Il sistema produttivo italiano è alla deriva?

Di Gianfranco Viesti Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

Un’economia alla deriva È stato efficacemente detto che l’economia italiana è «alla deriva». Continua cioè a seguire, per inerzia, una «rotta» che in passato le ha permesso straordinari successi, ma che nell’attuale quadro competitivo presenta crescenti difficoltà. La deriva nasce dalle ben nuove condizioni esterne e interne (concorrenza internazionale, crescente diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, mutamento del regime di cambio, aumento della pressione fiscale sulle imprese, in conseguenza del doveroso aggiustamento fiscale). Queste nuove condizioni rendono più stringenti i vecchi vincoli allo sviluppo dell’economia italiana: la bassa qualità dei servizi pubblici, la modesta e decrescente (in chiave comparata) dotazione di infrastrutture, la presenza di situazioni di monopolio – o comunque di insufficiente concorrenza – in molti dei settori dei servizi e a rete che producono input chiave per tutti i produttori di beni e servizi finali.

 

Un’economia alla deriva È stato efficacemente detto che l’economia italiana è «alla deriva».1 Continua cioè a seguire, per inerzia, una «rotta» che in passato le ha permesso straordinari successi, ma che nell’attuale quadro competitivo presenta crescenti difficoltà. La deriva nasce dalle ben nuove condizioni esterne e interne (concorrenza internazionale, crescente diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, mutamento del regime di cambio, aumento della pressione fiscale sulle imprese, in conseguenza del doveroso aggiustamento fiscale). Queste nuove condizioni rendono più stringenti i vecchi vincoli allo sviluppo dell’economia italiana: la bassa qualità dei servizi pubblici, la modesta e decrescente (in chiave comparata) dotazione di infrastrutture, la presenza di situazioni di monopolio – o comunque di insufficiente concorrenza – in molti dei settori dei servizi e a rete che producono input chiave per tutti i produttori di beni e servizi finali. E ancora, la limitata generazione di nuovo capitale umano qualificato, il modesto investimento pubblico e soprattutto privato nella ricerca, l’insufficiente capacità del sistema finanziario di accompagnare la crescita delle imprese.

Le caratteristiche della «flotta» sono ben note.2 Il capitalismo italiano, delle piccole imprese, dei distretti, del Made in Italy è rimasto lo stesso. Ma nel nuovo contesto è sempre meno competitivo. L’azione del governo Berlusconi sta sensibilmente aggravando la deriva. Negandola. Creando sfiducia con promesse tanto ampie quanto irrealizzabili (è stato con le «grandi opere» e lo sarà con la riduzione fiscale). Coltivando la cultura del monopolio e della protezione, mentre apparentemente enuncia quella del mercato e dell’illegalità, delle scorciatoie che permettono di eludere le regole (ne sono esempio i condoni fiscali e i concordati, il disinteresse versi i beni pubblici e i condoni edilizi).

L’obiettivo da raggiungere è semplice da definire: cambiare rotta. La meta finale è un sistema produttivo nazionale più competitivo (cioè a maggiore occupazione, specie qualificata, e contemporaneamente a maggiore produttività). Ma non sarà affatto facile, perché ai vecchi problemi si stanno venendo a sommare i gravi danni che l’attuale azione di governo sta producendo. La questione in discussione diventa quindi: come farlo.

 

Politiche macroeconomiche e di regolazione

Le imprese e i sistemi territoriali di imprese in Italia hanno crescenti difficoltà competitive non solo per le proprie caratteristiche (quel che si produce, come lo si produce, chi lo produce), ma anche, e in gran parte, per alcune condizioni generali del nostro paese. Possono essere influenzati dunque tanto dalle politiche «generali» di conduzione e di regolazione dell’economia quanto da specifiche politiche «per la competitività», che agiscono sia sulla struttura e la performance delle singole imprese che sui sistemi produttivi territoriali.

È evidente come le politiche macroeconomiche abbiano un impatto forte sul sistema delle imprese; per un aspetto in particolare: nella quantità di risorse che esse riescono complessivamente a destinare «allo sviluppo», sotto forma di investimenti pubblici, incentivi agli investimenti privati, formazione, ricerca. Questa dipende, purtroppo spesso in maniera residuale, dalla dimensione delle entrate e dalla dimensione delle altre spese, correnti e per interessi. Non sembri inutile ricordare che se si interviene in maniera azzardata a ridurre le entrate fiscali, o se si riduce troppo lentamente il debito pubblico (o peggio, lo si incrementa sottobanco) – esattamente come sta facendo l’attuale governo – si riducono complessivamente le risorse che possono essere destinate allo sviluppo.

La creazione di capitale pubblico è essenziale. Questo prende forma di capitale fisico (grandi e piccoli investimenti infrastrutturali, nelle grandi reti e nei loro raccordi locali, nei territori e nelle città), di capitale umano, nella cui dotazione l’Italia continua a presentare ritardi gravi nei confronti degli altri partner europei (e quindi nell’istruzione scolastica, nella formazione professionale, nell’università) e prende forma di nuove conoscenze (nella ricerca scientifica di base e nella ricerca sulle sue applicazioni).

La spesa per lo sviluppo è primaria tanto nelle aree forti quanto nelle aree deboli del paese.3 In queste ultime in particolare la creazione di nuovo capitale fisico, umano e di conoscenza è l’unica strada maestra per lo sviluppo di lungo periodo. Serve a poco compensare, con trasferimenti permanenti, costosi e malvisti nelle regioni a maggior reddito, i cittadini e le imprese della carenza di beni pubblici. La strada maestra è crearli. Per questo occorre che la spesa per lo sviluppo sia equamente distribuita nel paese; in particolare che sia restituita assoluta centralità politica all’obiettivo, già enunciato nella legislatura 1996-2001, di destinare al Mezzogiorno il 45% della spesa totale in conto capitale del settore pubblico allargato. L’Italia torna a crescere non se ripartono solo le aree forti, le supposte locomotive che dovrebbero trainare poi l’intero paese, ma se riparte tutto il paese, in particolare mettendo a valore le grandi risorse (umane, ambientali, culturali) che sono sottoutilizzate proprio nelle aree deboli e che per questo determinano una bassa velocità di crescita.

E vi è un problema, più sottile, ma altrettanto importante e ineludibile, di qualità della spesa. La spesa per lo sviluppo non ha tanto uno specifico valore congiunturale, come componente della domanda aggregata; l’effetto di gran lunga maggiore lo ottiene se e quanto determina impatti strutturali, di lungo termine, nel modificare e migliorare il contesto nel quale i cittadini e le imprese operano, nel creare beni pubblici. E questo non dipende solo dalla quantità della spesa, ma anche dalla sua qualità. Questo in Italia è particolarmente difficile. Per la debolezza di molte delle amministrazioni centrali e periferiche, per la scarsa attenzione prestata alla progettazione e alla valutazione ex-ante di progetti comparati fra loro, per la scarsa attenzione prestata al monitoraggio e alla valutazione finale di impatto. Non sembrino questioni tecniche, marginali. Soprattutto in un periodo – che purtroppo sarà assai lungo – nel quale la spesa per lo sviluppo sarà più limitata di quanto occorrerebbe, la scelta dei progetti migliori, e la loro efficiente esecuzione, rappresentano una – difficile – priorità di politica economica.

Tutto ciò è anche influenzato dall’impatto che la regolazione nazionale ha sulla produzione di beni e servizi.4 La decrescente competitività delle imprese italiane esposte alla concorrenza internazionale dipende anche dal permanere (in taluni casi addirittura dal rafforzarsi nel periodo più recente) di posizioni di monopolio e comunque di grave distorsione della concorrenza in molti settori chiave. Liberalizzare o comunque ri-regolamentare questi settori significa influenzare fortemente la competitività di tutti i loro utilizzatori. L’obiettivo non è costruire acquedotti, ma ottenere che in tutto il paese l’acqua sia disponibile con regolarità nelle case, nelle fabbriche e nelle campagne, a prezzi ragionevoli (ma che riescano a finanziare i necessari investimenti), fornita da operatori resi efficienti da corrette modalità di selezione e controllo.

L’esperienza italiana ed europea degli ultimi dieci anni insegna come non sia affatto semplice produrre buona regolamentazione, come siano forti vecchie e nuove posizioni di rendita e di monopolio, come occorra un intervento pubblico di grande qualità e come l’interesse pubblico possa essere spesso tutelato meglio con una efficace regolazione che con una gestione diretta.

 

Politiche per le imprese

Per cambiare la rotta del sistema produttivo nazionale occorrono naturalmente politiche dirette per la competitività, che tendano a modificare, nel tempo, quelle sue caratteristiche che lo rendono più debole e più esposto alla concorrenza rispetto – quantomeno – agli altri grandi partner europei. Per riflettere su questo, tuttavia, occorre evitare un facile errore: quello di disegnare un sistema delle imprese ideale (l’obiettivo), ma senza sapere bene come possiamo arrivarci (il percorso). Partire da quel che manca (la ricerca, le grandi imprese) e affermarne la necessità: occorrono più grandi imprese, più ricerca, più innovazione. I sistemi economici non cambiano per decreto, con un colpo di bacchetta magica. Alla retorica del declino («tutto va male») può affiancarsi una facile retorica del rilancio («tutto può andare facilmente bene»). Una politica per il rilancio della competitività non può che partire dai punti di forza del sistema nazionale.

Conviene ricordarne alcuni. Guardando alle imprese, oltre a ben pochi gruppi di dimensione multinazionale vi è un tessuto di medie imprese competitive (le 3.700 di Mediobanca e della Banca d’Italia), composto anche di «multinazionali tascabili». Guardando ai settori, forti posizioni competitive in molti dei beni finali per la persona – incluso l’agroalimentare – e per la casa, ma anche nei relativi macchinari e servizi che sono progressivamente cresciuti; alcune nicchie di specializzazione a maggiore tecnologia, da alcuni comparti dei mezzi di trasporto ai semiconduttori della ST.

Come dovrebbe evolvere questo sistema? Per essere più competitivi, servono più imprese medie e grandi, con le conseguenti economie interne di scala non tanto e non solo nella produzione, ma anche e soprattutto nella commercializzazione, nella finanza, nelle risorse per l’innovazione. Servono imprese più «terziarizzate» al proprio interno. Non solo degli ottimi produttori. Ma imprese in grado di saper movimentare e trasportare con efficienza tanto gli input quanto gli output, con rilevanti capacità logistiche. Imprese in grado di saper presentare adeguatamente i propri prodotti e di saper offrire tutti i servizi richiesti dagli acquirenti. Sempre più capaci di vendere, con reti proprie e propri marchi, i propri prodotti. Servono imprese in grado di adottare e utilizzare al meglio le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In questo l’Italia è significativamente indietro, anche rispetto agli altri paesi europei. Non solo nella semplice adozione di sistemi informatici o telematici, ma anche e soprattutto nelle significative trasformazioni organizzative necessarie per trarre vantaggio dalla semplice adozione delle nuove tecnologie.5 Servono imprese che destinino più risorse all’innovazione di prodotto. E servono nuove imprese. Non tanto e non solo quelle che nel nostro paese nascono, da sempre, in grandissimo numero, attraverso processi imitativi che replicano quanto già si fa altrove (e che comunque svolgono il fondamentale ruolo di stimolare la concorrenza nei propri settori di attività), ma imprese che facciano altro: che nascano – proprio come negli Stati Uniti – su nuove idee imprenditoriali, applicazioni tecnologiche, conoscenze scientifiche. In Italia accade, ma ancora troppo poco.

Da tempo si attua, in Italia come altrove, una «politica industriale» che cerca, attraverso incentivazioni fiscali e finanziarie, di spingere le imprese a cambiare: destinando risorse all’acquisizione di nuove strumentazioni e nuovi macchinari; finanziando progetti di ricerca; abbattendo i costi della penetrazione su nuovi mercati. Su questa politica occorre riflettere, per migliorarla il più possibile.

Occorre innanzitutto che le incentivazioni continuino a non distorcere la concorrenza: che siano sempre aiuti «orizzontali» e non settoriali. Questo è oggi particolarmente importante. Anche alla luce dell’allargamento, è positivo che la Commissione europea perseveri nell’azione a tutela della concorrenza; che eviti così «guerre» localizzative, di sussidi (potendo evitare solo in parte quelle fiscali) fra gli Stati membri per attrarre investimenti; che respinga le ipotesi di alcuni di allentare i vincoli agli aiuti di Stato.

Occorre che, indipendentemente dalle loro modalità di funzionamento e di erogazione (sufficientemente chiarite già dal decreto Bersani) questi strumenti abbiano obiettivi chiari. Le risorse sono limitate: occorre chiedersi quali obiettivi siano quelli prioritari. Visto dal lato del sistema delle imprese ogni incentivo può essere utile e quindi benvenuto. Nell’ottica del sistema-paese, invece, ve ne sono alcuni decisamente più importanti.

Questo richiede una riflessione non semplice. C’è da chiedersi, ad esempio, se nell’insieme in Italia non abbiano un peso eccessivo le incentivazioni che favoriscono l’acquisto di macchinari e l’innovazione nei processi, che mirano ad ampliare la base produttiva e a rendere più efficienti le fasi della produzione. Incentivazioni tradizionalmente adatte a un sistema produttivo che deve fare sempre più e meglio ciò che già sa fare: il che però non è il problema principale dell’industria italiana. Anche la semplice adozione delle tecnologie ICT, senza che questo comporti una complessiva ridefinizione dell’organizzazione aziendale, serve a poco. L’obiettivo principale è produrre beni e servizi diversi con strutture organizzative diverse.

 

Politiche per i sistemi produttivi territoriali

Partire da quello che c’è, però, non significa solo occuparsi delle singole imprese. In Italia, come altrove, le imprese sono radicate nei territori. Non tutte: alcune ne sono in larga misura indipendenti e trovano la loro economicità principalmente, se non esclusivamente, nelle condizioni interne della produzione. Ma proprie perché solo «ancorate» ai territori, sono pronte a muoversi al mutare dalle convenienze relative dei costi di produzione. Molte, moltissime imprese, sono al contrario radicate: sono competitive tanto per ciò che avviene al loro interno quanto per ciò che accade all’esterno. E sono la parte più importante di un sistema produttivo: se la globalizzazione rende più mobili le imprese «ancorate», rende decisive quelle «radicate». Ciò significa che la politica economica per la competitività non può essere orientata solo alle singole imprese, ma anche ai sistemi produttivi territoriali. Ai distretti industriali, agroalimentari, ma anche dell’accoglienza e della cultura. E alle grandi e medie città italiane, sovente ad alta qualità della vita e a buona inclusione sociale, con la loro grande ricchezza costituita da integrazioni intersettoriali, da capitale umano di qualità, da istituzioni pubbliche e università.

La competizione sui mercati internazionali non è (o è in misura parziale, o è sempre meno) fra singole imprese, ma è (o è in misura rilevante, o è sempre più) fra sistemi produttivi territoriali. Sta a significare che sicuramente, per il successo di un’impresa, conta tutto quello che avviene «all’interno dei cancelli della fabbrica»: la sua scala ed efficienza produttiva, la sua capacità finanziaria, il suo marchio, la sua rete commerciale. Ma conta anche, e forse più, quel che avviene «al di fuori dei cancelli della fabbrica».

In Italia molte delle imprese e quindi dei settori maggiormente competitivi sono fortemente radicati in distretti e città. Da questo radicamento hanno tratto in passato molte delle loro forze. È l’Italia che è stata tanto competitiva, e non può essereche anche da qui che occorre ripartire. Con un’attenzione particolare, però, alle città e alle economie urbane. Lo sviluppo italiano degli anni Settanta e Ottanta ha tratto particolare forza dai piccoli e medi centri, ma è stato reso più debole dalla performance relativamente modesta di non poche fra le medio-grandi città. Cambiare rotta significa anche questo: da un lato un’attenzione assai maggiore alle città (aree urbane, economia della conoscenza, capitale umano qualificato, maggiori dimensioni di impresa sono aspetti assai intrecciati fra loro); dall’altro evitare un rischio ben presente nel sistema dei distretti, quello di rinchiudersi (lock in) nelle culture produttive e nelle specializzazioni che hanno determinato il successo nel passato, ma che non sono più in grado di garantirlo oggi.

Una dimensione fondamentale di una politica per il rilancio della competitività, assieme e oltre quella per le singole imprese, è dunque quella che si indirizza ai territori.6 Di cosa stiamo parlando? Di una politica economica che trasformi le singole unità produttive e le singole istituzioni che operano in un territorio in un sistema. Significa, concretamente, aumentare la relazionalità, le interazioni, la cooperazione fra i diversi attori di un territorio, di una città. Far sì che l’istruzione professionale e le specializzazioni universitarie tengano ben presenti le esigenze del sistema delle imprese, che le attività di ricerca interne delle imprese trovino sponde nel sistema pubblico, che la pianificazione territoriale favorisca una corretta e ordinata espansione delle aree produttive e che la pianificazione della logistica e dei trasporti sia coerente con le esigenze del sistema delle imprese. In una parola, che le politiche economiche che vengono condotte in ogni territorio siano il più possibile integrate fra loro.

Significa dedicare attenzione, nella politica economica, ad aspetti che possono apparire sfuggenti o marginali, e che invece sono centrali nel discriminare fra territori forti e deboli: il livello di conoscenza e di fiducia reciproca fra gli attori, la facilità delle loro interazioni e del loro coordinamento, la sicurezza del loro lavoro, la tutela effettiva dei diritti di proprietà e delle obbligazioni contrattuali. Fino al sistema dei valori, alla cultura del lavoro e dell’impresa. Provare, con gli strumenti della politica economica, a favorire la creazione anche di «capitale sociale».

Questo ha a che fare con la spesa per investimenti pubblici, il cui effetto è massimo se e in quanto riesce a produrre quei «beni pubblici dedicati» che maggiormente possono incidere sulla competitività territoriale. Non basta destinare risorse, non bastano gli investimenti pubblici. Occorre indirizzare risorse pubbliche – e saper mobilitare risorse private – verso ciò che più manca e ciò che più può essere utile, territorio per territorio. Ciò non può che implicare, per saper scegliere ciò che più serve, una capacità collettiva (su spinta pubblica, ma non solo pubblica) di città e regioni di saper guardare nel futuro; nel progettare «profezie credibili», scenari ambiziosi e ragionevoli. Ancora una volta possono sembrare apparentemente questioni eteree: è invece ciò che fa la differenza fra città di successo e città in declino.

Vi è poi un punto cruciale: solo città e territori competitivi attraggono talenti e investimenti. L’Italia – a differenza di ciò che accadeva fino agli anni Settanta – è fuori dal circuito degli investimenti internazionali, alla ricerca di favorevoli condizioni di costo. E ormai, con l’allargamento dell’UE, lo sarà definitivamente. È destinazione di investimenti che mirano al suo mercato. Può essere – anche ricercandoli attivamente, in maniera mirata – meta di investimenti che nella qualità, nella specializzazione, nelle economie di agglomerazione dei suoi territori e delle sue città trovino motivi per venire a radicarsi.

L’Italia perde cervelli. E, anche grazie alle assurde politiche sull’immigrazione, non ne attrae. Perde e non attrae studenti, ricercatori, professori, scienziati; ma anche tanti altri talenti creativi. Anche per questo è debole. Modificare questo scambio ineguale non sarà facile; richiederà una profonda revisione delle politiche sull’immigrazione. Avrà successo solo se sistemi territoriali, prevalentemente urbani, con la densità delle loro attività (e anche con elevati standard di qualità della vita) attrarranno talenti.

 

Chi fa le politiche

«C’era una volta», in Europa e in Italia, lo Stato napoleonico, tecnocratico, gerarchico. Lo Stato degli anni Trenta e Cinquanta. Uno Stato centrale con grandi risorse finanziarie, in grado di sostenere le sue strategie di sviluppo, con nuclei dirigenti centrali in grado di scrivere il futuro del paese. Con un forte potere gerarchico sull’intero paese. In grado di far eseguire dall’intero paese i suoi piani e in grado di condizionare il settore privato. Quello Stato non c’è più. In Europa, e in particolare in Italia, non ha più le risorse finanziarie che servirebbero per i grandi piani, e non può più indebitarsi a proprio piacere per finanziare la spesa. Non ha più il controllo gerarchico sul paese, dopo il grande decentramento degli anni Novanta e la riforma costituzionale già in vigore. Si confronta con i principi di tutela della concorrenza: con le liberalizzazioni, i controlli e i limiti agli aiuti di Stato, che, se mai lo è stato, non può più essere onnisciente, capace di leggere nel futuro delle tecnologie e dei mercati.

Nel nostro paese è in corso una transizione profonda. Veloce e abbastanza coerente negli anni Novanta; oggi preoccupante, specie alla luce di un’ipotesi di riforma costituzionale incoerente, arlecchinesca. Da condurre con ragionevolezza e attenzione verso obiettivi condivisibili. Non quelli di chi sogna uno Stato «minimo», con poche tasse, con pochi servizi pubblici e poche regole; o quelli di chi sogna – sull’onda di egoismi fiscali o di pericolosi micronazionalismi – uno Stato devoluto alle regioni, mini-Stati semiindipendenti a autosufficienti. Come possono al contrario essere quelli di uno Stato europeo moderno, «leggero» ma forte, decentrato ma cooperativo.

Portare a compimento questa transizione e cambiare rotta nell’economia italiana sono due facce della stessa medaglia. Non si tratta solo di discutere di «che cosa fare» per il rilancio dell’economia italiana, ma contemporaneamente di «chi lo fa» e di «come farlo». Cosa evidentemente assai complessa, perché si tratta di discutere allo stesso tempo del merito delle politiche di sviluppo che servono al paese e della loro governance. Ma senza ragionevoli alternative: che senso ha un programma di politica industriale nazionale che presuppone attori e strumenti che, nella realtà, non ci sono più o sono possibili solo molto limitatamente?

Se la nostalgia del vecchio Stato centralizzato va accuratamente evitata, l’esaltazione localistica va altrettanto accuratamente scansata. Non si tratta di lasciare la guida dello sviluppo a sindaci e assessori, di considerare il rafforzamento delle imprese e dei sistemi produttivi una questione locale, che chi può e riesce fa come crede. Di disegnare venti strategie regionali della ricerca, indipendenti fra loro. La politica economica per lo sviluppo può essere attuata solo disegnando un efficace modello di «governance multilivello», basato sulla cooperazione verticale fra i diversi livelli di governo. Il livello centrale rimane assolutamente essenziale, ma i suoi compiti sono diversi e più impegnativi rispetto al passato. Sta al centro interagire con l’Unione europea, realizzare le politiche nelle materie di sua competenza esclusiva, disegnare la cornice nazionale nelle materie a competenza concorrente (fra cui vi sono molte delle più importanti per la competitività delle imprese) e raccordare le politiche regionali e locali, stimolare la cooperazione, e intelligenti e misurate forme di concorrenza fra regioni e città. Molti degli strumenti necessari, dagli accordi di programma alle intese, dalle conferenze di servizi ai patti per lo sviluppo locale, sono già disponibili e possono essere migliorati sulla base dell’esperienza. Sta al centro introdurre sani principi di federalismo fiscale, per assicurare le risorse necessarie ai livelli inferiori di governo e per stimolarne un uso responsabile.

Ed è indispensabile evitare che il decentramento di molte importanti competenze verso il basso si traduca in forme di centralismo regionale (cosa della quale vi sono evidenti, pericolosi segnali); in venti micro-Stati napoleonici, tecnocratici, gerarchici. La ricchezza dell’Italia sono città e territori: è al loro livello che vanno portate il più possibile competenze e risorse. Con forme di cooperazione verticale, circolare, all’interno delle regioni tanto quanto fra regioni e Stato e fra Stato e Unione europea. Un modello reticolare: un disegno complesso, da rendere il più possibile semplice ed efficiente, ma indispensabile.

E questo porta a un tema altrettanto difficile ed essenziale. Per il rilancio dell’economia italiana non basta disegnare buone politiche e assetti e strumenti che le facciano efficacemente mettere in atto. Occorrono classi dirigenti di alto livello, nazionali e locali. Non, come negli Cinquanta, cento «uomini di ferro», con ampi poteri che trasformino l’Italia del dopoguerra in un paese moderno; ma centomila donne e uomini capaci di decidere e di cooperare.

Qui l’economista si deve fermare. Ma non può non segnalare con forza alla politica che i meccanismi di creazione e di promozione delle classi dirigenti oggi in Italia, tanto a livello nazionale quanto soprattutto a livello locale, e ancor più nel Mezzogiorno, sembrano ancora assai inadatti rispetto alle sfide di governo che il paese ha di fronte.

Per cambiare rotta non bastano slogan e speranze. Occorrono tempo, risorse finanziarie, coraggio politico nelle scelte delle priorità, un disegno dello Stato decentrato ma coerente, classi dirigenti di qualità. Una «profezia credibile», che faccia ritrovare al sistema produttivo italiano, partendo dai suoi non pochi punti di forza, innanzitutto fiducia e poi voglia e coraggio di navigare.7

 

 

Bibliografia

1 S. Rossi, Economia italiana: perché la deriva non si muti in declino, in «Il Mulino», 4/2004.

2 Fra i recenti contributi si veda in particolare: F. Onida, Se il piccolo non cresce, Il Mulino, Bologna 2004.

3 Ed è molto importante una strategia italiana che influenzi la politica infrastrutturale europea.

4 In particolare su questo si veda G. Nardozzi, Miracolo e declino, Laterza, Roma-Bari 2004.

5 C’è il fondato sospetto che sia proprio il carattere «tacito» e poco «codificato» delle conoscenze e delle capacità, che hanno reso così competitive le imprese italiane e differenziati i loro prodotti (la «mano» della seta, la «modifica» del macchinario industriale per il cliente), a rendere difficili queste trasformazioni. Su questi temi: Rossi, La nuova economia, Il Mulino, Bologna 2003.

6 C. Trigilia e G. Viesti, Una politica nazionale per lo sviluppo locale in Italia, Fondazione di Vittorio, 2004.

7 Questo testo sintetizza una relazione presentata al convegno: Innovazione e sviluppo, Direzione nazionale DS, Napoli 18 ottobre 2004.