L'esperienza del governo

Di Giovanni Sabbatucci Lunedì 01 Novembre 2004 02:00 Stampa

La storia della partecipazione socialista al governo dell’Italia repubblicana si suddivide in tre capitoli. Il primo è quello dell’unità antifascista, 1946-47; il secondo coincide con la stagione del centrosinistra propriamente detto, 1963-1975 (con la breve interruzione del 1972-73 e quelle, ancor più brevi, dei due governi «balneari» di Leone); il terzo, quello di cui si occuperà questo saggio, comincia nell’aprile 1980, con la formazione del secondo governo Cossiga, e si prolunga per quattordici anni, fino alle dimissioni del governo Ciampi e alle elezioni del marzo 1994. Dura dunque più a lungo dei due precedenti, più di quanto non fosse durato il centrosinistra «storico», che in realtà aveva avuto un prologo con l’appoggio del PSI al IV governo Fanfani nel 1962-63.

 

La storia della partecipazione socialista al governo dell’Italia repubblicana si suddivide in tre capitoli. Il primo è quello dell’unità antifascista, 1946-47; il secondo coincide con la stagione del centrosinistra propriamente detto, 1963-1975 (con la breve interruzione del 1972-73 e quelle, ancor più brevi, dei due governi «balneari» di Leone); il terzo, quello di cui si occuperà questo saggio, comincia nell’aprile 1980, con la formazione del secondo governo Cossiga, e si prolunga per quattordici anni, fino alle dimissioni del governo Ciampi e alle elezioni del marzo 1994. Dura dunque più a lungo dei due precedenti, più di quanto non fosse durato il centrosinistra «storico», che in realtà aveva avuto un prologo con l’appoggio del PSI al IV governo Fanfani nel 1962-63.

Anche in questo caso vi è un prologo che corrisponde al primo governo Cossiga dell’agosto 1979, con l’appoggio esterno del PSI e la partecipazione di tecnici di area socialista. Un mese prima, nel luglio, si era verificato l’evento, simbolicamente rilevante seppur privo di esiti concreti, del conferimento dell’incarico a Craxi da parte di Pertini. Anche in questo caso il prologo serve a far decantare la situazione, a smussare ostilità, a rendere meno brusca la svolta: con la differenza che stavolta le perplessità vengono tutte dall’interno del PSI, e non solo da una componente di sinistra ormai minoritaria. Il PSI, occorre ricordarlo, aveva posto fine di sua iniziativa alla prima stagione del centrosinistra (nel dicembre del 1975); e, durante tutto il triennio seguente (quello della solidarietà nazionale), aveva ostinatamente negato, per bocca di tutti i suoi dirigenti, Craxi compreso, di voler mai riesumare quella formula.1 Infatti, negli anni Ottanta, da parte socialista non si parlerà mai di «centrosinistra» e i governi, dal 1981 in poi, si chiameranno di «pentapartito».

Diverse, soprattutto rispetto agli esordi del primo centrosinistra, sono le premesse ideali e programmatiche. Nei primi anni Sessanta i socialisti – non solo il Lombardi delle riforme di struttura, ma anche il Nenni della stanza dei bottoni – sono convinti di poter introdurre nella società italiana fattori di rottura dei vecchi equilibri (se non addirittura elementi di socialismo). Craxi, assai più realista, giustifica l’ingresso nell’esecutivo con una sorta di stato di necessità: la parola d’ordine è quella della «governabilità».2 In fondo sono stati i comunisti a porre fine all’esperienza della solidarietà nazionale; sono sempre i comunisti a rendere impraticabile nei tempi brevi una politica dell’alternativa, per via della loro ambigua collocazione internazionale (rivelatasi nella vicenda degli euromissili). E senza il loro apporto non esiste altra maggioranza possibile se non quella di centrosinistra, comunque si voglia chiamarla. Entrare nel governo è dunque prima di tutto un atto di responsabilità nei confronti del paese.

La partecipazione socialista sarà, di per sé, garanzia di migliore qualità nell’azione dell’esecutivo, e anche di costante attenzione alle istanze «sociali»: non è forse il PSI per sua stessa natura il partito delle riforme, anzi il partito che ora per la prima volta si appresta ad assumere orgogliosamente la qualifica di riformista?3 Ma questo impegno resta come sottinteso e non si esplicita mai in un preciso elenco di riforme, né tanto meno in una serie di punti programmatici cui condizionare la propria partecipazione al governo. Un’assenza che, se da una parte è testimo nianza di un approccio empirico,4 scevro da quell’ingenuo ideologismo che aveva reso velleitarie e implausibili alcune richieste socialiste al tempo del vecchio centrosinistra, dall’altro serve a preservare il partito dalle delusioni da riforma mancata che tanto avevano frustrato i quadri e la base del PSI negli anni Sessanta e Settanta, alimentando l’idea di un sostanziale fallimento dell’esperienza di collaborazione con la DC.

Era stata proprio la presa d’atto di quel fallimento, testimoniato dai risultati elettorali, a ingenerare nelle file socialiste la sensazione di un declino irreversibile, di un destino di sostanziale irrilevanza, e a determinare, a fine 1975, la decisione di De Martino di mettere la parola fine all’esperienza del primo centrosinistra. Ma allora su quali fondamenti Craxi poteva, nemmeno cinque anni dopo, poggiare il suo disegno volto a capovolgere quell’immagine (e a rovesciare quei risultati)? Su quali basi poteva pensare di riprendere l’ambizioso, e sfortunato, progetto che era stato di Nenni, di far crescere il PSI dentro la formula del governo di coalizione con la DC e i partiti laici, e grazie ai risultati raggiunti attraverso questa formula? Fra il 1976 e il 1979 c’è stata, è vero, una netta soluzione di continuità nei programmi, nelle formule, nello stile politico e nelle stesse persone: Craxi non è De Martino; e la stessa squadra dei ministri con cui il PSI fa il suo reingresso nell’esecutivo, e che subirà poche variazioni negli anni successivi, è diversa da quella degli anni Sessanta e Settanta (al posto dei Mancini, ieraccini, Mariotti, Corona ci sono i coetanei di Craxi, come Capria, Balzamo, Manca, poi Signorile; i più anziani, come Formica, Lagorio, Aniasi sono comunque, all’epoca, fedelissimi del segretario). Ma gli equilibri elettorali restano sostanzialmente invariati. O meglio, sono cambiati per quanto riguarda il rapporto col PCI (che alle elezioni del 1979 ha subito un calo di quattro punti); mentre il PSI, con il suo misero incremento di due decimi di punto percentuale, arriva a poco più di un quarto dei voti della DC. I rapporti di forza miglioreranno significativamente solo nel 1983 (da uno a quattro si passerà a circa uno a tre): ma ancora una volta a determinare il miglioramento non sarà, se non in piccola parte, la crescita dei socialisti.

Che cosa è cambiato allora, oltre agli uomini, visto che i rapporti di forza sono sempre quelli e il disegno strategico, come si è appena detto, è in sostanza lo stesso rispetto ai tempi del primo centrosinistra? È cambiata l’impostazione di fondo. Ed è cambiato l’approccio al problema dell’«anomalia socialista». È cambiato il modo di considerare la posizione del PSI nel sistema politico italiano e di valutarne la forza contrattuale. Quel 10% (o undici o dodici, poco importa) non viene più considerato, in termini assoluti, come testimonianza di inferiorità e dunque condanna alla subalternità, ma ponderato in termini sistemici, valutato come risorsa strategica, come base da cui partire per far fruttare al meglio il proprio peso determinante. «Col 10% – dirà appunto Craxi – si possono fare grandi cose».5 Per ricorrere a un gioco di parole, possiamo dire che Craxi opera un rovesciamento semantico della «marginalità» socialista: la posizione del PSI non è più marginale nel senso generico del termine (ossia secondaria, poco rilevante), ma lo è nel senso della teoria economica (cioè decisiva, a prescindere dalla quantità considerata). Grazie a questa consapevolezza e a questa determinazione, il PSI potrà dare al governo la sua impronta (come prima non era riuscito a fare, sia perché affetto da complessi di inferiorità, sia perché impacciato da remore di natura ideologica). E, in prospettiva, raccogliere i dividendi politici dei suoi immancabili successi. «I socialisti – aveva affermato Craxi nel comitato centrale del 16 gennaio 1980 – non accetteranno di assolvere a un ruolo subalterno di governo, ove questo gli venisse proposto. Non ritorneranno perciò a formule e modi di azione del passato. Una base di parità è la base per una seria ricerca di impostazione politico-programmatica».6 Anche il dato brutale dello sfavorevole rapporto di forza con la DC può essere aggirato attribuendo alla leadership socialista una rappresentanza dell’intero fronte dei partiti di democrazia laica (rappresentanza che peraltro Craxi non riuscirà mai a ottenere).

Nei tempi brevi, comunque, la formula non è affatto avara di risultati. Il risultato più importante, è persino superfluo sottolinearlo, sta nella conquista della presidenza del Consiglio, nell’agosto 1983, all’indomani delle elezioni in cui il PSI ha raggiunto l’11,4% (più 1,6% rispetto al 1979) e la DC è scesa al 32,9% (meno 5,4%). Da allora cresce, in parallelo all’identificazione del partito col suo leader, l’associazione sempre più stretta fra il leader e l’istituzione-governo (e di quest’ultima col sistema-Italia, ossia con l’intero paese).7 Ed è in questo il punto debole dell’intera operazione e una delle ragioni del suo insuccesso finale. Per motivare meglio questa affermazione è necessario ricordare che, affinché l’azione di un governo si traduca in vantaggio per la parte politica che lo esprime, devono darsi almeno due condizioni. La prima è che quell’azione sia coronata da successo, produca cioè vantaggi concreti e visibili, tali da riscuotere un certo apprezzamento da parte dell’elettorato. La seconda è che questi successi siano direttamente riconducibili non solo a una leadership individuale (in questo caso si ha un «effetto» alquanto effimero), ma anche ai programmi e all’attività di un partito.

Per quanto riguarda la prima questione (la presidenza Craxi fu un successo in termini di risultati raggiunti?), la discussione è naturalmente aperta. Senza entrare in una disamina dettagliata dei singoli atti di governo e dei singoli episodi-chiave (dal nuovo concordato, al decreto sulla scala mobile, a Sigonella), penso si possa oggi dire che negli anni 1983-87 il tasso di efficienza e di solidità dell’esecutivo fu nel complesso abbastanza elevato (almeno rispetto alla media dell’Italia repubblicana). Il governo Craxi si giovò indubbiamente della congiuntura economica positiva e in qualche misura vi contribuì, almeno sul terreno della lotta all’inflazione. Anche se non fece abbastanza per avviare il risanamento della finanza pubblica (ma questa carenza, oggi riconosciuta dai più, non incise negativamente sulla sua base di consenso: al contrario, servì a conservarla). Vi fu un certo rafforzamento dell’esecutivo, in tempi in cui la cultura dominante della sinistra era lontana dall’apprezzare questa novità, e il funzionamento dell’apparato di governo indubbiamente se ne giovò. L’immagine dell’Italia nel mondo fu promossa in forme diverse, a volte velleitarie, ma spesso efficaci. E furono avviate iniziative per il rilancio dei valori patriottici e dell’identità nazionale che sarebbero state riprese in anni recenti, riscuotendo larghi consensi bipartisan.

Tutto questo, però, si riflette solo in misura molto limitata sulle fortune elettorali del Partito socialista. Il trend è positivo (dal 9,8% del 1979 al 14,3% del 1987, miglior risultato dopo quello del 1946), ma i ritmi di incremento sono assai blandi: tanto da far somigliare l’«onda lunga socialista» a un bradisismo più che a un terremoto e da rinviare a un futuro imprecisato l’obiettivo del capovolgimento dei rapporti di forza con un PCI pure in difficoltà. Non c’è, quindi, lo sfondamento, e soprattutto non c’è nell’elettorato e nell’opinione pubblica di sinistra, dove l’opera e la figura stessa di Craxi incontrano ostilità diffuse e suscitano vere e proprie reazioni di rigetto.

Si è liberi di stabilire quanto in questo mancato successo fosse da attribuire agli errori di Craxi, e ai limiti del «nuovo corso» socialista, agli innegabili fenomeni di malcostume legati al finanziamento del partito. E quanto invece al fuoco di sbarramento anche mediatico messo in atto contro Craxi sia da un PCI che copriva in tal modo un suo preoccupante stallo strategico sia, e in misura maggiore, da quelle componenti della sinistra non comunista e della stessa DC che da tempo avevano scommesso sul Partito comunista come principale agente della trasformazione politica e morale del paese.8 Comunque la si pensi, non si può trascurare il fatto che in democrazia l’unico vero misuratore del successo sono i voti; e in una democrazia dei partiti, anche se ormai percorsa da fenomeni di personalizzazione della leadership, contano i voti di lista, ossia quelli raccolti dai partiti in quanto tali. E in questo periodo il PSI, partito d’apparato trasformatosi in partito d’opinione secondo la definizione di Giuliano Amato,9 funziona assai male come collettore di voti. In altri termini, il carisma del leader, nella misura in cui opera, non si trasferisce sul partito, non comunque nella dimensione necessaria a realizzare – o solo ad avvicinare significativamente – l’obiettivo del riequilibrio all’interno di una sinistra potenzialmente vincente.

Ma c’è un altro motivo che rende poco plausibile il tentativo craxiano di trarre profitto politico, per sé e per il suo partito, dalla stretta identificazione con l’esperienza di governo. Ed è un motivo quanto mai banale. Per quanto fortemente segnato dalla personalità del presidente del Consiglio, il governo Craxi è pur sempre un governo di coalizione in cui la quota di maggioranza è detenuta dalla DC (e quote importanti spettano ai partiti minori). I ministri degli esteri e degli interni di Craxi sono due democristiani del calibro di Andreotti e Scalfaro. Il ministro delle finanze è il repubblicano Bruno Visentini che, sebbene collabori lealmente col presidente del Consiglio, non può certo definirsi omogeneo al suo progetto (è al contrario un punto di riferimento dello schieramento «trasversale» a lui avverso). Per quanto si sforzi, qualche volta con successo, di rivendicare a sé il ruolo del protagonista e per quanto si impegni nel lungo braccio di ferro con De Mita (culminato nella tragicommedia della «staffetta»), Craxi non può illudersi di cancellare questo dato. Potrebbe rovesciare la situazione solo con un travolgente successo elettorale, che però non arriva a causa del mancato sfondamento a sinistra, conseguenza a sua volta (come già era accaduto col primo centrosinistra) di una insufficiente caratterizzazione socialista, o semplicemente riformista, dell’esecutivo.

Per uscire da questo circolo vizioso, Craxi avrebbe in teoria a disposizione una sola via: scommettere su una riforma del sistema politico che, imponendo il bipolarismo e l’alternanza, faccia di lui il leader naturale dello schieramento di sinistra e designi il PSI come partito-cardine di quello schieramento (accrescendone automaticamente i consensi, secondo il modello mitterrandiano). Questa ipotesi, però, non arriva mai a concretizzarsi, nemmeno nella forma di un progetto di massima. Nessuna sponda viene offerta dal PCI, fermo al gran rifiuto opposto da Berlinguer nella primavera 1981 all’idea di un appoggio alla presidenza Craxi10 e per nulla disposto, dopo anni di durissima polemica, a barattare l’apertura dei cancelli della legittimazione (e del potere) con l’accettazione di un ruolo fatalmente subalterno. Ma a non dare il minimo credito a questa opzione è prima di tutti proprio il segretario del PSI. Craxi è a tutti gli effetti, per esperienza vissuta e per formazione culturale, un uomo della prima Repubblica. Di sicuro non è il Mussolini del 1922-24 che, trovandosi in una situazione per certi aspetti simile (con in più il vantaggio di controllare i ministeri-chiave), si inventa la legge Acerbo nel suo esclusivo interesse, grazie alla cecità dei suoi fiancheggiatori. Per Craxi una legge basata sul premio di coalizione (come quella che De Mita gli propone, nel chiaro intento di limitarne la libertà di manovra) è comunque una «legge truffa», come nel 1953. La «grande riforma» a cui lui pensa si riduce a un ulteriore rafforzamento dell’esecutivo, con qualche sconfinamento, mai pienamente esplicitato e precisato, nell’ipotesi presidenzialista, che dovrebbe però sovrapporsi al regime elettorale vigente (il sospetto è che, proponendo l’investitura diretta del capo dello Stato, Craxi pensi più che altro a un meccanismo che gli consenta di contare e a far pesare i suoi voti, aggirando il problema della debolezza elettorale del PSI). Nulla, quindi, che ecceda le coordinate della Repubblica dei partiti e che ne metta a rischio le logiche fondanti.

Scegliendo di non avventurarsi in terreni sconosciuti, Craxi è costretto ad affidarsi da un lato alla sua personale capacità di manovra politica (che però comincia a mostrare segni di appannamento), dall’altro ai tempi lunghi del lento progredire elettorale del PSI (cui ora sembra far riscontro un più rapido declino dei comunisti). Ma soprattutto finisce, forse al di là delle sue intenzioni, con l’identificare sé e il suo partito non solo e non tanto con l’istituzione-governo, di cui dal 1987 ha dovuto cedere la guida, ma col sistema politico nel suo complesso. Da qui l’alleanza con Andreotti e Forlani, anch’essa in parte dettata da uno stato di necessità (la maggioranza democristiana è l’unica sponda su cui possa contare), ma certo poco funzionale all’immagine del PSI come partito delle riforme e del mutamento politico. Da qui la feroce opposizione al movimento referendario, che avverte come una minaccia al sistema cui si sente legato e al suo stesso modo di far politica. E da qui il fatale errore del 1991, col celebre e disatteso invito agli elettori a recarsi al mare.

Ciò che a Craxi sfugge è quello che noi chiamiamo, col senno di poi naturalmente, il declino della prima Repubblica: ossia la crescente impopolarità del governo (costretto, diversamente da quanto era accaduto negli anni Ottanta, a mettere in atto politiche restrittive per porre rimedio al disastro della finanza pubblica), cui si accompagna – e anche questa è una novità rispetto agli anni precedenti – una critica diffusa nei confronti dei partiti e dell’intero sistema politico, percepito sin allora come una sorta di sfondo immutabile.

«La governabilità – ha scritto Alberto Benzoni in un libretto apparso pochi mesi prima della catastrofe finale – tendeva così a diventare, da punto di forza, elemento negativo, nella strategia del partito. Il PSI si trovava infatti incardinato, e senza un apparente disegno, in un sistema di governo a guida DC dalla scarsa efficacia e credibilità; e questo proprio quando continuava a salire nel paese, e nelle forme più varie, l’onda della contestazione verso la politica politicante e il potere».11

Dunque l’identificazione col governo e col sistema politico non solo cessa di rappresentare un vantaggio (ammesso che mai lo sia stato davvero), ma si trasforma in un forte limite, in una tara forse di per sé non letale (se è vero che nel terremoto elettorale dell’aprile 1992 il PSI è fra i vecchi partiti quello che tiene meglio), ma pur sempre capace di infliggere un duro colpo al disegno craxiano. I sette decimi di punto percentuale persi dai socialisti sono poca cosa rispetto ai crolli subiti dalla DC e soprattutto dal PDS, ma bastano a infrangere il sogno dell’«onda lunga», su cui si fondava l’ambizioso progetto del segretario. Progetto che appare sostanzialmente compromesso già prima che cominci il lungo calvario giudiziario avviato dall’inchiesta «Mani pulite».

Si è detto che l’esperienza socialista di governo si conclude all’inizio del 1994. In realtà la conclusione vera si potrebbe anticipare alla primavera-estate del 1992, trovandosi i governi Amato e Ciampi (anche il primo, che pure è guidato da un socialista) nella condizione di dover operare più come governi tecnici di emergenza che come governi politici quali in teoria sono, di dover far fronte a una situazione del tutto eccezionale che richiede interventi in larga parte obbligati. Questa situazione emergenziale, che implica qualcosa di simile a una sospensione della politica (cui si crede di poter sopperire sia con la competenza tecnica sia con l’empito moralizzatore) ha naturalmente molte cause, non solo di natura interna, e molti responsabili. Ma credo si possa dire che una parte di responsabilità va attribuita a chi, come Craxi e i socialisti, nelle risorse della politica aveva troppo confidato, spesso prescindendo dai dati reali: sia quelli della finanza pubblica, sia quelli relativi ai risultati elettorali, ai movimenti di opinione pubblica che li determinano e ai rapporti di forza in parlamento che ne derivano. Dati che, in democrazia, il politico di talento può cercare di aggirare o di forzare entro certi limiti, ma non può permettersi di sottovalutare.

 

 

Nota

* Pubblichiamo in questa sezione alcuni dei contributi presentati al convegno «Riformismo socialista e Italia repubblicana. Storia e politica», che la Fondazione Italianieuropei ha promosso lo scorso anno. I materiali completi saranno pubblicati nelle prime settimane del 2005 dall’editore M&B Publishing.

Bibliografia

1 Su questo punto rinvio a quanto detto in G. Sabbatucci, I socialisti e la solidarietà nazionale, in A.Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Rubettino, Soveria Mannelli 2003. È interessante citare una dichiarazione rilasciata da un uomo vicino a Craxi come Lelio Lagorio e riportata dall’«Avanti!» del 25 marzo 1980, quando Cossiga stava svolgendo le consultazioni per la formazione del suo secondo governo ed era imminente l’ingresso dei socialisti nel governo: «è importante – affermava Lagorio – che la nuova maggioranza si muova sul piano della solidarietà nazionale [corsivo mio]. Il PSI, in altre parole, è il partito che con più risolutezza di tutti rifiuta una soluzioneche spinga le sinistre italiane su una drammatica rotta di collisione e mortifichi in seno alla DC le idee di Moro sul “terzo tempo”». La formula del «governo d’emergenza» ricorre del resto assai spesso nella stampa socialista in questo periodo. Si veda l’articolo di Nicola Capria sull’«Avanti!» del 26 gennaio 1980, dove però ci si preoccupa di distinguere l’emergenza dal compromesso storico.

2 Quello della stabilità dell’esecutivo, come bene in sé da perseguire prioritariamente, è in questo periodo, e anche negli anni successivi, il tema forse più presente nelle dichiarazioni e nei commenti degli esponenti socialisti. Cfr. ad esempio U. Intini, L’ingovernabilità e la paralisi non sono mali incurabili, in «Avanti!», 6-7 aprile 1980.

3 In realtà la denominazione di riformista fu assunta dalla corrente craxiana, ormai largamente maggioritaria, solo un anno dopo, in occasione di un’assemblea preparatoria del XLII congresso del PSI (Cfr. «Avanti!», 20 febbraio 1981).

4 Di un atteggiamento «più pragmatico e meno ideologizzato» parlerà Ugo Intini in un editoriale pubblicato all’indomani della formazione del governo Craxi (Cfr. Intini, Il segno di una svolta, in «Avanti!», 5 agosto 1983).

5 L’affermazione è attribuita a Craxi in un articolo di Luciano Cafagna, L’esame di Stato del guerrigliero, apparso su «Pagina» nel maggio 1984. Ma su tutta la questione si veda, sempre di Cafagna, Una strana disfatta. La parabola dell’autonomismo socialista, Marsilio, Venezia 1996, in particolare l’ultimo capitolo (pp. 117-151).

6 Cfr. in «Avanti!», 16 gennaio 1980.

7 Questo era il significato della formula «pensare Paese» ideata da Craxi e rilanciata da Martelli in un articolo sull’«Avanti!» del 5 agosto 1983.

8 Per una interpretazione che fa centro proprio sull’ostilità dei «poteri forti» e della magistratura organizzata, si veda A. Gismondi, La lunga strada per Hammamet. Craxi e i poteri forti, Bietti, Milano 2000. Una lettura del tutto opposta è quella fornita alcuni anni prima da Elio Veltri, Da Craxi a Craxi, Laterza, Roma-Bari 1993. Sulla questione del finanziamento illecito, degli scandali che ne derivarono e della connessa «questione morale», le considerazioni più acute e pacate sono quelle di Cafagna, Una strana disfatta cit., pp. 137-146. Ma di Cafagna si veda anche La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993.

9 Le due anime del PSI, in «MondOperaio», 2/1980.

10 Si veda in proposito R. Gualtieri, L’ultimo decennio del PCI, in P. Borioni (a cura di), Revisionismo socialista, Carocci, Roma 2001, pp. 175-206; P. Craveri, L’ultimo Berlinguer e la «questione socialista», in «Ventunesimo secolo», marzo 2002, pp. 143-192; F. Barbagallo, Il PCI dal sequestro Moro alla morte di Berlinguer, in «Studi storici», ottobre-dicembre 2001, pp. 837-883.

11 A. Benzoni, Il craxismo, Edizioni Associate, Roma 1991, p. 102. In conclusione del suo libretto, Benzoni si augurava ancora che, dovendo decidere se «aprire una nuova fase politica con le sue grandi promesse, ma anche col suo grande margine di incertezza» o «continuare a sperare di governare, con mutamenti impercettibili, lo stato di cose esistente», Craxi scegliesse il primo corno dell’alternativa.