Costruire ponti tra la Chiesa e il centrosinistra: eliminare i pregiudizi, affrontare i problemi

Di Stefano Ceccanti Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

In vari paesi dell’Europa, soprattutto del Sud Europa, c’è chi ha interesse a creare un fossato tra la Chiesa cattolica e le posizioni politiche di centrosinistra, quasi che ci debba essere uno «scontro di civiltà» tra un socialismo laicista (che sarebbe il nuovo nemico storico della Chiesa dopo la fine del comunismo) e una Chiesa paurosa della democrazia politica, sostanzialmente regredita a posizioni pre-conciliari. Sono entrambe immagini caricaturali, ma se non si affrontano direttamente, anche e soprattutto nella loro limitata parte di verità, rischiano di diventare vere nella coscienza di molte persone, soprattutto perché quelle due immagini deformate si rafforzano a vicenda: se il centrosinistra europeo fosse davvero laicista nei termini in cui è descritto dai settori della destra politico-ecclesiastica, la Chiesa dovrebbe davvero compattarsi contro di esso in modo analogo a quanto fece col comunismo, forse anche con sanzioni canoniche.

I teorici della cristianità cesaro-papista hanno creduto che la fede comandasse loro
di organizzare il mondo in Dio. Il problema è di sapere se non è almeno altrettanto
importante e più conforme all’insegnamento evangelico il disorganizzare il
mondo in Dio, cioè il renderlo trasparente a Dio quando le inevitabili pesantezze
del suo ordinamento vengono continuamente a fare schermo a Dio».

E. Mounier, Fede cristiana e civiltà, in Id., Cristianità nella storia, Ecumenica, Bari 1979, p. 237.

 

La profezia falsa non si deve autoadempiere: il ponte tra i continenti della Chiesa e del centrosinistra

In vari paesi dell’Europa, soprattutto del Sud Europa, c’è chi ha interesse a creare un fossato tra la Chiesa cattolica e le posizioni politiche di centrosinistra, quasi che ci debba essere uno «scontro di civiltà» tra un socialismo laicista (che sarebbe il nuovo nemico storico della Chiesa dopo la fine del comunismo) e una Chiesa paurosa della democrazia politica, sostanzialmente regredita a posizioni pre-conciliari.

Sono entrambe immagini caricaturali, ma se non si affrontano direttamente, anche e soprattutto nella loro limitata parte di verità, rischiano di diventare vere nella coscienza di molte persone, soprattutto perché quelle due immagini deformate si rafforzano a vicenda: se il centrosinistra europeo fosse davvero laicista nei termini in cui è descritto dai settori della destra politico-ecclesiastica, la Chiesa dovrebbe davvero compattarsi contro di esso in modo analogo a quanto fece col comunismo, forse anche con sanzioni canoniche. Se la Chiesa fosse davvero quella descritta dai settori radical-laicisti varrebbe la pena per partiti politici ansiosi di evitare la diffusione di logiche settarie, negatrici dei diritti fondamentali, di separare nettamente le vicende dello Stato da un cattolicesimo anti-moderno: perché finanziare scuole private, prevedere insegnamenti di religione nelle scuole statali se quella religione minasse davvero l’unità della comunità?

Una profezia falsa, se creduta da molti, finisce per diventare vera giacché si tende a comportarsi come se lo fosse, interiorizzandola preventivamente.

Il ruolo dei credenti che militano nelle forze di centrosinistra appare allora oggi quello di evitare che la profezia falsa si autoadempia, esercitando un fondamentale ruolo di ponte tra due continenti che non si debbono allontanare, ma che, pur restando reciprocamente indipendenti, debbono comunicare nella comprensione esatta di vicinanze e lontananze.

 

La percezione che la Chiesa ha del centrosinistra politico: quando i simboli possono ingannare e i molti temi di vicinanza sono ignorati

Partiamo dalla percezione che la Chiesa ha del centrosinistra politico.

Il centrodestra sembra avere un vantaggio di posizione: vari dei suoi partiti esibiscono ancora un’etichetta «cattolica» o «popolare», che tende ad accreditare in linea di partenza una posizione di benevolenza verso la religione. Noi sappiamo anzitutto che i simboli, pur importanti nella religione cristiana più che in altre (e per questo talora, come oggi in Italia, emergono anche scontri giuridici sui crocifissi nei locali pubblici, da risolvere con equilibrio), sono comunque molto relativi: non sarà premiato chi farisaicamente dice «Signore, Signore», ma chi fa la volontà del Padre, non chi offre sacrifici ma chi offre se stesso in spirito di servizio, sul modello del Signore sulla Croce. Sappiamo anche qualcosa di più preciso: che dietro tali etichette si cela oggi ben poco di realmente corrispondente non solo a contenuti evangelici, ma anche alla parte migliore delle esperienze riformiste democratico-cristiane; esse, a cominciare dall’MRP francese e dalla DC italiana, pur tra varie contraddizioni, hanno educato non pochi credenti a un senso marcato della laicità e della dignità delle responsabilità specifiche del laicato cattolico in politica e a superare visioni grettamente conservatrici. La Spagna democratica post-franchista non le ha sostanzialmente conosciute in quella dimensione e questo forse spiega alcune asprezze del dibattito, superiori a quelle italiane. Il centrosinistra ha invece etichette, sigle, simboli, che almeno in origine erano avvertite come ostili o indifferenti al fatto religioso: il socialismo, un inno di «fede laica» come l’Internazionale (sia pure in grado di rivelare, a un esame più attento, contenuti cristiani impliciti), e così via. In Italia, tra tante arretratezze, nel discredito dei simboli tradizionali, abbiamo avuto almeno il vantaggio di usare l’Ulivo, un grande simbolo cristiano, e di ricorrere alla leadership di Romano Prodi, in grado già da sola di rappresentare una consistenza pubblica, politica, al fatto religioso. Ma nel dibattito italiano i riferimenti stranieri sono spesso utilizzati per negare che quella consistenza possa avere futuro a sinistra: quasi che vasta parte del socialismo europeo non avesse radici religiose anche cattoliche, a cominciare dal Labour Party, e come se il laicismo non abitasse anche a destra, o in modo dichiarato, come nel centrodestra francese, o in modo surrettizio, come in Spagna è ben noto coi governi Aznar, con politiche antiimmigrati, col sostegno alla guerra preventiva, con la negazione del principio di sussidiarietà con forme di odioso centralismo.

Per questo l’esperienza dei cristiani nel socialismo basco è un segno di un pezzo di realtà che si dimostra viva e vitale. Ci aiuta a comunicare, in Italia e in Spagna, ciò che non sarebbe altrimenti facilmente evidente.

A quell’immagine di «figli di un Dio minore» dei cristiani nel centrosinistra che molti hanno interesse a propagandare penso che non si debba rispondere con una propaganda capovolta, ma eliminando i pregiudizi e affrontando i problemi. Sappiamo bene che rispetto alla prospettiva del Regno di Dio la militanza nel centrosinistra politico è largamente deficitaria e ricca di contraddizioni, non solo per i limiti individuali, ma anche per quelli collettivi delle realtà in cui siamo inseriti. Ma chi può dirsi immune da tali limiti nella storia umana e nelle vicende politiche? Ci sarebbe poi una prima risposta rassicurante, anche se parziale, che può e deve essere data: non si possono cancellare i temi, tutt’altro che secondari, su cui la dottrina ufficiale della Chiesa è obiettivamente più vicina al centrosinistra politico, in Italia come in Spagna.

Prendiamo come parametro il recente «Compendio della dottrina sociale della Chiesa» e, pur sapendo che estrapolare alcuni contenuti rischia di essere gravemente riduttivo, si può vedere che:

a) in materia di pace si continua a parlare di «legittima difesa» e non di «guerra giusta», anche grazie al contributo che alla «Gaudium et spes» diede come uditore il catalano Ramon Sugranyes de Franch, che fuggì dalla Spagna per non combattere con Franco quella che a molti, anche vescovi, era sembrata una guerra giusta, se non addirittura santa. Ma soprattutto si precisa che: «un’azione bellica preventiva, lanciata senza prove evidenti che un’aggressione stia per essere sferrata, non può non sollevare gravi interrogativi sotto il profilo morale e giuridico (...) pertanto solo una decisione dei competenti organismi, sulla base di rigorosi accertamenti e di fondate motivazioni, può dare legittimazione internazionale all’uso della forza armata» (paragrafo 501). I partecipanti al vertice delle Azzorre e i loro supporters esterni sono chiaramente condannati, senza le diplomazie eccessive di alcuni episcopati, quello spagnolo per primo, anche se ciò non ci esime dal sentirci tutti responsabili per la stabilizzazione dell’Iraq nel dopoguerra, con forme di unilateralismo pacifista anch’esse semplificatrici. Per di più il Compendio è invece molto più possibilista nel legittimare l’ingerenza umanitaria anche coattiva della Comunità internazionale «in favore di quei gruppi la cui stessa sopravvivenza è minacciata o di cui siano massicciamente violati i fondamentali diritti» (paragrafo 506), il che corrisponde molto di più alla sensibilità dei governi di centrosinistra che non al «realismo politico» del centrodestra, basato solo su interessi strategici, a cominciare dal diverso approccio in merito delle Amministrazioni Clinton e Bush;

b) in ambito informativo «il fenomeno delle concentrazioni editoriali e televisive» porta a «pericolosi effetti per l’intero sistema democratico quando a tale fenomeno corrispondono legami sempre più stretti tra l’attività governativa, i poteri finanziari e l’informazione» (paragrafo 414). Questo per l’Italia ha evidenti conseguenze di valutazione immediata sulla credibilità dell’attuale esecutivo;

c) in materia di sussidiarietà verticale (questo invece non è da poco rispetto alla prassi ultracentralista del PP spagnolo e al suo uso escludente del concetto di nazione) «per varie ragioni non sempre i confini nazionali coincidono con quelli etnici (…) Sorge così la questione delle minoranze» rispetto alle quali «il Magistero afferma che le minoranze costituiscono gruppi con specifici diritti e doveri» (paragrafo 387);

d) rispetto alla sussidiarietà orizzontale, essa non può condurre a negare che nelle «realtà di grave squilibrio e ingiustizia sociale» solo «l’intervento pubblico può creare condizioni di maggiore eguaglianza, di giustizia e di pace» (paragrafo 188) e, rispetto alle diffuse tentazioni iper-liberiste di concentrarsi in modo ossessivo alla riduzione delle tasse, come primo principio di orientamento della finanza pubblica, si parla non casualmente di «pagamento delle imposte come specificazione del principio di solidarietà» (paragrafo 355). È forse inutile parlare delle ricorrenti dichiarazioni populiste del nostro presidente del Consiglio sulla legittimità del non pagamento delle imposte, perché questo è uno dei limiti specifici della sua cultura politica, a cui non credo si assocerebbe in alcun modo nessun esponente della destra spagnola;

e) quanto alla pena di morte, nonostante l’enfasi religiosa dei teocons nordamericani, la crescente spinta a eliminarla dalle legislazioni, da loro non condivisa, è valutata come «un segno di speranza» e manifestazione «di una maggiore sensibilità morale» (paragrafo 405).

Ma possiamo accontentarci di queste risposte vere, anche se parziali, e non cercare di replicare sensatamente anche sugli altri temi, su cui le distanze sono invece maggiori, quantomeno per dare ragione della distanza? Così facendo siamo spinti a esaminare la questione dall’altro angolo visuale, quello del centrosinistra che guarda alla Chiesa e che vi coglie, a torto o ragione, sindromi regressive antimoderne.

 

Il centrosinistra che guarda alla Chiesa: non accusare di opposizione alla modernità, ma rivendicare la propria dignità di ruolo politico per il bene comune

Sui temi attinenti la famiglia, la sessualità, la vita privata, il messaggio della Chiesa sembra a molti uomini del nostro tempo incomprensibile o nemico della libertà. E qualche problema oggettivo esiste indubbiamente se, ad esempio, da parte di non pochi vescovi e cardinali, si è autorevolmente invocato un Concilio proprio per avviare una riflessione più libera su quei temi e conseguenti decisioni innovative, e se lo stesso cardinale Ratzinger, intervistato da «La Repubblica»1, ha sottolineato con forza e obiettività questa «difficoltà a farsi capire […] specie nel mondo occidentale» e, in particolare, come ha cambiato senso la parola «natura». Ancor più radicalmente qualche mese fa, in un dibattito con Habermas, Ratzinger aveva rimarcato che la «visione della natura» di tipo tradizionale, statico, «si è spezzata con la vittoria della teoria dell’evoluzione», aprendo problemi inediti che richiedono incontri nuovi tra «la fede cristiana e la razionalità “secolare” occidentale».2

Ma questa è una evoluzione possibile, interna alla Chiesa: non spetta alla politica imporre dall’esterno riforme a Chiese recalcitranti, alla loro vita che si svolge secondo parametri propri, almeno fin quando non sono lesi diritti fondamentali delle persone con puntuali violazioni di legge. Vedo nel dibattito spagnolo, più che in quello italiano, alcune adesioni acritiche a forme di laicismo da parte di cattolici, non tanto perché si condividano in termini di valutazioni politiche o di vita personale libertina (anzi, spesso si tratta di persone votate alla più paradossale povertà), ma per provocare dall’esterno, in modo giurisdizionalista, una riforma interna della Chiesa.

Non penso che sia giusto entrare in tale logica, anche se è sostenuta da qualche importante teologo. Restando sul terreno rigorosamente politico (che per la Chiesa è però terreno morale, quindi non alieno da un suo dovere di intervento) è gravemente semplificatorio descrivere la posizione della Chiesa come priva di sfumature e di distinzioni, su quei temi, come pure sugli altri precedentemente citati. Il medesimo Compendio ci fornisce infatti tre importanti sottolineature previe ai singoli temi:

a) in termini generali che l’intento di non sacralizzare le decisioni a maggioranza in nome della legge naturale non significa affatto che il legislatore possa agire presupponendo una società di persone che ben la comprendano: «i suoi precetti non sono percepiti da tutti con chiarezza e immediatezza» anche perché la comprensione può avvenire «solo con l’aiuto della Grazia e della Rivelazione» (paragrafo 141);

b) per questo il Compendio non assume come logica quella di realizzare un’egemonia politica, ma invita soprattutto i cristiani «affinché con la santità della loro vita e la forza della loro testimonianza, contribuiscano al progresso dell’umanità» (Lettera del cardinale Sodano che apre il Compendio); è solo sulla base della capacità pervasiva di questo lavoro molecolare che la politica può poi intervenire attraverso una legislazione rispondente allo sviluppo civile e morale della società, senza forzature;

c) l’atteggiamento di fondo richiesto al legislatore, chiamato allo tesso tempo a orientare e ad accompagnare la propria società, è ispirato a prudenza e realismo: «la prudenza rende capaci di prendere decisioni coerenti, con realismo e senso di responsabilità nei confronti delle conseguenze delle proprie azioni (…) esige l’esercizio maturo del pensiero e della responsabilità, nell’obiettiva conoscenza della situazione e nella retta volontà che guida alla decisione» (paragrafo 548); il realismo ne è componente essenziale in quanto «il fedele laico è chiamato a individuare nelle concrete situazioni politiche, i passi realisticamente possibili per dare attuazione ai principi e ai valori morali», sapendo anche che «nessun problema può essere risolto in modo definitivo», paragrafo 567), il che si riflette anche in una sana relativizzazione anti-integralista e anti-massimalista delle scelte di parte («pretendere che un partito o uno schieramento corrispondano completamente alle esigenze della fede e della vita cristiana ingenera equivoci pericolosi», paragrafo 573).

Le singole prese di posizione, che per molti aspetti sono una sfida profetica della Chiesa alle persone, dal richiamo all’indissolubilità del matrimonio che in tutti i tempi è sempre stato un dato che ha sfidato la natura storico-concreta dell’uomo, fino all’invito a non utilizzare la fecondazione assistita, vanno interpretate in chiave politico-legislativa dentro quel sistema di orientamento.

Un conto è il ruolo profetico della Chiesa, come tale non necessariamente legato alla valutazione di opportunità, di rapporti di forze, e un altro l’assunzione di responsabilità dei laici cattolici in politica, che in proprio si confrontano con quei dati. Le mediazioni legislative sono il terreno di questi ultimi, dell’esercizio della loro autonomia; un’autonomia non assoluta, legittimamente criticabile dal punto di vista profetico di chi ha responsabilità nella Chiesa. Ma della dialettica di due momenti non si può fare a meno, né si possono invertire i ruoli: non spetta alla gerarchia indicare le concrete mediazioni politiche accettabili (e talora vi è qualche sbavatura di questo tipo), non compete ai politici credenti portare il bipolarismo nella Chiesa, rimproverando quest’ultima perché le sue indicazioni profetiche sono distanti dalla praticabilità politica immediata.

Non pochi in Italia, tra coloro che hanno vissuto l’esperienza della Democrazia Cristiana, fanno però fatica ad accettare questa distinzione netta: erano infatti abituati a una parziale simbiosi con la gerarchia. Da un lato ricevevano una sorta di mandato (l’opzione pastorale per l’unità politico-elettorale) legato all’emergenza della sfida comunista, che metteva in secondo piano anche alcune tematiche morali, e dall’altro garantivano attenzione personale e pubblica alle posizioni della Chiesa. Nel nuovo orizzonte post-1989, anziché cogliere l’opportunità del nuovo contesto, che impone di assumere in proprio alcune responsabilità, ben sapendo che ciò comporta un’analoga libertà della Chiesa di criticare le mediazioni realizzate, assistiamo proprio da parte di alcuni cattolici del centrosinistra che vengono dall’esperienza DC, a delle critiche molto dure alla gerarchia che ricordano quelle dei cristiani verso il socialismo degli anni Settanta (con cui talora qualcuno confonde del tutto erroneamente il gruppo di cristiani «nel» Partito socialista basco). Mentre quelle erano legate, con alcune scorciatoie utopiste, al desiderio di purificare la Chiesa, queste invece, muovendosi sul terreno politico, rischiano di produrre un risultato opposto, di confermare cioè nella Chiesa un’immagine litigiosa e pregiudiziale nei confronti del centrosinistra politico, finendo col favorire i legami con gli ossequi formali che il centrodestra appare in grado di garantire. Questa è la prima tentazione da evitare, ma riguarda forse solo noi italiani.

La seconda, invece, riguarda sia l’Italia sia la Spagna, e concerne soprattutto le componenti della sinistra laica, socialista o post-comunista. La perdita di precisi referenti sociali, tipici di società semplici, e le difficoltà obiettive di rispondere alla globalizzazione con politiche economiche ben distinguibili da quelle del centrodestra, porta con sé il pericolo di cercare una via di fuga nel radicalismo etico. Le nostre società presentano varie domande di questo tipo che la politica deve reinterpretare e gerarchizzare, non certo accettare passivamente. Su questi terreni, se per la Chiesa cattolica la tentazione è quella di usare il diritto in modo eccessivamente orientativo, facendo passare tramite esso dei vincoli etici che la concreta società non è in grado di accogliere, avvertendoli essa come imposizioni, per i filoni laici del centrosinistra, ben esemplificati dal presidente del governo spagnolo, il rischio è invece quello di utilizzare il diritto solo per accompagnare le evoluzioni sociali, rinunciando a orientare.

Invece l’equilibrio tra funzione di accompagnamento e di orientamento del diritto deve costituire la stella polare del legislatore: il diritto non è mai del tutto neutro rispetto ai valori. Quindi l’idea di limitarsi ad accompagnare le evoluzioni significa abdicare a un ruolo di scelta della politica; nel contempo un diritto rivolto verso il bene comune non può orientare senza accompagnare, giacché supporre una società di angeli facilmente plasmabile da imperativi etici per via di coazione giuridica rischia di produrre lacerazioni e crisi di rigetto che aprono poi la strada a reazioni in senso contrario. È la grande lezione di realismo che proponeva, richiamandosi in più punti a San Tommaso, Jacques Maritain ne «L’uomo e lo Stato».3 Un autore che è stato di esempio per far capire nel mondo il martirio del cattolicesimo basco contro il clerico-fascismo. Per Maritain, infatti, quando vi fosse «un grande numero di persone la cui forza morale non è adeguata alla messa in vigore» di una proibizione, quest’ultima «si risolverebbe in un comportamento peggiore, tale da turbare gravemente o da disgregare il corpo sociale».4

Vediamo allora in conclusione, senza alcuna reticenza, i problemi specifici che il Compendio pone al centrosinistra politico sull’etica privata:

a) alcuni non meritano di essere trattati per esteso poiché nessuno schieramento politico potenzialmente maggioritario in Occidente, a destra come a sinistra, potrebbe credibilmente proporre norme restrittive in merito rispetto a quelle vigenti oggi. La stessa Chiesa ha da tempo compreso che si tratta essenzialmente di rivolgere appelli alle coscienze: stiamo parlando della disciplina del divorzio (paragrafo 225), dei mezzi contraccettivi (paragrafo 233) e della fecondazione omologa (paragrafo 235); per il divorzio resta tuttavia aperto il problema per il legislatore di non banalizzare il suo ricorso riducendo eccessivamente i tempi per il suo ottenimento, anche se in alcuni paesi come l’Italia i tempi processuali sono tali per cui i termini appaiono obiettivamente troppo lunghi, col risultato di rendere giuridicamente precari i nuovi legami, anch’essi meritevoli di stabilizzazione, senza poter ricostituire quelli venuti meno;

b) per ciò che concerne le unioni di fatto eterosessuali, il Compendio, al di là del giudizio morale negativo rispetto all’optimum costituito dalla famiglia fondata sul matrimonio, sul piano giuridico si limita a condannare «l’eventuale equiparazione giuridica» (paragrafo 227), poiché garantire uguali diritti a istituti che comportano doveri diversi finirebbe col penalizzare quello più impegnativo. Ciò però non esclude affatto un limitato riconoscimento giuridico, che bilanci minori diritti e minori doveri rispetto alla famiglia, soprattutto per tutelare il contraente più debole di tali unioni. Neanche esse possono essere esenti dall’applicazione dei doveri di solidarietà, possono cioè costituire una zona grigia dell’ordinamento in cui la solidarietà non si applica solo perché la condizione morale è deficitaria. Anche in questo caso, però, non è in gioco più di tanto la differenza destra-sinistra: se il centrosinistra è in genere il primo a raccogliere tali domande, le soluzioni sono poi normalmente bipartisan, come in varie Comunità autonome spagnole e come il consenso realizzato in Francia sui Pact Civil de Solidarité. Del resto la già citata intervista del cardinale Ratzinger critica il riconoscimento di un’unione che sia considerata dalla norma come «più o meno equivalente al matrimonio»;

c) rispetto alle unioni tra persone dello stesso sesso (userei questo termine piuttosto che «omosessuali», che implica un accertamento della effettiva tendenza sessuale che come tale non può essere affidata allo Stato), la preoccupazione del Compendio (paragrafo 228), a mio avviso legittima, è soprattutto quella di evitare anche qui «l’equiparazione» di tale unione alla famiglia, creando confusione rispetto al significato classico di matrimonio, e non quella di impedire limitate forme di riconoscimento giuridico ai medesimi fini solidaristici delle unioni di fatto eterosessuali. Il problema è che proprio chi non vuole una semplicistica assimilazione al matrimonio e che insieme, avendo responsabilità politiche, scorge domande al momento prive di risposte, dovrebbe nel contempo proporre soluzioni alternative, come quelle dei PACS francesi o, forse, più chiaramente distinte tra unioni tra persone di sesso diverso (che hanno comunque l’alternativa del matrimonio) e dello stesso sesso. Non è la stessa cosa in termini politici criticare l’indubbia scorciatoia del governo spagnolo proponendo un’alternativa praticabile o condannando queste realtà a un limbo giuridico, in cui la solidarietà non varrebbe. Anche in questo caso l’intervista del cardinale Ratzinger critica la scelta del governo spagnolo, in quanto consisterebbe nel creare «la forma giuridica di una specie di matrimonio omosessuale» e quindi «apparirebbe necessariamente all’opinione pubblica come un altro tipo di matrimonio»;

d) quanto all’aborto, il Compendio ne ribadisce l’illiceità (paragrafo 153) e precisa che esso «lungi dall’essere un diritto, è piuttosto un triste fenomeno» (paragrafo 233). Larga parte della dottrina giuridica condivide tale posizione di principio. Gregorio Peces-Barba ha costantemente affermato che non si può parlare in alcun modo di diritto rispetto a un male, anche se resta aperto, secondo il medesimo autore, allievo di Maritain e di Norberto Bobbio, quale sia il modo migliore dal punto di vista legislativo per arginare tale male, la cui esistenza precede la regolazione normativa. Per Peces Barba «l’aborto non è un diritto fondamentale perché i diritti si basano sul bene e lo ricercano, mai su mali. L’aborto non è un bene. È sempre un male (…) ma la legge lo regola perché ponderando i beni e i mali in gioco considera che ci possono essere mali maggiori » cercando forme di equilibrio.5 Non lo erano certo le normative penali ereditate dagli Stati autoritari che si limitavano a colpire la donna e che ipocritamente venivano di fatto disapplicate: forse in astratto una mera depenalizzazione sarebbe stata la soluzione moralmente migliore nell’odierno contesto storico-sociale, se ad essa si fosse pensato in tempo, senza abbarbicarsi nella difesa di normative ormai condannate dal corpo sociale. Oggi, probabilmente, sia per la destra sia per la sinistra, il problema sta più nel ricercare insieme i mezzi più efficaci di prevenzione, evitando di riaprire un contenzioso normativo sul tema. Anche su questo punto non apparirebbe felice qualsiasi intento di ampliare i margini dell’attuale normativa, in Italia come in Spagna. Lacerarsi su questo significa dividere e quindi rendere più difficoltoso il consenso sulla prevenzione;

e) rispetto all’eutanasia, il Compendio ne ribadisce la condanna (paragrafo 155), ma non esiste in questo momento né in Spagna né in Italia nessuna iniziativa analoga a quelle purtroppo già entrate in vigore nel Nord Europa, che vanno ben al di là del legittimo intento di evitare l’accanimento terapeutico;

f) per ciò che concerne i limiti che il diritto può porre alle varie modalità di fecondazione assistita (paragrafo 235), eccetto la questione della fecondazione omologa già trattata in precedenza, il dibattito in Italia è particolarmente vivo e promette di diventare più forte nei prossimi mesi, in vista dei referendum popolari previsti per la tarda primavera. Il Compendio presenta alcune posizioni massimali, solo in parte assunte dalla legislazione italiana (Legge 40 del 2004). I legislatori si sono già mossi su un terreno di mediazione tra sostenitori di principi diversi, quindi si sono già assunti una responsabilità. Dovere della Chiesa è richiamare gli obiettivi massimali e forse anche di rivendicare i punti di mediazione raggiunti come difficilmente valicabili, soprattutto dove essa ha già visto alcuni scostamenti significativi. Dovere del centrosinistra politico è certo non sconvolgere frettolosamente gli equilibri raggiunti sovvertendoli per intero, come farebbe se accettasse di cancellare completamente la legge seguendo l’impostazione del Partito Radicale. Ma se si tratta di una mediazione è allora ragionevole che i settori del centrosinistra, compresi quelli cattolici, in nome della propria autonoma responsabilità si sentano in diritto e in dovere di segnalarne le incongruenze interne (ad esempio all’embrione è garantita una tutela maggiore del feto) e alcuni elementi che nella situazione concreta rischiano di produrre una crisi di rigetto sociale (ad esempio il divieto assoluto di ricerca scientifica sugli embrioni soprannumerari, che prima o poi periranno, rispetto alle sofferenze di molti malati gravi che sarebbero beneficiari delle ricerche), perseguendo modifiche legislative che evitino il referendum. Si può legittimamente pensare che alcuni eccessi di proibizionismo oggi potrebbero causare domani una spinta eccessiva in senso contrario, come alcune dinamiche di lungo periodo della società spagnola sembrano denunziare.

Ma valutare questo, e di conseguenza la sensatezza di diverse mediazioni legislative, distinguendo anche tra una proposta referendaria e un’altra, fa parte del rischio che si assume ogni politico, credente o meno e, nel caso referendario, ogni cittadino. Di un politico che, come ricordava Aldo Moro nel suo ultimo discorso del 28 febbraio 1978 di fronte ai gruppi parlamentari DC, non ha il suo proprium in un’idea di testimonianza intesa come espressione di valori non mediabili (la politica e il diritto sono anche e soprattutto mediazione tra valori), ma esercizio creativo di responsabilità.

La Chiesa, anche attraverso il suo Compendio, ci pone domande esigenti, che vengono prima delle nostre mediazioni e che consentono una critica altrettanto esigente, a posteriori, delle medesime, ma non ci dà soluzioni preconfezionate che ci esimano dalla nostra responsabilità.

Il centrosinistra sa che dovrà battersi di fronte ai rischi di scorciatoie, talora anche andando controcorrente, come capita in Spagna ai cristiani nello PSOE. Ma siamo fieri di doverci porre questi interrogativi proprio nel centrosinistra e non altrove, non in un’indistinta volontà di stare sopra le parti o in un centrodestra europeo che ci appare molto più lontano dagli ideali evangelici: sia quello italiano, appesantito dalla commistione coi denari privati e con le televisioni commerciali, sia quello spagnolo, vittima soprattutto di un centralismo statolatrico che ancora non riesce a superare.

Ognuno ha l’onere della prova, per se stesso, nel dimostrare di praticare il «potere con spirito di servizio» assumendo «come finalità del proprio operare il bene comune e non il prestigio o l’acquisizione di vantaggi personali» (Compendio, paragrafo 410), ma è giusto dire a molti uomini di Chiesa che, pur consapevoli dei limiti personali e collettivi come centrosinistra, pur sapendo che esistono molti cristiani in politica impegnati in settori diversi dai nostri, che non siamo qui per caso, a prescindere dalla nostra ispirazione religiosa o nonostante essa.

Vi è stato chi ha proposto in Italia nuove forme di fusione tra ispirazione religiosa e conservatorismo politico: una tentazione in cui è caduto ad esempio Rocco Buttiglione, forse anche a causa di note e complesse vicende politicopersonali. Di fronte ad esse non si tratta di riaffermare una rigida separazione di piani. È invece per segnalare, come ricordava Emmanuel Mounier nella citazione di apertura, che il nostro cristianesimo vuole incidere sulla politica, ma in direzione esattamente opposta: non a sostegno degli equilibri esistenti, ma per minare quello che è spesso solo un «disordine costituito». O, come ricordava già nel 1985 una delle personalità cattoliche (profondamente laiche in senso conciliare) all’origine dell’Ulivo, Nino Andreatta, lo Spirito soffia forte proprio quando mette in crisi le volontà di paci costantiniane. Per Andreatta, con un lessico marcatamente mounieriano: «Quando manca lo Spirito, non rimane che cercare il senso dell’identità nelle esperienze primarie della nazione o della religione. Ma quando lo Spirito alita, allora nella storia si cerca di costruire ordini che corrispondono alla dimensione dei problemi», in particolare «stabilendo un dialogo ecumenico con le grandi religioni e, sul piano politico, costruendo un ordine mondiale in cui il monopolio della forza venga tolto agli Stati nazionali».6

È giusto che ognuno assuma i rischi propri della sua parte politica: lo stesso Mounier, che si collocava nella nostra medesima posizione ideale, segnalava profeticamente che «la destra lotta contro la morte a rischio di fermare la vita, la sinistra lotta per la vita fino ad esporla a esperienze di ogni modo», dato che la prima si basa su uno «spirituale di struttura e di ordine», mentre la seconda su uno spirituale «del progresso e della giustizia». Vorremmo dal centrosinistra più cautela proprio su questo terreno e non tanto perché le nostre motivazioni ideali sono elevate, ma in nome di un sano realismo politico: le nostre società sono al tempo stesso laiche e innovative, ma anche aliene da fughe ideologiche minoritarie. Alla Chiesa non chiediamo invece di condividere le nostre singole posizioni politiche, ma solo di comprendere che dietro di esse, nella loro opinabilità e perfettibilità, ci sono persone e gruppi che hanno preso sul serio la parte finale del capitolo 25 del Vangelo di Matteo (il giudizio finale) e il Capitolo 4 della prima Lettera Giovanni («Chi non ama suo fratello, che vede, non può amare Dio che non vede»). Come ricordava Karl Rahner, rileggendo questi passi e cogliendovi una verità ontologica, l’amore del prossimo è «l’unica misura adottata dal Signore per il giudizio finale degli uomini», compresi coloro che fanno politica.7

 

 

Bibliografia

1 Cfr. Intervista a Joseph Ratzinger, Il laicismo nuova ideologia. L’Europa non emargini Dio, in «La Repubblica», 19 novembre 2004.

2 J. Habermas, J. Ratzinger, Etica, religione e stato liberale, in «Humanitas» 2/2004, pp. 256-260.

3 J. Maritain, L’uomo e lo Stato, Vita e Pensiero, Milan, 1970.

4 Il testo è del 1951; il brano, con ampie citazioni della Summa theologica nell’edizione italiana del 2003, edita da Marietti è alle pagine 164-166. 

5 G. Peces Barba, La democracia en España, Temas de hoy, Madrid 1996, p. 193.

6 Cfr. AA. VV., Una nuova pace costantiniana?, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 204-205.

7 Questo testo nasce come relazione al convegno per il decimo anniversario del gruppo «Cristiani nel Partito Socialista Basco» tenutosi a Bilbao il 27 novembre 2004.