il consumo irrazionale di energia per fini evidentemente disfunzionali all’equilibrio del sistema (costruire grandi palazzi per i signori locali) durò fino all’ultimo, quando – nel 1117 – una devastante siccità mise fine a quella civiltà.

I tre esempi appena riportati sottolineano due fatti, di decisiva importanza anche per l’analisi dell’attuale sistema: l’approvvigionamento energetico, di qualunque tipo sia e da qualunque fonte provenga, è il motore indispensabile allo sviluppo di ogni forma di civiltà. Primo, le classi dirigenti hanno sempre dimostrato una grande miopia nel non valutare attentamente le devastanti conseguenze sui loro sistemi dell’impatto ambientale derivante da uno sfruttamento intensivo ed irrazionale – in termini conservativi di lungo periodo – ma utilitaristico, in senso opposto, delle risorse energetiche disponibili.

Gli effetti sono stati, come si è visto, assai simili, anche considerando casi diversi: solo la dimensione e la gravità sono state differenti, com’è ovvio parlando di Roma o dell’Isola di Pasqua. Ma non la logica che li ha sottesi. E questo ragionamento spalanca le porte all’attualità, permettendoci di completare la risposta alla seconda domanda che ci eravamo posti: qual è, da questo punto di vista, la situazione odierna?

Ormai è abbastanza chiaro che essa è molto critica. Ipotizzare – come fa Rifkin2 – che l’apice della produzione petrolifera sarà raggiunto intorno al 2010, oppure – come ritengono altri – una trentina di anni più tardi, la sostanza non cambia. L’attuale sistema è entrato in una fase di difficoltà di approvvigionamento energetico, e le risposte che sta fornendo sono «coazioni a ripetere», che riproducono meccanismi tradizionali, incapaci di uscire dagli antichi e logori schemi. Un simile atteggiamento è dovuto, in larga parte, a un condensato di interessi particolari, che ha trovato efficace sintesi nella politica americana dell’Amministrazione Bush. Lo scopo è sin troppo chiaro: non perdere il controllo delle risorse energetiche – petrolio in particolare – di cui ormai da moltissimi decenni si dispone, mantenendo il potere sull’input che alimenta il meccanismo. Tuttavia, ciò sta creando instabilità di sistema dalle proporzioni sino a oggi sconosciute, per lo meno dal 1945 in poi, come dimostra la crescente conflittualità internazionale e, sul piano interno americano, il senso di insicurezza post–11 settembre, nonché la minacciosa dipendenza dal petrolio d’importazione, concentrato nel Golfo Persico, in cui si trovano 26 dei 40 megagiacimenti mondiali di greggio.

Se questa è la situazione attuale, non stupisce che si continui a rincorrere gli ultimi spasmi di una risorsa in via di estinzione quale, appunto, il petrolio. Ancora una volta, le classi dirigenti perseguono una logica che cerca di dare risposte a problemi immediati, prive di respiro temporale: in particolare, mantenere alto il livello di vita e di consumo delle classi medie nei paesi industrializzati e, soprattutto da parte degli Stati Uniti, rafforzare una rete di alleanze politiche, sul piano internazionale, in grado di creare un minimo di consenso anche al di fuori dei confini americani (la teoria della «democratizzazione su scala globale»). Né più né meno che il soddisfacimento dei primi due output descritti nel grafico, in versione contemporanea. Il terzo non può che restare al di fuori di una simile logica. Così, l’impatto ambientale costiuisce un «intruso» nel modello di frenetica crescita senza limiti che sta ormai mostrando le corde: un intruso da tenere il più lontano possibile e, anzi, da scongiurare, in quanto «oneroso».

La presa in considerazione di questo, da parte di 141 Stati, come problema fondamentale per il mantenimento dell’equilibrio del sistema apre il ragionamento sul Protocollo di Kyoto e sulle sue conseguenze sistemiche, sinteticamente rappresentate nel Grafico 2.

Grafico 2

Una parte consistente della classe dirigente mondiale ha, questa volta, compreso la minaccia: sia grazie ai dati sempre più allarmanti sugli effetti delle emissioni in atmosfera dei gas serra, sia a causa di un movimento internazionale sensibile a tali temi, dalle Nazioni Unite è venuta l’assunzione dell’impatto ambientale come il primo dei fattori potenziali di crisi sistemica su scala planetaria. Per questo tale tema, con l’accordo ormai in vigore, da essere l’ultimo degli output è divenuto il primo regolatore del sistema, prefigurando mutamenti e riassestamenti di notevole entità. E ciò si capisce molto dando un’occhiata a chi non ha ancora sottoscritto il Protocollo: gli Stati Uniti (e i loro alleati politici più fedeli, quale l’Australia), la cui economia non può o non intende pagare i costi di Kyoto; la Cina e l’India, il cui imperativo categorico è «crescere», a qualunque costo, disponendo fra l’altro (Cina in particolare) delle maggiori riserve mondiali di carbone, pronto per essere utilizzato per il definitivo «big spurt» del paese, con conseguenze ambientali terribili (il carbone, come noto, immette in atmosfera più carbonio sia del petrolio che del gas naturale: per l’esattezza, 1 Kg per ogni kWh di energia prodotto, mentre il metano ne immette 0,4). Così, il fronte di coloro che, sull’altare della competizione su scala mondiale, tendono a difendere interessi di parte senza preoccuparsi degli scenari globali è consistente e ben attrezzato.

In tal senso, il Protocollo di Kyoto e, in chiave europea, le relative applicazioni, sancite da tre principali direttive approvate dal Parlamento di Bruxelles,3 che, mediante il meccanismo dell’Emission Trading, chiamano in causa anche i Paesi «terzi», costituisce l’elemento più innovativo anche da un punto di vista di analisi sociologico-sistemica. Non è importante, in quest’ottica, misurarne il grado di radicalità o di moderazione. Il punto è che è stato sancito un limite globale allo sfruttamento energetico irrazionale, poiché una parte significativa anche se non ancora maggioritaria del sistema ha compreso che, continuando sull’antica strada, si andrebbe incontro a una crisi irreversibile del peraltro ormai fragile equilibrio raggiunto. Certo, i paesi soprattutto europei avranno anche un loro percepito un tornaconto di tipo particolaristico, nel senso che le limitazioni previste da Kyoto influenzano di più l’economia americana che non quella del Vecchio Continente. Tuttavia sarebbe riduttivo limitarsi a un’ottica di tale genere, che ricorda molto il dualismo «americanismo»-«anti-americanismo». In realtà, il ragionamento è più profondo, e le divisioni ancora più marcate rispetto a possibili dissensi occasionali sul piano politico. È difficile dire quanto consapevolmente o quanto per trascinamento, ma la scelta di Kyoto ha oggettivamente creato una dicotomia sistemico-strategica tra chi vi ha aderito e chi no. Da un lato, si è alzato lo sguardo, pensando che il bene supremo fosse la sopravvivenza del sistema, dall’altro non lo si è fatto, ritenendo più importante la difesa del proprio particolare. Che cosa questo implichi, sul piano della pratica politica soprattutto nei rapporti tra Stati Uniti e Unione europea, non è facile da prevedere. Certo, i due blocchi – che hanno solidissimi interessi comuni – cercheranno di procedere a braccetto, tuttavia una prima avvisaglia del potenziale dirompente dei principi di Kyoto si è già avuta in occasione della guerra in Iraq, che ha visto la maggior parte dei paesi europei schierarsi contro l’intervento americano, unilateralmente deciso da Washington.

Ma Kyoto apre scenari nuovi non soltanto in senso per così dire assoluto, bensì anche prendendo in considerazione l’influenza sui due output «tradizionali»: benessere sociale e, soprattutto, relazioni internazionali. In che modo ciò può verificarsi? Il Protocollo non impone soltanto limiti, ma suggerisce strade, la principale delle quali è l’impiego, su vasta scala, di risorse energetiche rinnovabili, senza pensare a improbabili ritorni, quali carbone o lo stesso nucleare. Il meccanismo di scambio di crediti energetici tra Stati potrebbe riproporre, sotto un’ottica nuova, la revisione di relazioni internazionali, rimaste pressoché immutate, coi paesi afro-asiatici, dal primo shock petrolifero ad oggi. In pratica, i paesi avanzati sarebbero costretti ad acquistare da quelli in via di sviluppo – qualora decidano di investire nelle fonti rinnovabili – crediti energetici, che dovrebbero favorirne il recupero non in forma meramente assistenzialistica, ma secondo una logica opposta e sostenibile. Le strade, che l’UE ha già formalmente individuato, sono di due tipi: mediante la «Direttiva-Linking» (2004/101), gli operatori di impianti comunitari soggetti a scambi di quote possono acquistare, utilizzando il Clean Development Mechanism, quote di riduzione di emissioni ottenute dall’ottimizzazione di impianti industriali esistenti o dall’uso delle energie rinnovabili nei paesi in via di sviluppo. L’altro sistema, la Joint implementation, è limitato ai paesi comunitari. Appare abbastanza evidente che, anche se lo spirito con cui le direttive sono pensate fa trapelare la volontà del legislatore europeo di tutelare le proprie produzioni industriali, appoggiandosi, per la lunga fase di transizione, sui paesi in via di sviluppo, per questi sembra schiudersi la via della graduale uscita dalla dipendenza da petrolio che ne strangola le economie. Questo consentirebbe loro di puntare su una tendenziale autonomia energetica da fonti rinnovabili, riassestando i disastrati bilanci con gli introiti derivanti dalla vendita di diritti di emissione ai paesi più ricchi. Lo stesso ministero dell’ambiente italiano ha confermato che, finché questo meccanismo che coinvolgerà i paesi terzi non sarà pronto, l’Europa avrà difficoltà nel rispettare il cammino previsto da Kyoto.

Affinché tale sistema di convenienze reciproche si metta in moto, risulterà determinante la questione del trasferimento tecnologico verso questi Stati, oggi non in grado di sviluppare una loro industria sulle rinnovabili. E la stessa competitività internazionale potrà spostarsi su altri terreni, primo fra tutti quello verso la corsa all’idrogeno o verso lo sfruttamento dell’ultimo filo di vento o dell’ultimo raggio di sole.

Uno scenario assai diverso, e sicuramente più stabile (che senso avrebbero le guerre per il controllo del petrolio o dei gasdotti?), anche se, per lo meno inizialmente, disequilibratore dei rapporti di forza oggi esistenti. Gli Stati Uniti infatti, oltre ai calcolabili costi per i limiti alle emissioni previsti da Kyoto, avrebbero un ulteriore danno: la perdita del controllo sull’alimentazione del sistema, ossia sull’approvvigionamento energetico. Ciò significherebbe non disporre più del potere di gestire tale surplus da immettere nel sistema (in primo luogo in quello nazionale), perdendo la centralità conquistata. È dunque presumibile che verrà compiuto ogni tentativo per scongiurare una simile ipotesi, sfruttando intensivamente – e, sul piano globale, irrazionalmente – tutte le potenzialità dei combustibili fossili ancora disponibili, costi quel che costi. Oltre agli Stati Uniti, chi pagherebbe il prezzo più alto sarebbero sicuramente i grandi produttori di petrolio, paesi arabi, che si vedrebbero improvvisamente posti ai margini di un sistema di cui, oggi, costituiscono uno dei centri propulsori, nonché le potenze emergenti (Cina in testa, ma anche Russia e India), che pretendono il diritto a inquinare, così come l’hanno avuto, indisturbati, gli Stati occidentali per circa duecento anni.

A beneficiarne sarebbero – oltre ai citati paesi in via di sviluppo – le nazioni europee, in particolare quelle che non hanno il petrolio e che hanno fatto la scelta di abolire il nucleare. La Germania costituisce l’esempio migliore, in questo senso: qui, un congiunto di azioni ha consentito, da un lato, di abbattere le emissioni in atmosfera, dal 1990 a oggi, del 19%, e soprattutto, di coprire il 10% del proprio fabbisogno energetico attraverso le rinnovabili, con l’obiettivo, entro il 2010, di raddoppiarlo. Anche in termini occupazionali il nuovo sistema «gira»: ormai sono circa 150.000 gli addetti a tale settore (insieme a quello del risparmio energetico), e soltanto 3000 quelli che lavorano sul nucleare in via di dismissione, e 50.000 sul carbone, anch’esso in via di smantellamento.

Se la Germania costituisce l’esempio più maturo di come un sistema che basi il suo approvvigionamento energetico su una serie di azioni razionali stia in equilibrio e, anzi, abbia notevoli margini di sviluppo, anche in termini occupazionali, non è tuttavia l’unico. La Danimarca, ad esempio, che nei primi otto anni del decennio Novanta aveva aumentato del 30% le emissioni in atmosfera, nei successivi sei è riuscita a tornare ai livelli del 1990, grazie a investimenti cospicui sulle rinnovabili, in particolare nell’eolico e nel solare termico, con un abbattimento delle emissioni del 30%. Altri esempi sono l’Austria, con 1,6 milioni di metri quadrati di solare termico installato, e la Grecia, con 2,7 milioni.

E l’Italia? Il paese, come noto, è tra quelli in storica difficoltà da approvvigionamento energetico, e tuttavia non ha ancora intrapreso con decisione la strada delle rinnovabili, utile anche per far fronte al costante incremento dei consumi energetici nazionali: in poco più di dieci anni (dal 1990 al 2001) si è passati, infatti, da un consumo medio pro-capite di circa 1,90 tep/abitante a 2,20. Ma l’elemento più interessante è capire come si riesca a soddisfare tale fabbisogno. Nel 2004 su un utilizzo interno totale di 195,460 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, 191,014 sono stati importati e, fra questi, l’incidenza del petrolio è altissima: 107,600 tonnellate.4 Il dato, oltre che eloquente, è ancor più preoccupante se paragonato col recente passato. Ad esempio, nel 1998 il consumo interno lordo era di 179,427, l’importato ammontava a 169,255, di cui 112,866 da petrolio. Cifre, come si vede, in costante e progressivo incremento nel corso degli anni. D’altra parte, sulle rinnovabili si registra una tendenza sì di lieve aumento in termini di produzione energetica, ma che non tiene il ritmo né delle crescenti necessità del paese, né del preponderante peso del petrolio. Nel 1998 si producevano 11,259 tonnellate da rinnovabili, importandone 0,391, nel 2004 13,520, con un raddoppio quasi netto (0,600) delle relative importazioni. I metri quadrati installati da solare termico sono appena 335.000, meno di un decimo di quanto è stato fatto in Germania. In termini di emissioni, il risultato è stato un incremento, dal 1990, del 16%, cosicché il rispetto dei limiti di Kyoto sarà, per il nostro paese, ben più oneroso che per quelli europei sopra ricordati (secondo il ministro Siniscalco, costerà circa 3 miliardi di euro da oggi al 2012). Inoltre, il prezzo dell’energia ha continuato a salire, ponendo molte delle industrie nazionali in difficoltà, qualcuna addirittura fuori mercato, senza ricordare i recenti black-out, che hanno messo in ginocchio diverse imprese, o l’innalzamento del prezzo dei prodotti petroliferi, che, nel febbraio 2005, hanno segnato un +17,4% rispetto allo stesso periodo del 2004, finendo per rappresentare il principale contributo all’inflazione del paese. Investire sulle rinnovabili darebbe inoltre la possibilità di sviluppare un’industria solida e competitiva a livello mondiale, vista la quasi assoluta sparizione di produzioni locali di un certo peso.5 La domanda che sorge spontanea è: perché continuare nella dipendenza da petrolio e in un modello di sviluppo che sta strangolando l’intero paese?

Senza tirare in ballo argomenti etici, che dovrebbero tuttavia rappresentare la base dell’agire politico, pare proprio che il Protocollo di Kyoto e i principi che ne stanno alla base siano l’unico scenario in grado di offrire una prospettiva di sopravvivenza sostenibile all’attuale sistema. In questo senso, esso ha una carica notevolmente stabilizzatrice e razionalizzatrice. Da un altro punto di vista, quello geo-politico, è vero l’esatto opposto, poiché il sistema pensato dal Protocollo di Kyoto rischia di sconvolgere consolidati assetti di potere su scala mondiale, i cui esponenti non accetteranno le nuove condizioni determinatesi. Il percorso non sarà, quindi, né piano né indolore, ma la logica di Kyoto sembra possedere una grande forza: la mancanza di una concreta alternativa ragionevolmente perseguibile.

 

 

Bibliografia

1 I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il Mulino, Bologna 1978, p. 99.

2 J. Rifkin, The Hydrogen Economy, Penguin Putnam Inc., 2002 [Trad. it.: Economia all’idrogeno, Mondadori, Milano, 2002].

3 Cfr. direttive 2001/77; 2003/87; 2004/101.

4 Dati del ministero attività produttive.

5 Cfr. L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.