Oltre i fallimenti di Bush. Una nuova architettura transatlantica

Di Ronald D. Asmus Martedì 01 Giugno 2004 02:00 Stampa

In quasi tutta la seconda metà del Ventesimo secolo per l’Europa non è stato di importanza fondamentale quale fosse il partito politico che occupava la Casa Bianca. Quella dei rapporti con l’Europa è stata sempre un’area di politica estera caratterizzata da un atteggiamento bipartisan. Oggi non è più così. Il futuro delle relazioni transatlantiche e della politica statunitense nei confronti dell’Europa dipende in notevole misura da chi si insedierà alla Casa Bianca a gennaio.

 

In quasi tutta la seconda metà del Ventesimo secolo per l’Europa non è stato di importanza fondamentale quale fosse il partito politico che occupava la Casa Bianca. Quella dei rapporti con l’Europa è stata sempre un’area di politica estera caratterizzata da un atteggiamento bipartisan. Oggi non è più così. Il futuro delle relazioni transatlantiche e della politica statunitense nei confronti dell’Europa dipende in notevole misura da chi si insedierà alla Casa Bianca a gennaio.

Se il prossimo presidente degli Stati Uniti, com’è molto probabile, sarà John Kerry, il rilancio delle relazioni transatlantiche diventerà una delle grandi priorità della politica estera della futura Amministrazione. Questo non significa che tutti i problemi e le divergenze tra le due sponde dell’Atlantico svaniranno all’improvviso o automaticamente. Sarà tuttavia possibile chiudere un capitolo di forti divisioni nelle relazioni euroamericane e cominciare a rilanciare uno dei rapporti più critici del mondo in un momento in cui, sulle due sponde dell’Atlantico, continuano ad aumentare le sfide. A mio avviso, è il momento di pensare al modo migliore di procedere. Le osservazioni che seguono devono essere considerate come un primo tentativo di tracciare la strategia che i democratici intendono perseguire se il prossimo gennaio si insedieranno alla Casa Bianca.

La gestione delle relazioni transatlantiche è stata uno dei fallimenti più clamorosi della politica estera dell’Amministrazione Bush. Anche se i rapporti euro-americani avevano in passato vissuto gravi crisi, con presidenti repubblicani e democratici, l’attuale turbolenza che attraversa l’Atlantico ha una portata e un’intensità del tutto nuove. Gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti hanno suscitato un’ondata di solidarietà senza precedenti in tutto il continente europeo, rafforzando il sostegno alla definizione di un approccio transatlantico comune al terrorismo. Al contrario, la politica del presidente Bush ha alienato i nostri alleati più stretti e ha minano la credibilità e la  posizione dell’America sul continente.

Tuttavia, i problemi da affrontare nelle relazioni transatlantiche non possono essere attribuiti unicamente a politiche sbagliate o alla sola incompetenza, ma sono anche il risultato della visione del mondo e delle politiche attuate dall’Amministrazione e della deviazione dalle politiche che l’America ha perseguito per anni nei confronti dell’Europa. Oggi più che mai, aumentano le divergenze tra democratici e repubblicani sulle relazioni transatlantiche e sul ruolo che l’Europa dovrebbe assumere nella politica estera americana. Il Partito democratico è rimasto un partito atlantista, con un centro di gravità intellettuale e una vocazione multilateralista, mentre il Partito repubblicano seguiva una direzione diversa.

Alcuni membri di spicco del Partito repubblicano continuano ad essere atlantisti, ma il centro di gravità del pensiero conservatore si è spostato gradualmente in una direzione più unilateralista ed euroscettica. Negli Stati Uniti, sia Bush che un numero sempre più elevato di analisti conservatori hanno fatto propria una politica estera che sottolinea l’esigenza dell’America di poter agire da sola, hanno svalutato l’Europa come partner e spingono gli ex alleati ai margini della politica estera statunitense.

Prima di considerare nel dettaglio le divergenze tra democratici e repubblicani, è necessario fare un passo indietro e discutere delle convergenze. I grandi dibattiti attualmente in corso a Washington sulla politica estera non mettono in discussione la minaccia da affrontare. Noi tutti siamo consapevoli di vivere in un’epoca nuova e molto pericolosa che pone l’America, e più in generale l’Occidente, in una posizione di vulnerabilità. All’inizio del Ventunesimo secolo, abbiamo aperto gli occhi a un nuovo tipo di minaccia, che ha origini diverse ma conseguenze potenzialmente non meno pericolose delle sfide totalitarie del secolo scorso. Le attuali divergenze tra i democratici e i repubblicani concernono invece il modo di organizzarsi per rispondere alle nuove sfide e alle nuove minacce, il diverso peso attribuito alle alleanze e il ruolo specifico da assegnare alle relazioni fra Europa e America.

I repubblicani ritengono che l’Alleanza sia stata un fattore di successo determinante per vincere la guerra fredda e hanno fornito ampio sostegno all’allargamento della NATO come contributo alla costruzione di un nuovo ordine pacifico in Europa. Senza dubbio, il fatto che l’Europa non sia più fonte di gravi preoccupazioni e di problemi sotto il profilo strategico è considerato un aspetto positivo. Tuttavia, molti conservatori non ritengono più che in futuro gli Stati Uniti possano, o debbano, guardare all’Europa come a un partner privilegiato dal punto di vista strategico. E credono piuttosto che gli americani e gli europei si stiano allontanando nelle loro reciproche visioni del mondo, nella concezione del potere e nel modo di affrontare le questioni poste dalla una nuova era in cui viviamo.

Indubbiamente, negli ambienti conservatori il libro più popolare degli ultimi anni sull’Europa è stato «Paradiso e Potere» di Robert Kagan.1 Essenzialmente, Kagan sostiene che la combinazione dell’esperienza integrazionista europea e del crescente divario tra il potenziale militare sulle due sponde dell’Atlantico ha creato un’incompatibilità strategica tra americani ed europei e ha reso la cooperazione sempre più difficile, se non impossibile. Politicamente, il libro è stato utilizzato da molti esponenti dell’Amministrazione Bush per giustificare un approccio unilateralista o ad hoc alle coalizioni. Dopotutto, se gli americani provengono da Marte e gli europei da Venere e la loro visione del mondo è fondamentalmente diversa, una persona sana di mente potrebbe far dipendere la politica estera dalla cooperazione con l’altra parte? L’implicazione è chiara. Un grande sforzo per ricostruire l’Alleanza ha scarse probabilità di successo, e forse non vale neanche un tentativo.

Non è un caso che il libro di Kagan sia molto meno popolare negli ambienti democratici, dove non troverete neanche le battute eurofobiche che circolano tra i conservatori. In fondo, per gran parte degli anni Novanta, i democratici hanno cercato di fare esattamente quello che, secondo i conservatori, oggi non è più possibile: costruire un nuovo partenariato strategico transatlantico post-guerra fredda adeguato alle nuove sfide e minacce. Una premessa fondamentale della politica dell’Amministrazione Clinton nei confronti dell’Europa era l’esigenza di trasformare l’Alleanza perché fosse in grado di affrontare i problemi del XXI secolo, come aveva già fatto nel XX. Negli ambienti democratici, gran parte degli analisti di politica estera rifiuterebbe la tesi di Kagan e tutte le implicazioni politiche che ne derivano. Questa diversità di analisi aumenta anche l’impegno e l’ottimismo sulla capacità di rilanciare i nostri rapporti.

Infatti, il rilancio delle relazioni transatlantiche è cruciale per la futura politica estera dei democratici per quattro motivi.

Primo, i democratici credono in un multilateralismo progressivo e vigoroso in grado di proteggere efficacemente le nostre società e promuovere i nostri valori all’estero. Questa visione può essere realizzata soltanto con una forte base transatlantica. Generalmente, i democratici non considerano il potere o l’egemonia dell’America come fine a se stessi, ritengono invece che la forza sia un mezzo per difendere l’America e promuovere un ordine mondiale nel quale i principi e i valori liberali possano prosperare. Il potere e la credibilità dell’America derivano dai principi che sosteniamo e non dal nostro potere innato. Riteniamo che l’America e l’Europa siano alleati e partner naturali nella realizzazione di un tale mondo, poiché ne condividono principi e valori.

Secondo, oltre a questo impegno filosofico per le relazioni transatlantiche, i democratici considerano l’Europa un alleato fondamentale per gli Stati Uniti in un senso molto pratico. L’Europa è la più grande fonte potenziale di assistenza finanziaria e di manodopera militare del mondo e ha un potere di voto determinante in molte istituzioni multilaterali.

Per questo vediamo nei rapporti transatlantici un moltiplicatore di forze, non una costrizione. Anche se gli Stati Uniti si riservano indubbiamente la facoltà di agire da soli, un tale approccio implica limiti e rischi molto reali, come oggi vediamo con grande chiarezza in Iraq.

Terzo, i democratici restano fedeli alle relazioni transatlantiche anche per validi motivi di politica interna. I sondaggi d’opinione dimostrano che gli americani desiderano assumere un ruolo internazionale attivo, soprattutto dopo l’11 settembre, ma dimostrano anche che l’opinione pubblica americana non è unilateralista e non vuole agire da sola. Vuole un’efficace politica estera multilateralista e guarda all’Europa come al nostro alleato e partner naturale. Gli sforzi compiuti dall’Amministrazione Bush per mettere l’accento sulla «coalizione» in Iraq, nonostante i contributi piuttosto modesti dei suoi membri, evidenziano un’esigenza politica molto reale: non dare l’impressione di voler agire unilateralmente.

Quarto, per i democratici la collaborazione con l’Europa, e attraverso alleanze transatlantiche democratiche, conferisce una forma unica di legittimazione politica e morale. Gli Stati Uniti, il Canada e l’Europa sono le più grandi democrazie occidentali e la cooperazione reciproca può fornire agli USA il tipo di legittimazione morale necessaria – all’interno e all’estero – per realizzare i suoi obiettivi globali. I presidenti democratici Franklin D. Roosevelt e Harry Truman hanno creato «l’arsenale della democrazia», le Nazioni Unite e l’Alleanza atlantica, in un momento in cui il divario di potere tra USA e Europa era molto più grande rispetto a oggi. Per questi motivi, i progressisti attribuiscono al rilancio delle relazioni transatlantiche un’alta priorità di politica estera.

In sintesi, i democratici rifiutano la logica intellettuale e politica che ha spinto molti esponenti della destra a svalutare o ad abbandonare le relazioni transatlantiche. Non v’è dubbio che a volte siano critici nei confronti dell’Europa, ma ritengono che la recente crisi sulle due sponde dell’Atlantico sia da attribuire in larga parte a una politica erronea e a una diplomazia anche peggiore, e non all’emergere repentino di culture strategiche palesemente incompatibili nelle grandi democrazie occidentali. I democratici hanno dedicato gran parte degli anni Novanta a costruire una partnership strategica transatlantica post-guerra fredda che fosse in grado di affrontare le sfide e le minacce di una nuova Europa e di una nuova era.

Una premessa fondamentale della politica dell’Amministrazione Clinton nei confronti dell’Europa è stata l’esigenza di trasformare e riorientare l’Alleanza, per adeguarla a un mondo sempre più interdipendente e globalizzato. I democratici ritengono che la lezione da trarre dall’11 settembre non sia l’esigenza di massimizzare il potere e la libertà di azione dell’America, ma di mobilitare i nostri alleati e i paesi che ci sostengono. Intendiamo potenziare i successi degli anni Novanta, non vogliamo gettarli via. La nostra visione è quella di un’America in grado di difendersi meglio reinventando le nostre alleanze invece di buttarle a mare. Se gli Stati Uniti non possono cooperare efficacemente con i loro alleati più stretti in Europa, con chi possono cooperare?

 

Un progetto per il rilancio delle relazioni transatlantiche

Il progetto dei democratici per il rilancio delle relazioni transatlantiche deve poggiare su quattro pilastri.

 

Creare un nuovo obiettivo e un nuovo paradigma strategico comune.

La prima e più importante fase della ricostruzione delle relazioni transatlantiche consiste nel ristabilire un senso di finalità strategica comune. Le relazioni transatlantiche hanno funzionato durante la guerra fredda perché le due parti condividevano l’obiettivo della dissuasione e della sconfitta finale dell’Unione Sovietica. Hanno funzionato negli anni Novanta, quando, dopo l’ostacolo iniziale dei Balcani, gli Stati Uniti e l’Europa si sono coalizzati attorno al progetto di costruire su tutto il territorio europeo un nuovo ordine fondato sulla libertà e sulla pace. È stato necessario intervenire nei Balcani per porre fine alle pulizie etniche. È stato necessario aprire le porte della NATO e dell’Unione europea per contribuire ad ancorare e integrare l’Europa centro-orientale e per costruire un nuovo rapporto con la Russia al fine di trasformare il nostro antico avversario in un nuovo partner.

Le attuali difficoltà transatlantiche non sono dovute a un divario di potere, ma a una divergenza nell’obiettivo strategico comune che i progressisti sulle due sponde dell’Atlantico devono sanare. Una nuova agenda strategica comune in grado di unire nuovamente gli Stati Uniti e l’Europa si articola in due parti. La prima è incentrata sulle sfide interne al continente e all’Europa allargata; la seconda sulle questioni che vanno al di là del continente, soprattutto sul Medio Oriente, dove le minacce per la nostra sicurezza comune sono più gravi e la cooperazione tra Stati Uniti ed Europa è essenziale.

All’interno dell’Europa, al primo punto dell’agenda dovrebbe esserci la Russia. La politica occidentale delineata dieci anni fa, e basata sulla convinzione di una democratizzazione graduale e di un ancoraggio della Russia all’Occidente, deve essere rivista alla luce dell’attuale tendenza del paese all’autoritarismo interno e a politiche connotate da una linea dura nella sfera internazionale. La situazione nei Balcani sta sfuggendo di mano e le recenti violenze nel Kossovo evidenziano quanto resti fragile la stabilità dell’area. I negoziati definitivi sullo status del Kossovo si svolgeranno durante la prossima Amministrazione e porteranno nuovamente i Balcani al centro dell’agenda euro-americana. Dopo il successo dell’integrazione dell’Europa centro-orientale, la NATO e l’UE devono definire una nuova strategia che contribuisca a estendere la democrazia e la stabilità ai nuovi confini dell’Europa – l’Ucraina e la grande regione del Mar Nero – e ad affrontare l’ultimo regime totalitario europeo in Bielorussia. Infine, ma non meno importante, resta il compito di completare la piena integrazione della Turchia nell’Occidente.

Oggi, tuttavia, le maggiori sfide poste alla sicurezza sulle due sponde dell’Atlantico sono esterne al continente. Gli Stati Uniti e l’Europa devono affrontare l’emergere di minacce nuove, potenzialmente catastrofiche, che emanano dalle connessioni tra le ideologie totalitarie del fondamentalismo islamico, il terrorismo e le armi di distruzione di massa. Dobbiamo potenziare la nostra cooperazione sulla sicurezza nazionale. Le divergenze che sono sorte sull’Iraq non cambiano il fatto che il successo o il fallimento sul territorio iracheno – e in Afghanistan – influiranno sulla sicurezza dei nostri due continenti. Gli sforzi per impedire all’Iran di dotarsi di armamenti nucleari sono in una fase critica. Il coordinamento tra Stati Uniti ed Europa è essenziale per far progredire, e rendere duraturo, il processo di pace israelo-palestinese. Dobbiamo sviluppare una strategia che contribuisca a promuovere la trasformazione e la democratizzazione della regione per affrontare alla radice le cause del terrorismo. Gli Stati Uniti e l’Europa devono risolvere numerose questioni, ed è pertanto necessario un forte impegno politico congiunto

 

Ripensare l’integrazione europea.

È tempo che i democratici assumano un ruolo guida nel ripensare la politica americana sull’integrazione europea. Uno dei cambiamenti più significativi della politica statunitense nei confronti dell’Europa, appoggiato da alcuni conservatori, è stato la riduzione del sostegno statunitense all’integrazione europea – con la motivazione che un’Unione europea forte potrebbe trasformarsi in un rivale geopolitico degli Stati Uniti. Una tale ostilità corre il rischio di minare l’unità stessa che dovremmo incoraggiare in Europa. L’unico risultato dell’unilateralismo della presente Amministrazione è stato di generare gli impulsi analoghi tra gli europei, aumentare il risentimento verso Washington e fornire argomentazioni a chi sostiene l’impossibilità di cooperare con gli Stati Uniti. Anche gli alleati che hanno sostenuto pubblicamente gli Stati Uniti in Iraq hanno lanciato un monito in privato. Hanno affermato che Washington commette un errore se pensa di potersi permettere ripetutamente la rottura con paesi come la Francia e la Germania e ci hanno invitato a rilanciare le nostre relazioni con le grandi potenze del continente il più rapidamente possibile.

I democratici non devono soltanto prendere chiaramente le distanze dai discorsi inconcludenti dell’Amministrazione su una «disaggregazione» dell’Europa, ma devono soprattutto offrire un chiaro sostegno al progetto europeo, con le parole e con i fatti. Poche azioni sarebbero politicamente più incisive del chiaro riconoscimento dell’alta priorità del successo dell’Europa da parte dell’America. La realizzazione di gran parte degli obiettivi che i progressisti vogliono raggiungere oggi richiede un’Europa più forte, più efficace e aperta verso l’esterno che sia in grado di assumersi oneri aggiuntivi nel continente e fuori del continente. Sotto il profilo strategico, l’America ha quindi interesse ad aiutare l’Unione europea a consolidare la propria integrazione per poter svolgere il suo ruolo.

Il modo migliore per assicurare che la UE si evolva in un partner che guarda all’esterno, aperto alla collaborazione con gli Stati Uniti, è quello di aderire al suo progetto e aiutarla a realizzarlo. Pertanto, i progressisti americani dovrebbero sostenere l’Unione europea in modo chiaro e inequivocabile. La strategia dei democratici dovrebbe andare oltre il tipo di sostegno qualificato offerto dalle Amministrazioni precedenti e fare proprio quello che potrebbe essere definito un «approccio kennedyano». Il presidente Kennedy è stato probabilmente il leader americano del Ventesimo secolo che ha sostenuto con maggiore entusiasmo l’integrazione europea e ha incoraggiato l’emergere di un’Europa unita come partner strategico. I democratici devono ritornare a quella filosofia e applicarla oggi. Questo approccio non aiuterebbe soltanto a voltare pagina nei nostri rapporti complessivi, ma sarebbe anche il modo migliore per massimizzare le possibilità che l’Unione europea divenga il partner forte e pro-atlantista che cerchiamo: un partner interessato a una stretta cooperazione con l’America.

 

Migliorare le relazioni transatlantiche.

Un approccio nuovo e più positivo dei democratici all’integrazione europea dovrebbe andare di pari passo con il miglioramento dei rapporti USA-UE. Oggi, questo rapporto dovrebbe spostarsi al centro del potere decisionale americano nei confronti dell’Europa. Gran parte delle sfide attuali che noi e l’Europa dobbiamo affrontare – e tra queste, i rapporti con la Russia, la protezione del territorio nazionale o la promozione della democrazia in Medio Oriente – non può essere risolta nel quadro di una NATO troppo limitata e focalizzata sulla cooperazione militare per costituire una sede adeguata. In Europa, un numero sempre più elevato di questioni fondamentali di politica estera è adottato a livello dell’Unione europea Quindi, è sicuramente ragionevole che gli Stati Uniti cerchino di costruire relazioni con l’Europa, che riflettano la crescente importanza dei nuovi compiti e l’esigenza di cooperare in nuove aree. L’obiettivo da perseguire dovrebbe essere quello di rendere il rapporto transatlantico fondamentale, stretto ed efficace come è stata la NATO durante la guerra fredda. Ciò non significa abbandonarla o svalutarla. Il rilancio e la ristrutturazione dell’Alleanza sono al centro dell’agenda di politica estera dei progressisti europei fin dai primi anni Novanta. Significherebbe semplicemente riconoscere che i compiti da assolvere sono diversi e richiedono una serie più equilibrata di capacità istituzionali. Di conseguenza, in parallelo al miglioramento dei rapporti USA-UE, dobbiamo sostenere la trasformazione della NATO affinché questa sia dotata di strumenti migliori per affrontare un’agenda nuova, più ampia e diversa, e sia in grado di svolgere un ruolo più significativo in regioni come l’Afghanistan e il Medio Oriente. Dobbiamo costruire un nuovo sistema esteso alle relazioni USA-UE e alla NATO che rafforzi l’integrazione politica, economica e militare.

 

Dialogo e Cooperazione strutturati.

La ricostruzione del dialogo transatlantico non richiede soltanto la definizione di una nuova visione strategica insieme alla creazione e al rafforzamento dei legami istituzionali. Richiede anche uno sforzo concertato per trovare l’accordo su decisioni politiche concrete. Uno degli aspetti più drammatici dell’impostazione delle relazioni euro-americane dell’Amministrazione Bush è stato il quasi totale collasso di un dialogo strategico importante e delle consultazioni necessarie per portare a un accordo. In un momento in cui gli Stati Uniti e l’Europa avrebbero dovuto rafforzare il dialogo, molti dei meccanismi, informali e formali, utilizzati in passato per ridurre le divergenze e concordare azioni politiche efficaci sono stati svalutati o semplicemente abbandonati.

La collaborazione tra Stati Uniti ed Europa per affrontare la sempre più intensa agenda attuale è un’esigenza reale. La strategia dei democratici necessaria per la ricostruzione di questo rapporto dovrebbe richiamarsi a una pagina dal programma dell’Unione europea e replicare su base transatlantica alcuni degli strumenti europei utilizzati per costruire una politica estera comune in Europa. Uno dei meccanismi fondamentali per l’elaborazione di un’agenda comune di politica estera è specificamente il meccanismo che la UE definisce Cooperazione politica europea strutturata, e attraverso il quale i paesi si impegnano a ridurre le divergenze partecipando a consultazioni strutturate per trovare un nuovo terreno comune. Dovremmo creare gli stessi meccanismi per ricostruire il terreno comune sulle due sponde dell’Atlantico.

L’intensificazione delle consultazioni e il dialogo strutturato non possono sempre trascendere le divergenze reali, ma possono essere utili. Oggi dimentichiamo spesso che quando i leader americani e europei decisero di creare l’Alleanza transatlantica alla fine degli anni Quaranta, non erano necessariamente d’accordo su come gestire la grande questione strategica dell’epoca, l’Unione Sovietica di Stalin. Tuttavia, essi condividevano la determinazione di arrivare a una politica comune e riconoscevano l’esigenza di un meccanismo in grado di produrre una strategia comune. Oggi, si può e si deve fare lo stesso.

 

Superare la questione irachena.

Sulla guerra irachena, i democratici si sono divisi. Molti, tra cui l’autore del presente articolo, erano favorevoli all’uso della forza per rovesciare il regime di Saddam Hussein, nonostante George Bush. Eravamo convinti che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa e si prendesse gioco delle Nazioni Unite e della comunità internazionale. Avevamo concluso che le possibilità di una transizione pacifica alla democrazia dall’interno del paese fossero praticamente nulle a causa del regime totalitario di Saddam. Molti altri progressisti erano contrari alla guerra. Ritenevano che l’Occidente disponesse di più tempo per tentare ancora la via di una politica di contenimento o per attuare un regime di ispezioni più approfondito, e che le incertezze legate all’uso della forza e al tentativo di ricostruire l’Iraq fossero superiori ai potenziali vantaggi. Né erano disposti ad agire senza il sostegno della comunità internazionale.

La questione irachena non ha creato divisioni soltanto tra i democratici degli Stati Uniti ma in tutto il centrosinistra europeo, all’interno del quale l’opposizione alla guerra era molto diffusa. È il momento di lasciarci alle spalle il dibattito sull’Iraq. La spaccatura tra le due sponde dell’Atlantico non sarà mai sanata e le relazioni transatlantiche non saranno mai ricostruite se le due parti non supereranno le divisioni causate dalla guerra. Pertanto, i progressisti negli Stati Uniti e in Europa devono creare una base comune che possa contribuire a stabilizzare la situazione in Iraq e colmare il fossato che li divide.

All’inizio degli anni Novanta, le relazioni transatlantiche correvano il rischio di essere distrutte dalla guerra incontrollabile che infuriava nei Balcani. Gli Stati Uniti e l’Europa avevano entrambi un interesse evidente a porre fine alle violenze, ma non riuscivano a concordare la strategia adeguata. In quel caso, i grandi paesi europei inviarono soldati che rischiavano le loro vite, mentre gli Stati Uniti restarono ai margini, offrirono consulenza ma rifiutarono di unirsi all’Europa e di condividere la responsabilità per la gestione delle azioni militari. La svolta sopraggiunse quando l’Alleanza, guidata dagli Stati Uniti e dalla Francia, si rese conto che la situazione minacciava di sfuggire di mano e si reputò necessario trovare il modo di superare le divergenze che l’avevano divisa. Le forze si coalizzarono attorno a un nuovo approccio che ristabilì la condivisione dei rischi e delle responsabilità, e si rivelò efficace per fermare lo spargimento di sangue e rinnovare il senso degli obiettivi condivisi e di una fede comune nella possibilità di collaborare tra le due parti.

Oggi, gli Stati Uniti e l’Europa si trovano a una svolta simile. La guerra in Iraq non è affatto una missione compiuta. L’errata gestione dello sforzo post-bellico di ricostruzione da parte dell’Amministrazione ha lasciato gli americani soli e senza una preparazione adeguata per risolvere la crisi, con gravi implicazioni per gli iracheni, per gli americani e per gli europei. Oggi più che mai, l’America ha bisogno dell’aiuto dei suoi alleati, ed è invece praticamente sola. I principali alleati rifiutano di fornire questo aiuto a causa della grande amarezza provocata dalla spaccatura con gli Stati Uniti, delle incertezze della strategia di stabilizzazione perseguita e dei loro dubbi sulla volontà dell’attuale Amministrazione di dare loro una voce in capitolo e un ruolo significativo nell’elaborazione delle politiche.

In Iraq, gli Stati Uniti possono avere ancora successo e rispettare il loro impegno nei confronti del popolo iracheno, ma avranno bisogno di aiuto. Nonostante le loro profonde divergenze sulla guerra, adesso gli Stati Uniti e l’Europa condividono l’interesse per un esito positivo sul teatro iracheno. I progressisti ritengono che, per uscire dall’attuale crisi, sia necessario concordare un piano realistico per stabilizzare le condizioni di sicurezza nel paese, insediare un governo iracheno legittimo e sovrano appena possibile ed essere disposti ad ampliare e internazionalizzare ulteriormente la coalizione per aiutare gli iracheni a trasformare il loro paese in uno Stato democratico e sovrano, a condizione che il popolo e il governo iracheno desiderino questo aiuto. Come la Bosnia, l’Iraq può, e deve, trasformarsi da fallimento a successo dell’Alleanza transatlantica.

L’elezione di John Kerry a presidente degli Stati Uniti chiuderebbe uno dei capitoli più controversi e distruttivi dei rapporti euro-americani degli ultimi cinquanta anni. Sarebbe accolta con un sospiro di sollievo collettivo, se non con entusiasmo, in tutto il continente. Getterebbe le basi di un nuovo sforzo per conciliare le due sponde dell’Atlantico e riavviare le relazioni euro-americane.

L’elezione di John Kerry porterebbe inoltre al potere un atlantista e un partito la cui vocazione multilaterale è molto più vicina a quella degli europei. L’elezione di John Kerry non porterebbe a un accordo immediato né eliminerebbe del tutto le divergenze tra le due sponde dell’Atlantico. Discuteremmo ancora sul Protocollo di Kyoto, sul Tribunale penale internazionale e sulla questione della preemption. E tuttavia, nella politica estera dei democratici il rilancio delle relazioni transatlantiche costituirebbe un’alta priorità e l’Europa verrebbe riconosciuta come partner-chiave nella soluzione di un ampio ventaglio di problemi in tutti gli scenari mondiali. I democratici sarebbero molto più aperti alla collaborazione, alla consultazione e alla condivisione delle decisioni con i loro alleati più stretti.

La politica estera dei democratici chiederebbe molto di più anche agli alleati europei. Una collaborazione più stretta imporrebbe all’Europa maggiori responsabilità e oneri. Imporrebbe cambiamenti negli atteggiamenti e nelle politiche europee. I governi e l’opinione pubblica europea devono chiedersi se sono preparati a compiere gli sforzi necessari per la ricostruzione delle relazioni transatlantiche, perché non soltanto la leadership americana ma anche quella europea sarà messa alla prova.

 

 

Bibliografia

1 R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano 2003.