Israele e Palestina: la soglia del «non rinunciabile»

Di Daniele Del Giudice Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

Nella questione del conflitto israelo-palestinese le operatività della politica, delle religioni e della cultura sono certamente diverse, ma questo è un orizzonte in cui gli elementi in partita sono anche strutturalmente integrati, e in cui la cultura non può quindi prescindere dagli altri due piani. La cultura non ne è separata, né potrà illudersi di esserlo. È la stessa caratteristica e forza degli eventi che lo impone.

 

Nella questione del conflitto israelo-palestinese le operatività della politica, delle religioni e della cultura sono certamente diverse, ma questo è un orizzonte in cui gli elementi in partita sono anche strutturalmente integrati, e in cui la cultura non può quindi prescindere dagli altri due piani. La cultura non ne è separata, né potrà illudersi di esserlo. È la stessa caratteristica e forza degli eventi che lo impone.

Che cosa intendiamo per cultura all’interno del conflitto israelo-palestinese? Tutti noi vorremmo una cultura del dialogo, una cultura della pace, una cultura della dignità umana, dove ogni alterità, ogni «altro» con cui veniamo a contatto fosse considerato e riconosciuto proprio per la sua personale identità, per i valori o i disvalori che porta in sé: «altro» riconosciuto come tale, e non semplicemente lì pronto per essere assimilato. Sarebbe infatti facile dialogare con l’altro, aspettandosi che fosse disposto ad essere assimilato. È la nostra passione, la nostra emozione che ci spinge a chiedere una cultura del dialogo. Ed è il nostro desiderio affettivo per l’altro proprio a partire dalla sua diversità. Ma cosa vuol dire essere veramente con l’«altro»? Essere con l’altro non è una festa, non è un caffè preso insieme. E non è nemmeno un semplice e misero atto di «tolleranza»: termine questo del tutto improprio e umiliante, poiché presuppone qualcuno che concede e qualcun altro che accede alla concessione. Il vero dialogo profondo, purtroppo, è sempre sulla linea del «non rinunciabile», sul confine del «non rinunciabile di sé». Quello cui io posso rinunciare, per la mia fede, per la mia politica, per le mie idee, per i miei morti, e cui l’altro, per le medesime ragioni, non può rinunciare. Ed è da questa soglia che comincia il vero lavoro dell’essere con l’altro, solo su questa soglia, scabra, difficile, dolorosa, priva di sogni e illusioni, ma terribilmente concreta.

In un quadro militare e politico credo che l’unica cultura possibile, attuabile, sia proprio quella che porta in sé una passione, una vocazione, per la zona del «non rinunciabile». Zona impervia, disagevole, ma l’unica che può avviare cambiamenti, modificazioni ed evoluzioni.

Se accettiamo di abitare sulla soglia del «non rinunciabile», abbiamo forse una possibilità di lavoro comune. Per farlo, noi europei che non abitiamo a Gaza, a Gerusalemme, a Jenin, noi che siamo partecipi appassionati ma distanti di alcuni meridiani, dobbiamo abituarci prima di tutto a pensare Israele e Palestina come un vero «sistema» complesso, doloroso e tragico, che ha già percorso nei decenni quasi tutte le posizioni e le opzioni possibili: la guerra guerreggiata, la pace precaria e temporanea, le trattative, le conferenze internazionali, i progetti di riconciliazione, il terrorismo, la prevaricazione, l’attesa di un evento positivo e risolutivo da parte di qualche istituzione o coalizione mondiale che non è mai accaduto, come mai è accaduta l’unica cosa cui teniamo, la pace vera. Dobbiamo dunque abituarci a pensare per due, nonostante le nostre personali preferenze, nonostante le nostre oggettive solidarietà. Siamo obbligati a pensare per due, perché il momento in cui si arriverà a una pace stabile, sarà certamente un sollievo, ma sarà anche un taglio doloroso. Perché per gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi il momento di una pace stabile sarà anche il momento del congedo dai sogni e dalle illusioni: l’illusione di un grande Israele e l’illusione di una grande Palestina. La pace stabile sarà il momento in cui ebrei e palestinesi, uomini e donne del «non rinunciabile», cederanno qualcosa cui tengono moltissimo, e per ben fondati motivi: parti di territorio, parti di luoghi sacri, parte di luoghi affettivi. E in quel momento parteggiare per una perdita o per un’altra, sarà diritto soltanto di chi ne è direttamente coinvolto, e delle comunità anche lontane cui fanno riferimento.

Israele e Palestina sono un sistema, ma con delle asimmetrie evidenti e molteplici, asimmetrie specifiche di volta in volta, e di volta in volta materia di contesa puntuale. Gli elementi di questo sistema non sono soltanto politici, militari, religiosi: sono elementi altamente simbolici, e dunque antropologici e anche psicologici. Se così non fosse, il conflitto israelo-palestinese non continuerebbe da così tanti anni. Le terribili guerre del Novecento hanno totalizzato il più alto numero di morti in battaglia e di vittime civili (senza dimenticare mai la «Shoa»), ma hanno avuto una durata limitata nel tempo: quattro, sette, quindici anni. Per trovare un conflitto duraturo come quello israelo-palestinese, occorre risalire molto indietro, alla guerra anglo-francese, guerra di 116 anni, cominciata nel XIV secolo e terminata nel XV (dal 1337 al 1453), o alla Guerra del Peloponneso (70 anni). Se il conflitto israelo-palestinese, in epoca moderna e di civilizzazione, dura da circa ottant’anni, si può dubitare che altre nazioni o paesi, in gruppi o singolarmente, abbiano forse avuto interesse alla continuità nel tempo di tale conflitto e che si sia fortemente peccato nel tollerarlo tanto a lungo.

La politica non è fatta di amicizia, la politica è fatta di interessi comuni. Gli arabi palestinesi e gli ebrei israeliani, una volta pacificati, costituiti in uno Stato plurale oppure in due Stati, avrebbero certamente molti interessi in comune. Avrebbero tutto da guadagnare e molto poco da perdere se non luoghi, territori che saranno dolorosamente spartiti nel momento in cui questa separazione avverrà.

Salvifica la pace ma dolorosa la pace. Potrebbero davvero, una volta pacificati, dare luogo a un’economia mediorientale, che ancora oggi non esiste, e potrebbero finalmente trasformare questo «onfalo negativo», che per gli interessi altrui è stato tollerato nella sua perpetua instabilità al centro di strategie militari e politiche.

È chiaro dunque perché la cultura, nel conflitto israelo-palestinese, è da anni non soltanto impegnata, ma naturalmente obbligata a trattare la questione stessa. È lo stato delle cose che obbliga lo scrittore arabo palestinese e lo scrittore ebreo israeliano a farlo. E da sempre lo fanno gli scrittori e saggisti israeliani, lo fanno da sempre anche i narratori e poeti palestinesi. Anche qui, tuttavia, con delle asimmetrie: la cultura degli scrittori israeliani contempla la possibilità di una convivenza, la cultura degli arabi palestinesi contempla una possibilità di sopravvivenza. È lo stato delle cose che obbliga lo scrittore arabo palestinese e lo scrittore ebreo israeliano. E ciò che hanno narrato quasi tutti i maggiori scrittori israeliani, Yehoshua, Grossman, Amos Oz, e lo stesso Shalev, che nel suo bellissimo romanzo «La montagna blu» ha ricostruito la storia dell’insediamento degli ebrei in terra di Palestina fin dalle sue origini tardo ottocentesche. E di cosa può trattare la narrazione e soprattutto la poesia dello scrittore palestinese, siriano, libanese? I loro libri diventano denuncia di una condizione umana disumana e quasi un appello non solo ai connazionali ma al vasto e assai frammentato mondo arabo.

Yehoshua, Grossman, Amos Oz, Shalev e molti altri hanno messo alla base del loro lavoro narrativo e della loro riflessione etica il tema stesso del conflitto e della riconciliazione. Yehoshua ha ricordato il tempo felice in cui arabi ed ebrei convivevano nella Spagna Andalusa. C’è stato un tempo in cui Maemonide, lo straordinario pensatore, ha scritto «La guida dei perplessi» in arabo, poi tradotta da lui stesso in ebraico. Ma si tratta di tempi lontani, obsoleti. Ed è giusto pensare che dobbiamo ripartire dall’oggi pur avendo conoscenza del passato. Il libro di Amos Oz, pubblicato di recente in Francia, porta un titolo forte «Aidez nous à divorcer» (Aiutateci a divorziare. Israele e Palestina: due Stati subito).1 Amos Oz ha fatto la guerra nel 1967 ed è una persona molto disincantata che chiede che si costituiscano due Stati, e che a partire da questi due Stati si possa pensare a una regione mediorientale di nuovo tipo. Lo stesso Muro nasce da un’idea di uno scrittore della sinistra israeliana, Yehoshua il quale ha chiesto ad alcuni suoi colleghi in Europa di firmare l’appello per costruire questo muro. Io ero fra coloro che lo hanno sottoscritto. Abbiamo ricevuto molte critiche ma oggi l’atteggiamento nei confronti del Muro è cambiato.

Fra gli scrittori meno conosciuti nell’orizzonte internazionale ma altrettanto meritevoli, vorrei ricordare Ghassan Kanafani. Egli, nel suo romanzo «A’id ilà Haifà» (Ritorno ad Haifa),2 del 1969, è il primo scrittore palestinese che ricorda e condanna esplicitamente l’Olocausto degli ebrei, e cerca di capire le ragioni dell’altro. Kanafani ha saputo raffigurare l’«altro», il nemico, nei suoi tratti umani e civili. Kanafani, tre anni dopo, nel 1972 morì tragicamente in un attentato terroristico. Vorrei ricordare anche Gabra Ibrahim Gabrà, che nel suo romanzo più conosciuto, «Al-Safinah» (La nave),3 parla della sua terra, da cui si è separato come tanti altri suoi connazionali, e ha trascorso quasi tutta la sua vita in Iraq. A quanti gli rimproveravano questo esilio troppo lontano, rispondeva: «Vorrebbero che portassi in tasca un sacchetto della mia terra, mentre nel mio cuore porto una pietra vulcanica».

E non si può non ricordare Emile Habibi, noto per un romanzo travolgente, intitolato «Le straordinarie avventure di Felice Sventura il Pessottimista».4 Scrittore sarcastico, paradossale, costruttore di ossimori, e capace di un witz di tipo ebraico nel trattare eventi tragici e terribili.

Fino agli scrittori più recenti, come Sahar Halifah, scrittrice di forte impegno politico e sociale, che narra straordinariamente l’impatto sulle persone, sulle vite singole, prodotte dai terribili fallimenti della storia.

C’è un ultimo aspetto che vorrei considerare e che definirei il tema di «una strana gioventù». È davvero una strana gioventù questa. Ragazzi israeliani che vanno in pizzeria come se si trattasse di una roulette russa. E ragazzi palestinesi che si uccidono per uccidere, che fanno del loro corpo l’unica arma. Tutti noi odiamo il terrorismo, perché colpisce soprattutto vittime civili, e perché tratta le persone come emblemi e non come creature. Eppure, quello che noi chiamiamo terrorismo viene definito da alcuni anni guerra asimmetrica. Ricordiamo il libro dei due colonnelli cinesi, «Guerra senza limiti»,5 un manuale interno per le forze armate cinesi iniziato nel 1995, in cui si ripercorrono gli attentati compiuti e si fa riferimento ad Al Quaeda, all’uso di oggetti comuni che diventano strumenti di morte, alla possibilità di attacchi con aerei civili. Non chiudiamo tuttavia in tutto il terrorismo ciò che è una asimmetricità di possibilità di conflitto. Il tema dei martiri fa parte di questa asimmetria ma c’è qualcosa di più. Il corpo trasformato in arma è un atto di martirio, ma è soprattutto la più radicale nullificazione di sé. Ebbene questa «strana gioventù» è la vergogna del fallimento di leader poco propensi alla pace, logorati e stanchi per i quali la gioventù di Palestina aspetterebbe un congedo. Avere messo una gioventù in queste condizioni ancora oggi, è qualcosa di cui noi tutti dobbiamo vergognarci.

 

 

 

Bibliografia

1 A. Oz, Aidez-nous à divorcer! Israël Palestine: deux Etats maintenant, Editions Gallimard, Parigi 2004.

2 G. Kanafani, Ritorno ad Haifa, Edizioni Lavoro, Roma 1995.

3 G. I. Gabra, La nave, Jouvence, Roma 1994.

4 E. Habibi, Le straordinarie avventure di Felice Sventura il Pessottimista, Editori Riuniti, Roma 1990.

5 Q. Liang e W. Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001