Una nuova saggezza per una nuova era. A proposito Francesco Saverio Nitti

Di Giuseppe Abbracciavento Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

Quando il 25 marzo 1894 appare il primo numero de «La Riforma sociale. Rassegna di scienze sociali e politiche», si capisce sin da subito la radicale diversità della rivista rispetto allo stagnante panorama editoriale del tempo. Il testo che qui si propone è l’editoriale di apertura col quale la rivista si presenta ai suoi lettori, vero e proprio manifesto programmatico nel quale il giovane direttore, Francesco Saverio Nitti, chiarisce le linee programmatiche e gli orientamenti di una rivista decisa a imporsi «alla grande massa del pubblico intelligente» dell’Italia fin du siècle, contro ogni provincialismo asfittico e paralizzante.

 

Quando il 25 marzo 1894 appare il primo numero de «La Riforma sociale. Rassegna di scienze sociali e politiche», si capisce sin da subito la radicale diversità della rivista rispetto allo stagnante panorama editoriale del tempo. Il testo che qui si propone è l’editoriale di apertura col quale la rivista si presenta ai suoi lettori, vero e proprio manifesto programmatico nel quale il giovane direttore, Francesco Saverio Nitti, chiarisce le linee programmatiche e gli orientamenti di una rivista decisa a imporsi «alla grande massa del pubblico intelligente» dell’Italia fin du siècle, contro ogni provincialismo asfittico e paralizzante. Già la stessa intitolazione – «La Riforma sociale» – (ripresa esplicitamente dall’omonima rivista francese «La réforme sociale» del riformatore Frédéric Le Play) non era casuale, e non faceva che riprendere una mai sopita battaglia polemica contro gli ideali liberisti ai quali si richiamava, già venti anni prima, Francesco Ferrara, il caposcuola dei liberisti italiani e ispiratore del concorrente «Giornale degli economisti».

Nel 1894, quando assume la direzione della rivista insieme a Roux, Nitti non ha ancora ventisei anni ma il suo nome circola già negli ambienti economici italiani e stranieri: autore nel 1891 di un apprezzato studio su «Il socialismo cattolico», collaboratore di prestigiose riviste scientifiche estere (la «Revue sociale et politique», l’«Economic review», la «Revue d’économie politique»), redattore – oltre che de «La scuola positiva» – della «Nuova Rassegna», Nitti nel 1892 diviene membro della commissione consultiva parlamentare per le istituzioni di previdenza e l’anno dopo libero docente di economia politica. A dispetto della giovanissima età il giovane lucano godeva, quindi, di un prestigio fortissimo come esperto di questioni sociali ed economiche, proponendosi come un convinto assertore ed alfiere delle istanze di rinnovamento politico e culturale della borghesia italiana «sulla scia dell’insegnamento dei socialisti della cattedra e del modello inglese di sviluppo produttivo».

In effetti, «La Riforma Sociale», in linea con gli orientamenti culturali del suo direttore, si propose già al suo apparire come un vivace luogo di confronto e di dibattito dei problemi sociali, politici ed economici del tempo senza alcuna forma di chiusura pregiudiziale nei confronti di alcuno, riuscendo a divenire in breve tempo l’espressione scientifica più accreditata del meglio che l’élite politica e culturale italiana e internazionale del tempo era in grado di offrire. Al momento del varo della rivista un irrinunciabile punto fermo per il suo direttore era costituito dalla necessità di contribuire allo svecchiamento e al rinnovamento delle scienze sociali e politiche in Italia rivolgendosi non più «ai pochi cultori di scienze sociali o a pochi partecipi dell’azione e della vita politica», ma a coloro che, pur immersi nelle occupazioni della vita quotidiana «sentono, ora più che mai, il dovere di essere illuminati intorno a quelle grandi questioni, cui l’avvenire della società è strettamente legato».

Nitti, intellettuale profondamente imbevuto di metodo positivista, affida alla rivista un progetto di trasformazione della società su cui far convergere tutti coloro che, non aderendo né alla scuola economica classica né alle più recenti tendenze socialiste, si facevano portatori di un modello di società e di Stato venato di un vivace anticonservatorismo e ispirato a criteri di maggiore efficienza e giustizia sociale. Si trattava, in sostanza, di forze liberalradicali attente all’emergere nella società italiana delle prime tendenze socialiste e ai cambiamenti che ciò comportava, scienziati di stretta marca positivista che attraverso la rivista nittiana si posero il problema dell’adeguamento delle istituzioni liberali alla struttura dell’incipiente società industriale. Li portava verso questa direzione non solo un metodo di lavoro improntato alla rigorosa analisi empirica dei fatti e il rifiuto di ogni teoria precostituita, ma anche una sconfinata ammirazione verso l’esperienza del laburismo inglese che, attraverso un vasto programma di riforme sociali, era riuscita a fare dell’Inghilterra la nazione «più industrialmente e commercialmente progredita d’Europa», come Nitti riconosce nell’editoriale.

Nei confronti della dottrina socialista, a cui allora si stava dando in Italia una prima, compiuta elaborazione teorica, i collaboratori della «Riforma» (alcuni dei quali particolarmente attratti dal pensiero socialista) mantennero sempre un atteggiamento di apertura e interesse, in linea con quello spirito di tolleranza che Nitti opportunamente richiama anche nell’editoriale quando cita le parole di F.Y. Edgeworth, l’editor del prestigioso «Economic Journal»; se essi respingevano nettamente (Nitti in testa) ogni idea di negazione della proprietà privata, accettavano invece il «nocciolo morale» del socialismo di cui pure parlava Giustino Fortunato: i riferimenti ai principi di solidarietà e giustizia sociale da attuare tramite l’intervento dello Stato nei fenomeni di distribuzione della ricchezza.

Nonostante ciò, i rapporti con l’establishment del Partito socialista non furono mai idilliaci. Turati, dalle colonne della «Critica sociale», salutò la nascita della «Riforma sociale» con sarcasmo e livore, prendendosela con l’ambiguità politica e l’eclettismo scientifico della rivista. Ma ciò non sminuì l’interesse del gruppo della «Riforma» nei confronti della teoria socialista; tale interesse non nasceva solo da una dichiarata abitudine intellettuale al confronto e al dialogo, ma dalla necessità di comprendere fenomeni nuovi – come il socialismo, appunto – che, una volta depurato delle sue valenze teorico-dogmatiche, consentiva di essere letto e studiato nel suo impianto di strumento di modernizzazione della società e della politica.

In particolar modo, Nitti fu uno dei primi a rendersi conto dei profondi e irreversibili mutamenti che stavano interessando la società italiana alla fine del Diciannovesimo secolo e, tra questi, l’affacciarsi delle masse sulla scena politica. Il socialismo, insieme sintomo e risposta a questi cambiamenti, diventa, nell’analisi di Nitti, una realtà con cui fare i conti perché esso evidenzia la presenza nel paese di profonde tensioni sociali e intollerabili squilibri economici. Di fronte alla crisi d’impotenza della scienza economica classica, attestata su una anacronistica lettura della società italiana sulla base delle oramai superate categorie dell’individualismo liberale, il gruppo della «Riforma sociale» rifiuta ogni speculazione teorica e si attiene al fatto, alla realtà, individuando nel socialismo di Stato, così come teorizzato dal tedesco Schmoller, il viatico di un vasto e ampio programma riformistico per la società italiana, compiutamente esposto lungo tutti i sessantuno volumi in cui si articolerà la «Riforma» fino alla cessazione delle pubblicazioni in epoca di fascismo trionfante.

Il perno di questo ambizioso programma riformistico è costituito dall’idea dell’intervento dello Stato nei fenomeni di distribuzione della ricchezza, uno Stato spersonalizzato e non legato a una classe politica: lo Stato doveva intervenire come legislatore con una moderna legislazione sociale, possibilmente sul modello inglese, assumendosi alcuni servizi sociali per la collettività. In questo senso Nitti, forse un po’ provocatoriamente, poteva affermare che «siamo tutti socialisti»: «(…) socialisti noi chiamiamo tutti coloro i quali vogliono che lo Stato intervenga nei fenomeni della distribuzione della ricchezza, cercando di regolarli secondo l’ideale di giustizia». Il distacco e la lontananza rispetto alle teorizzazioni ultraliberiste del coevo «Giornale degli economisti» non poteva essere più chiaro ed evidente, e ciò spiega le aspre polemiche che vedranno continuamente contrapposti i due giornali.

Lungo le suggestive linee teoriche indicate da Nitti (legislazione sociale e apertura a tutte le scuole), «La Riforma sociale» riuscirà comunque ad aggregare intorno a sé i migliori nomi delle scienze sociali dell’epoca (vi scriveranno, tra gli altri, Loria, Einaudi, Mosca, Jannaccone, Ferraris, Colajanni) favorendo ben presto il fecondo incontro con il gruppo di economisti raccolti intorno al «Laboratorio di Economia politica», fondato a Torino da Salvatore Cognetti de Martiis nel 1893: il tema della questione sociale e il metodo della «ricerca imparziale del vero» saranno i parametri su cui si misureranno le affinità di economisti che, pur nella diversità delle loro posizioni scientifiche e politiche, si incontreranno sul comune terreno del rifiuto delle categorie concettuali della scuola economica classica per dare alla società italiana e ai suoi problemi risposte nuove e più efficaci.

Critica alla borghesia parassitaria, sostegno alla legislazione sociale, adesione all’intervento dello Stato nell’economia, rifiuto del collettivismo, lotta contro ogni forma di ingiustizia sociale, ammirazione per il laburismo inglese, fede positivista nella rigorosa analisi dei fatti, scoperta della questione sociale, attenzione alla questione meridionale, denuncia dell’immobilismo delle classi dirigenti, chiarezza intellettuale sono i tasselli che vanno a comporre, in un disegno organico e coerente, un ambizioso progetto di riforma e modernizzazione del paese e che ritroviamo già in nuce nell’editoriale del 1894, vero e proprio manifesto di riformismo voglioso di edificare, quaranta anni prima del Keynes di «Essays in persuasion», «una nuova saggezza per una nuova era».

 

Francesco Saverio Nitti

La Riforma sociale

«La Riforma sociale» non si propone soltanto di essere una rivista scientifica internazionale, destinata agli studiosi e ai cultori delle scienze sociali e politiche: essa vuole, pur serbando la sua rigorosità scientifica, dare un esempio di imparzialità assoluta e dirigersi non a pochi solitari, ma alla grande massa del pubblico intelligente.

Bisogna confessare che, fra le scienze, quelle che forse nel secolo nostro hanno meno progredito sono appunto la scienza economica e la scienza politica. Non basta spiegare questo fatto dicendo che la scienza sociale è molto giovine e che ha appena un secolo di esistenza. Altre scienze sono molto più giovani ancora e hanno fatto invece progressi rapidissimi. Né, quanto alle scienze politiche, basta l’affermare che il progresso umano e i nuovi orizzonti sociali hanno fuorviato l’attenzione degli studiosi, e hanno spostato gli antichi cardini del diritto pubblico. Carlo Fourier, che fu nello stesso tempo un genio e un folle, diceva che l’economia appartiene, come la morale, la metafisica e la politica, alla categoria delle scienze incerte. Il Fourier, che gran parte degli attuali mutamenti previde, era però un dolce folle: come egli stesso confessava, non aveva letto altri libri di economia se non il trattato di J. B. Say, e parlava quindi di una scienza che non conosceva, ma di cui fu, senza volerlo, uno degli interpreti più geniali.

Pure il giudizio di Fourier ha trovato eco dovunque.

Leone Walras, figlio di un economista valoroso ed economista profondissimo egli stesso, diceva pochi anni or sono che le scienze morali e politiche sono oggi au point ou en étaient les sciences physiques et naturelles il y a trois cent ans. La ragione vera di questi così poco rapidi progressi è nel fatto che le scienze economiche e politiche, per la loro natura stessa, si prestano assai poco allo studio obiettivo.

È stato detto che se i teoremi di Euclide, così luminosamente dimostrati e così generalmente accettati, avessero avuto dei rapporti con la costituzione sociale, sarebbero ancora considerati come delle ipotesi controverse. E questa sottile arguzia spiega meglio di ogni altra cosa il debole progresso delle scienze sociali.

Come bene notava il Miakowski vi è una filosofia della ricchezza e vi è una filosofia della miseria.

Da una parte tutta una schiera di scienziati non ama e non predica se non tutte quelle dottrine che implicano necessità, fatalità, inevitabilità; dall’altra tutta una scuola partecipa, con soverchio ottimismo, alle passioni e ai bisogni popolari, e predica e sostiene quelle dottrine che implicano mutamenti immediati e sconvolgimenti profondi.

Noi ci troviamo quindi ogni giorno di fronte a dottrine opposte di cui l’una esclude l’altra, e le quali, viceversa, hanno spesso, un po’ tutte, almeno un lato solo di verità.

Nelle scienze naturali la ricerca conserva sempre il suo carattere obiettivo: un uomo può credere come Darwin alle trasformazioni delle specie organiche o può conservare invece l’antica credenza nei tipi fissi. Ma se egli avrà osservato obiettivamente i fenomeni sottomessi al suo esame, avrà fatto sempre opera utile e feconda.

Nelle scienze economiche e sociali accade invece il contrario, poiché esse d’ordinario sdegnano di avere un carattere morfologico.

Nessuno di noi, per quanto sia disinteressato, per quanto cerchi di fare astrazione dall’ambiente in cui vive e dalle passioni di coloro che lo circondano, riesce a spogliarsi del tutto di quei preconcetti che sono così fatali all’indirizzo e ai progressi della scienza.

Achille Loria notava quindi, con molta ragione, che fino a quando la società non avrà un assetto migliore e la permanenza degli odii di classe non sarà più un pericolo, non sarà possibile una scienza economica veramente larga e obiettiva.

Ma siccome questo fatto, che noi dobbiamo augurare come prossimo, non possiamo ritenere come attuabile di un tratto, la via che ci resta da seguire è assai chiara. Bisogna rinunziare alla vecchia intransigenza, che ha contrassegnato finora le scienze sociali, e guardare, come Goethe si proponeva per scopo della sua vita, tutti i lati delle cose.

Noi abbiamo voluto per troppo tempo imporre come delle verità quelle che non erano se non ipotesi, per non sentire il bisogno di tornare indietro e di cambiare metodo.

La vecchia scienza economica inglese ha reso senza dubbio dei grandi ed utili servizi; ma l’abuso di astrazioni e di generalizzazioni non poteva non essere dannoso. Quelle teorie che si vogliono dare anche ora come assolute e imporre nella pratica della vita quotidiana, si trovano in libri dove due terzi dei periodi cominciano con le parole: Let us suppose, If it be assumed, If we can imagine, Let us now introduce, Suppose an event to occur, But suppose a lot of persons, ecc. Ora si può dare a teorie simili altro valore che quello di semplici astrazioni?

Nel 1834, quando l’Inghilterra volle sviluppare la sua legislazione delle fabbriche, tutti gli economisti si opposero: fedeli alle vecchie dottrine, essi credevano che la legislazione protettrice dei lavoratori avrebbe assottigliato i profitti industriali, diminuite le mercedi, messi sul lastrico gran numero di lavoratori, creata all’Inghilterra una posizione di inferiorità sui mercati stranieri.

Gli operai non si scoraggiarono. «Se, essi dissero, l’economia politica è contro di noi, noi siamo contro l’economia politica».

È passato mezzo secolo e gli operai hanno avuto ragione. Infatti altre leggi ancor più radicali, ancor più modificatrici delle condizioni del lavoro sono state fatte. Ma l’industria inglese ha immensamente progredito, i salari sono cresciuti, i profitti si sono anch’essi sviluppati, il numero degli operai e la produttività loro sono cresciuti quasi parallelamente, e l’Inghilterra si è affermata sempre più come la nazione più industrialmente e più commercialmente progredita d’Europa.

Il Senior pretendeva che l’economista, a differenza dei rappresentanti delle altre scienze, non ha bisogno di lunghe osservazioni, e che gli basta passeggiare e tirare delle deduzioni da tesi generali per scoprire delle leggi eterne. Il male è che si è troppo passeggiato, che si è troppo abusato di deduzioni da premesse insostenibili e che quindi si è fatto un lavoro in gran parte vano ed inutile.

Per fortuna la reazione è venuta, uno spirito nuovo si va diffondendo e la ricerca è diventata più profonda e più obiettiva. Le magistrali indagini compiute negli ultimi tempi in Europa e in America sono veramente garanzia sicura dell’avvenire.

Ciò che bisogna abbandonare è dunque la vecchia intransigenza.

Nelle questioni che riguardano la ricchezza, in quelle sopra tutto le quali riguardano la distribuzione della ricchezza, e che, appunto per il loro carattere, eccitano maggiormente gli animi e le menti, per fare opera seria e durevole bisogna mostrarsi del tutto spassionati.

L’esempio che ci viene di fuori merita di essere seguito anche da noi – sopra tutto anzi da noi – ove la natura meridionale mal si presta alla disciplina e all’obiettività della ricerca serena.

Tre anni or sono quando la British Economic Association fondò «The Economic Journal», una delle riviste più serie e meglio fatte d’Europa, F. Y. Edgeworth spiegò il suo programma con mirabile lucidità. «La British Economic Association – scrisse l’illustre economista di Oxford – è aperta a tutte le scuole e a tutti i partiti; niuno è escluso a causa delle sue opinioni. L’«Economic Journal», pubblicato sotto l’autorità dell’associazione, sarà diretto anche con tale spirito di tolleranza. Esso sarà aperto agli scrittori delle varie scuole. Le più opposte dottrine vi si combatteranno in campo aperto. Così le difficoltà del socialismo saranno studiate nel primo fascicolo, le difficoltà dell’individualismo nel secondo (…)».

La «Riforma Sociale» fa sue le parole di Edgeworth. «Nessuno né ora, né mai sarà escluso da questa rivista a causa delle sue opinioni».

Noi vogliamo non già che coloro che si rivolgono a noi abbiano tutti le stesse idee; vogliamo solo che queste idee, per avanzate che siano, trovino degli espositori calmi, intelligenti e sereni.

Anche occupandosi di scienze politiche, «La Riforma Sociale» eviterà che le discussioni abbiano mai un carattere personale e che assumano forme le quali non si addicano a una rivista scientifica.

Questa serenità di vedute, questo desiderio di fare in modo che tutti gli studiosi seri ed onesti abbiano a loro disposizione una rivista veramente imparziale, non potrà non avere dei buoni risultati.

In una società come la nostra, ov’è tanto e così incessante urto di aspirazioni e d’interessi, non è possibile che la scienza progredisca davvero se ci ostiniamo a seguire le vecchie tradizioni e a non vedere salute fuori di quello che noi crediamo e vogliamo.

«La Riforma Sociale» accoglierà dunque con la stessa larghezza così coloro che vorranno discutere in favore della tesi socialistica, come quelli che viceversa vorranno discutere in favore della tesi individualistica.

Questo incessante certame, combattuto fra i più autorevoli campioni delle diverse scuole, non potrà non essere giovevole.

Checché si pensi delle nuove dottrine socialistiche, bisogna riconoscere oramai che esse non sono più quelle che erano mezzo secolo fa, delle semplici concezioni ideali, prive di ogni fondamento positivo. Oramai invece la tendenza socialistica penetra dovunque, e tutta la scienza sociale, come tutta la vita sociale, ne sono influenzate.

Il gran torto del socialismo sta nel non vedere altra salute fuori di quel programma puramente collettivista, il quale non è punto la conseguenza inevitabile delle premesse da cui si parte, e che in ogni caso rappresenta assai più un’ispirazione mal definita che una tendenza vera e seria. Per questa ragione più che per qualsiasi altra, per questo spirito di dommatismo e di intransigenza, il socialismo moderno, che contiene in sé tanta parte di verità, non ha saputo dare, all’infuori del grande libro di Marx, alcuna opera alta e duratura.

Ad ogni modo «La Riforma Sociale» non escluderà, noi ripetiamo, nessuno dei rappresentanti delle scuole socialistiche a causa delle sue opinioni: anzi farà sì che i principali e i più autorevoli possano in campo aperto discuterne liberamente e con serenità. È solo da discussioni di tal genere che il pubblico può trarre quel giovamento che non ritrae ora dalla lettura di gran parte delle nostre riviste, così strettamente e così poveramente partigiane.

La «Riforma Sociale» vuole però dirigersi non a una parte soltanto del pubblico, non a pochi cultori della scienza sociale o a pochi partecipi dell’azione e della vita politica, ma a coloro cui le occupazioni della vita quotidiana non consentono di occuparsi specialmente degli studi economici e politici, e che pure sentono, ora più che mai, il dovere di essere illuminati intorno a quelle grandi questioni, cui l’avvenire della società è strettamente legato.

La nostra rivista, proponendosi questo scopo, richiede che tutti i suoi collaboratori trattino di argomenti che per l’indole loro possano interessare il pubblico e ne trattino in una forma facilmente accessibile.

Non vi è grande e complessa questione la quale non possa essere esposta in tal modo da interessare i lettori.

In Italia invece si è seguito e si segue, fatte poche e notevoli eccezioni, una via opposta: nel linguaggio volgare oscuro è diventato sinonimo di profondo, e chi non è profondo, cerca almeno di essere oscuro.

Il Laveleye avea già notato con sottile ironia che gli italiani cominciano a trattare tutte le questioni dal diluvio: questa passione, diremo così, diluviale, è stata acuita dall’influenza del germanesimo, di cui si è preso spesso non il lato migliore, ma il lato più scadente e più inutile.

Ne è derivato un gran male alla scienza, e più ancora, un gran male al pubblico.

In Italia, quelli che studiano, formano, per così dire, una classe a parte, e la loro influenza sulle masse è, per lo meno, assai discutibile.

Chi conosce la vita germanica e la vita inglese, sa che in quei paesi nessuno considera la scienza come estranea alla vita. Il popolo stesso segue con interesse e con cura i progressi delle ricerche, e ripone in essi gran parte delle sue aspirazioni e delle sue speranze. La miglior prova di questa verità è nel grande successo che hanno avuto negli ultimi anni in tutta l’Inghilterra le University Extensions.

Come tutto questo è lontano da noi!

Le classi prevalenti considerano nel nostro paese gli studi superiori come del tutto estranei; vi sono delle province intiere nelle quali è difficile trovare una sola biblioteca pubblica o un solo giornale di scienza. Le classi popolari sono troppo povere e troppo abbrutite da un lavoro lungo e penoso per partecipare a una vita intellettuale elevata. Ne derivano due mali per il paese, mali egualmente dolorosi e profondi. Da una parte gli scienziati non scrivono che per un pubblico assai limitato, vedendo andare le loro opere, anche quando sono illustri, per le mani di poche diecine di lettori; dall’altra, il pubblico non se ne occupa affatto, e il livello della cultura resta assai basso. Per questa ragione la vita scientifica non ha da noi quasi nessuna influenza sulla vita pratica; agli occhi del pubblico gli scienziati non sono quindi, non possono essere che degli uomini, i quali inseguono delle vane idee, e si attaccano a parole prive di senso.

Questo spiega come la stessa vita universitaria non goda in Italia di quella popolarità di cui dovrebbe godere, e in fatto gode quasi dovunque altrove.

Vi è in tutto ciò, poi, un vizio di posa: tanto più infatti si è oscuri, tanto più si passa per profondi. Nella carriera dello insegnamento superiore si progredisce tanto più rapidamente quanto più si fa dell’erudizione vana e inutile, e quanto più si è vuoti ed astrusi. È una verità dolorosa questa, ma è una verità.

Se quelli che ci seguiranno, vorranno leggere (ogni audacia è verosimile!) molte delle monografie pubblicate negli ultimi trenta anni, dovranno fare gli stessi sforzi di acume che dovè fare Champollion dinanzi ai geroglifici delle piramidi di Egitto.

Ora «La Riforma Sociale» che in materia di politica come in materia di economia sociale, ha una tolleranza estrema, non ha viceversa e non vuole avere nessuna tolleranza per quegli scrittori incomprensibili o illeggibili, per quegli scrittori i quali non scrivono se non per fare della vana erudizione.

La rivista, per il suo carattere essenziale, deve essere qualche cosa tra il libro e il giornale; deve avere la serenità scientifica, l’obiettività, l’ampiezza di ragionamento del libro, ma deve pure avere la sveltezza, la flessibilità, l’eleganza del giornale. Tutte le riviste che perdono l’uno o l’altro di questi due caratteri, mancano al loro scopo, e non trovano una vera ragione di esistenza.

Nel paese ove le riviste hanno avuto un maggiore sviluppo, in Inghilterra, gli editor curano scrupolosamente che la selezione degli articoli sia fatta in modo che il pubblico dei profani ne ricavi un vantaggio vero. Tutte le grandi questioni sono quindi discusse dalle maggiori competenze tecniche in forma lucida e piana.

Un carattere interamente nuovo della «Riforma Sociale» è, che essa sarà, se non per il pubblico cui si rivolge, certo per gli scrittori che vi collaborano, una rivista internazionale. Da questo primo numero i lettori vedranno quanti e quanto autorevoli scrittori di ogni paese e di ogni gradazione porteranno il loro contributo intellettuale alla nostra rivista.

A ottenere questo scopo, che presenta delle grandissime difficoltà pratiche, nulla sarà risparmiato, e i sacrifici a cui ci siamo sottomessi, saranno, noi speriamo, apprezzati dal pubblico italiano, cui forse per la prima volta è dato possedere una rivista cui collaborino le intelligenze più chiare e gli spiriti più eletti di Europa e di America.

La vita delle società moderne è così vasta e così complessa che l’osservazione dei fenomeni che ne derivano, è sempre assai difficile. Ora è bene che di questi fenomeni parlino non coloro soltanto che li hanno studiati nelle opere degli altri e nelle loro manifestazioni esteriori, ma coloro che hanno contribuito a determinarli, coloro che fanno parte della società in cui si svolgono, coloro infine che per le condizioni della loro vita e per la loro posizione sociale, hanno potuto più attentamente e più da vicino esaminarli.

«La Riforma Sociale» farà quindi in modo che tutti i grandi problemi del giorno siano discussi dalle persone che hanno una competenza speciale. Le associazioni dei lavoratori, le tendenze delle varie scuole socialistiche, le riforme economiche e legislative più audaci, tutto quello che avviene insomma di più importante e di più notevole, sarà discusso da coloro la cui opinione vale di più, e i quali hanno maggiore diritto di discuterne.

A qualcuno parrà forse eccessiva la collaborazione degli scrittori stranieri alla nostra rivista. Ma questo anzi è il lato migliore della «Riforma Sociale», poiché solo in tal modo è possibile fare cosa seria ed efficace. Gran parte di queste nuove dottrine, le quali riguardano la organizzazione del lavoro, la riforma economica e la riforma morale sono accolte con tanta diffidenza solo perché sono assai male conosciute o sono conosciute per il tramite di uomini non sempre superiori e di pubblicazioni non sempre apprezzabili.

Ma fate che una rivista seria e indipendente, non legata ad alcun individuo e ad alcuna scuola, desiderosa soltanto della verità, dia, a quanti sostengono delle idee nuove, il mezzo di mettersi in comunicazione diretta col pubblico, e vedrete che gran parte degli antichi pregiudizi cadranno. Una grande trasformazione sociale si va sotto i nostri occhi compiendo: quali che siano i nostri interessi, quali che siano le nostre tendenze, noi sentiamo che un alito di vita è penetrato nella società; noi sentiamo che le vecchie forme si rinnovellano, e che il bisogno di forme più larghe e più comprensive c’invade. Siamo, come direbbe Saint-Simon, nella fase critica, che precede la fase positiva. Facciamo almeno che quello che ci domina, non sia solo un sentimento, ma cerchiamo d’indagare la verità dove ch’essa si trovi e da chiunque sia sostenuta. Non vi è nessuna delle dottrine in nome di cui combattiamo, la quale non abbia, come Shakespeare diceva, un’anima di bontà. Abbandoniamo dunque il vecchio spirito d’intransigenza, e facciamo che le voci delle cose vengano a noi così come sono, non a traverso il tramite dei nostri interessi e dei nostri pregiudizi. I propositi nostri saranno di più difficile esecuzione specialmente quando si tratterà di scienze politiche e di discussioni che appassionano in dati momenti la vita pubblica dei vari Stati. Può nascere il dubbio che in quell’ora o l’animo nostro non sia abbastanza sereno per dare un indirizzo imparziale ed obiettivo alla pubblica opinione, o gli scrittori che tratteranno gli argomenti speciali, arrechino nella trattazione le passioni e predilezioni personali e gli interessi della loro parte politica.

Ma noi faremo di premunirci contro questi pericoli sia col trattare queste questioni politiche specialmente dal punto di vista storico e teorico, sia sovratutto nell’invitare a scrivere, su particolari quesiti politici, uomini anche di diverse tendenze, ma riconosciuti superiori per la loro competenza e pei loro studi o veramente autorevoli per la loro condizione politica. Così dalla calma e serena contesa delle varie opinioni riuscirà più efficace la ricerca del vero.

«La Riforma Sociale» si propone dunque, per quanto è nei suoi mezzi, per quanto le difficoltà dell’ambiente lo consentono, non solo di contribuire al progresso degli studi, ma, e più ancora, d’influire sull’indirizzo delle idee e sulle tendenze sociali del nostro paese.

L’opera non certo è facile, né le difficoltà sono poche. Però coloro che si accingono a questa impresa, nessuna di queste difficoltà ignorano. E la serietà e la sincerità delle loro intenzioni, gli ostacoli stessi dell’impresa fanno credere loro che il successo non mancherà.

«La Riforma Sociale» sarà divisa in tre parti distinte. Nella prima parte verranno gli articoli, che riguarderanno i principali problemi dell’ordine economico politico e dell’ordine sociale. Scritti dalle persone più competenti, questi articoli dovranno, noi lo ripetiamo, senza derogare al loro carattere di vere ricerche scientifiche, essere scritti in forma accessibile. Gli articoli che pubblichiamo in questo numero provano ad evidenza quali e quanti siano i nostri cooperatori e come la nostra rivista non intenda inasprirsi ai criteri di una sola scuola escludendo i sostenitori delle dottrine avverse.

Nella seconda parte, nella rubrica Questioni del giorno noi cercheremo d’introdurre dei tipi di articoli, che mancano quasi del tutto nelle nostre riviste, ma che sono viceversa abbastanza comuni nelle riviste straniere. I giornali politici, ove le questioni del giorno sono discusse con criteri partigiani e quasi sempre, fatte poche eccezioni, senza nessuna serenità, non soddisfano punto coloro che vogliono una nozione esatta delle cose. Invece nella nostra rivista le più ardenti questioni del giorno saranno trattate da scrittori competenti, i quali tutti non potranno avvalersi né dell’anonimato né del pseudonimato.

Queste note del giorno devono, nel nostro concetto, essere qualche cosa fra l’articolo di rivista e l’articolo di giornale: scritte sempre da persone tecniche e possibilmente da quelle persone che hanno in materia maggior competenza, devono avere un carattere riassuntivo, unendo alla serietà di un articolo da rivista la spigliatezza di un articolo da giornale. Devono essere fatte, insomma, in modo da dare alla opinione pubblica la nota giusta e da servire di utile ausilio a chi voglia avere un’idea precisa delle questioni più ardenti. Nella terza parte della «Riforma Sociale» verranno le bibliografie, una rivista delle riviste, la cronaca politica e la cronaca economica e finanziaria.

La rivista delle riviste avrà lo scopo di mettere il lettore al corrente di quelle questioni d’ordine sociale, le quali occupano più gli animi e le menti in Europa e in America. Lo spoglio delle riviste sarà accurato e diligente, l’analisi imparziale, la forma largamente analitica. Il lettore potrà, senza grande fatica, essere al corrente delle discussioni e delle ricerche più notevoli, ora che le riviste hanno una così grande parte nel cammino degli studi e delle idee. Le bibliografie, affidate sempre a persone competenti, serviranno a dare al lettore un quadro sintetico del progresso degli studi.

Anche la cronaca politica e la cronaca economico-finanziaria saranno fatte con quella vigile cura che la loro importanza richiede, e affidate a persone capaci ed imparziali. I criteri da cui moviamo, i mezzi di cui disponiamo, lo scopo che ci proponiamo, abbiamo qui largamente esposti. L’Italia ha ora più che mai bisogno di una rivista sociale e politica veramente larga e disinteressata, ove tutte le voci oneste, tutti gl’ingegni eletti, tutte le anime desiose di verità trovino accoglienza larga ed amica.

Il nostro tentativo, fatto in sì larga base, con così grande idealità, con così vero amore del bene, troverà subito la simpatia del pubblico? vincerà l’atonia dell’ambiente? raggiungerà quello che finora è parso un sogno?

Noi sappiamo che lo speriamo, e sappiamo pure che lo crediamo.

 

da F.S. Nitti, La Riforma Sociale, anno I, 1/1894 pp. 3-12.