Mezzogiorno: uno sguardo dall'alto

Di Nicola Rossi Martedì 01 Marzo 2005 02:00 Stampa

Caltanissetta, 16 novembre 2004: «Le grandi cifre riguardanti i livelli di reddito e di occupazione continuano a porre in evidenza un distacco inaccettabile fra il Mezzogiorno e il resto del paese. Intollerabile è lo spreco di risorse umane e naturali, e di potenzialità». Le parole del presidente Ciampi costituiscono l’ineludibile punto di partenza per una riflessione sul Mezzogiorno d’Italia. Una riflessione che non può non partire da una semplice constatazione: se progressi vi sono stati nel Mezzogiorno in questi ultimi anni, essi sono stati troppo esigui per poter sperare di veder superata la «questione meridionale» nella prima metà del secolo appena apertosi.

Caltanissetta, 16 novembre 2004: «Le grandi cifre riguardanti i livelli di reddito e di occupazione continuano a porre in evidenza un distacco inaccettabile fra il Mezzogiorno e il resto del paese. Intollerabile è lo spreco di risorse umane e naturali, e di potenzialità». Le parole del presidente Ciampi costituiscono l’ineludibile punto di partenza per una riflessione sul Mezzogiorno d’Italia.

Una riflessione che non può non partire da una semplice constatazione: se progressi vi sono stati nel Mezzogiorno in questi ultimi anni, essi sono stati troppo esigui per poter sperare di veder superata la «questione meridionale» nella prima metà del secolo appena apertosi.

A questo esito hanno contribuito, e non poco, le scelte del centrodestra nel corso dell’ultimo triennio. Da questa maggioranza è ormai chiaro che il Mezzogiorno null’altro può aspettarsi se non la riedizione di vecchie pratiche, più che di vecchie politiche: relazioni clientelari, costruzione del consenso, dispute di potere, estenuanti compromessi. Nei primi mesi del governo Berlusconi, qualche nomina frutto più della impreparazione del governo che di una sua scelta strategica, qualche dichiarazione rapidamente contraddetta dai fatti, qualche riga del Patto per l’Italia (che, come un titolo di cavaliere, non si è negata a nessuno) avevano lasciato pensare alcuni e illuso altri che la destra italiana potesse essere interessata a un progetto di modernizzazione degli apparati amministrativi e di responsabilizzazione dei governi regionali e locali. Così, ovviamente, non era.

Questo è dunque il momento per porsi e per porre domande. Per darsi e per dare al Mezzogiorno le risposte che aspetta e che ancora non ha ricevuto.

Uno dei più importanti temi su cui riflettere è quello relativo al Mezzogiorno e alla competitività del paese. Gli anni più recenti sono stati, soprattutto per iniziativa dei governi della passata legislatura, gli anni del definitivo superamento dell’intervento straordinario, da un lato, e dei Mezzogiorni, dall’altro. Sarebbe errato sottovalutare la portata di questo rovesciamento di prospettiva: il respiro culturale e politico di un esperimento ispirato a un principio di piena responsabilizzazione dei governi regionali e locali, da un lato, e dall’altro mirato alla valorizzazione degli aspetti non economici e dei fattori istituzionali – tanto socioculturali quanto politici – che caratterizzano il Mezzogiorno e inevitabilmente portano a dar conto delle tante differenze presenti all’interno di un’area fin ad allora considerata omogenea. Ma sarebbe altrettanto errato non riconoscere le difficoltà incontrate da quell’esperimento. La frantumazione dell’intervento pubblico che ne è seguita. La moltiplicazione dei livelli di intermediazione. La sproporzione fra l’impegno massiccio di energie e di risorse e l’esiguità dei risultati. Ma soprattutto, quel che abbiamo oggi di fronte è la distanza fra un esperimento visibilmente mirato a un cambio di metodo di lungo periodo, più che a una contingente innovazione dei contenuti, e l’urgenza – e, se la parola non fosse sospetta in questa sede, si direbbe la straordinarietà – con cui si pongono oggi i temi della competitività del paese e della sua collocazione in campo internazionale.

Quelli che viviamo non sono tempi normali. Sotto molti punti di vista. L’Italia viaggia su un crinale che si fa ogni giorno più esile e incerto. Con il passare del tempo si riducono i margini di manovra del sistema produttivo e si fa più netta e marcata – in termini dinamici, e cioè nelle rispettive velocità di movimento – la distanza rispetto ai nostri principali partner e competitori. La nostra collocazione internazionale appare a rischio non solo in termini strettamente economici ma, molto più in generale, come capacità di incidere politicamente e culturalmente, assai prima che economicamente.

E, allo stesso tempo, c’è certamente qualcosa di non «ordinario» nelle possibilità che questo momento offre all’Italia e al Mezzogiorno. Nella possibilità – sotto il profilo dei flussi commerciali, ma non solo – di una nuova centralità del Mediterraneo. E se sarebbe fuorviante immaginare che un momento straordinario richieda necessariamente procedure straordinarie, risorse straordinarie e un impegno straordinario, non è poi così irragionevole pensare che una diversa collocazione del paese nei flussi di commercio internazionale richiederebbe (dopo aver imparato tutto sull’agro nocerino-sarnese o sulla pre-murgia, sull’entroterra silano o sul sangro-aventino) di sollevare lo sguardo e tornare a guardare il Mezzogiorno – l’intero Mezzogiorno – per quello che è: un’area relativamente omogenea collocata al centro del Mediterraneo e caratterizzata da problemi massimamente e inevitabilmente interregionali. In questa ottica diventano immediatamente evidenti i limiti di un esercizio programmatorio dal basso come quello adottato negli ultimi anni e diventa invece lampante la necessità di un coordinamento stretto ed ex ante delle scelte locali che parta dalle scelte sovraregionali e a queste subordini le priorità locali. Ammodernata ed estesa, infatti, la rete stradale o ferroviaria meridionale, individuati in relazione ad essa i nodi portuali e interportuali, non si potrà prescindere dalle opere di interesse locale in grado di rendere efficace ed efficiente quella rete e quei nodi.

Tutto ciò, naturalmente, non implica abbandonare del tutto l’enfasi sullo sviluppo locale che ha caratterizzato gli ultimi anni. Implica però la necessità di declinare diversamente un principio la cui attuazione ha riservato qualche luce, ma certo anche non poche ombre.

Ed ecco allora la domanda: è possibile, per il tramite di una politica per le città, non disperdere il patrimonio del paternariato, concentrandone però le conseguenze e gli effetti lì dove forse è più urgente il bisogno? Dove più acuti si rivelano i limiti della presenza pubblica nel Mezzogiorno in termini di sicurezza, di quantità e qualità nell’erogazione dei servizi pubblici, di pianificazione di scelte complesse relative non solo al territorio urbano ma all’intera area vasta che lo circonda? È possibile immaginare di fare delle città meridionali una leva per sollevare l’intero Mezzogiorno? È credibile che esse diventino, al tempo stesso, il luogo della competitività e della coesione? È pensabile rispondere anche così alla miope tentazione, invalsa nell’ultimo triennio, di scaricare sui bilanci degli enti locali le difficoltà dei conti pubblici?

Quale che sia l’ottica, sia che si guardi al Mezzogiorno «dall’alto» per inquadrarlo nel mondo nuovo che si va formando, o che lo si guardi «dal basso» per intravedere nei suoi nodi e nelle sue giunture i suoi limiti più radicati, non si potrà comunque evitare di notare come esso sia oggi attraversato, assai più che negli anni Settanta e Ottanta, da flussi consistenti di giovani ventenni e trentenni, spesso dotati di un non indifferente capitale umano, diretti verso il Centro e il Nord del paese. Sono loro, accanto ai loro coetanei che rimangono – e rimangono «sommersi» – i primi sintomi di malfunzionamento di un mercato del lavoro che ben pochi vantaggi ha tratto dalle scelte di politica regionale degli ultimi anni.

Oggi come dieci anni fa (e anche più di dieci anni fa), il tasso di disoccupazione meridionale si colloca saldamente fra i 7 e gli 8 punti percentuali al di sopra della media nazionale. Oggi come dieci anni fa il tasso di disoccupazione è più del doppio della media nazionale. Di più: oggi, su 100 persone in cerca di occupazione, oltre 60 sono meridionali. Dieci anni fa questa proporzione era significativamente inferiore: poco più del 50%. E sono circa 320.000 i giovani meridionali in cerca di occupazione, mentre sono più di 800.000 i disoccupati meridionali «di lunga durata»: si tratta, rispettivamente, del 60 e del 70% circa del totale nazionale a fronte, più o meno, del 50 e del 60% osservato nel 1996 per i due fenomeni. E ancora: nel 1996 il tasso di occupazione femminile (per la fascia di età 15-64 anni) era pari al 26,5% e toccava il 30,9% nel 2003, con un incremento di 4,4 punti percentuali, significativamente inferiore all’incremento realizzato nella media nazionale. E infine: nel 2002 erano oltre un milione e cinquecentomila gli occupati sommersi, con un incremento superiore al 15% rispetto al 1995, oltre un terzo più dell’incremento osservato nel paese nel suo complesso.

Il che non significa, come si è detto, che il mercato del lavoro meridionale sia rimasto fermo. Tutt’altro. Si è mosso, infatti, ma per lasciare il Mezzogiorno. Le migrazioni interne dal Mezzogiorno e verso l’Italia centro-settentrionale, dopo essersi pressoché annullate intorno alla metà degli anni Ottanta, si sono attestate intorno a poche decine di migliaia di unità, per poi riprendere a crescere significativamente a partire dalla metà degli anni Novanta e superare le 70.000 unità. Un livello molto prossimo a quelli registrati sul finire degli anni Cinquanta e che non era stato osservato fin dalla metà degli anni Settanta. Quelli in corso sono, peraltro, fenomeni migratori di natura diversa rispetto a quelli intervenuti nel dopoguerra. Emigrano, in particolare, i più giovani, fra i 20 e i 35 anni, ma soprattutto emigrano in misura crescente i meridionali caratterizzati dai livelli più elevati di istruzione: con il diploma di scuola media superiore e la laurea. Emigrano, infine, ma solo per una quota largamente minoritaria (meno del 10% dei flussi netti) gli immigrati stranieri inizialmente stabilitisi nel Mezzogiorno.

Di conseguenza, pur essendo il Mezzogiorno l’area del paese a più sostenuta dinamica demografica – una terra giovane, quindi, o almeno più giovane della media nazionale – la sua popolazione tende a crescere addirittura meno di quella di altre aree, certamente più mature, del paese. Confrontando, con tutte le cautele del caso, i censimenti della popolazione fra il 1991 e il 2001 è immediato concludere che in assenza di flussi migratori la popolazione meridionale sarebbe oggi di circa 550.000 unità superiore a quanto effettivamente osservato.

Ed ecco, allora – ineludibile – un’altra domanda. La ripresa delle migrazioni interne costituisce, evidentemente, una modalità di aggiustamento – forse l’unica, accanto al sommerso – di un mercato del lavoro incapace di accomodare in altra maniera le differenze di produttività ancora presenti a livello territoriale. Se così è – ed è francamente difficile negarlo – alle parti sociali si prospetta una alternativa dai contorni netti: accettare le migrazioni interne come strumento di regolazione del mercato del lavoro meridionale (e quindi disegnare esplicitamente un welfare capace di governare e accompagnare i fenomeni migratori interni) o riconoscere le segmentazioni del nostro mercato del lavoro e adattare ad esse i sistemi contributivi e gli schemi contrattuali. È una alternativa non semplice, comunque preferibile alla attitudine paradossalmente liberista con cui lasciamo oggi che il mercato del lavoro meridionale trovi il suo equilibrio.

Se è vero che le scelte per il Mezzogiorno definiscono come poche altre l’identità delle forze politiche e la loro idea del paese, dando risposta a queste questioni il centrosinistra avrà compiuto passi non piccoli per costruire un proprio credibile profilo di governo e per disegnare il Mezzogiorno che verrà.