Il post-Berlusconi

Di Edmondo Berselli Sabato 01 Novembre 2003 02:00 Stampa

Se esiste davvero, ed è plausibile, un paradigma indiziario nella storiografia, sarebbe il caso di sistemare in archivio, a futura memoria, la registrazione del momento in cui Silvio Berlusconi guarda i suoi ospiti, depreca le divisioni nel governo e nella maggioranza, e con il piglio dell’amministratore delegato giunto sulla soglia della scocciatura avvisa tutti che non glielo fa fare nessuno di passare per incapace: ha case, ville, barche e aerei, un mestiere, i soldi, un impero imprenditoriale, e al momento buono potrebbe tranquillamente filare nel Mar dei Caraibi a fare la bella vita, alla faccia dei politicanti che la vita gliela avvelenano tutti i giorni con le loro insopportabili litigate.

 

Se esiste davvero, ed è plausibile, un paradigma indiziario nella storiografia, sarebbe il caso di sistemare in archivio, a futura memoria, la registrazione del momento in cui Silvio Berlusconi guarda i suoi ospiti, depreca le divisioni nel governo e nella maggioranza, e con il piglio dell’amministratore delegato giunto sulla soglia della scocciatura avvisa tutti che non glielo fa fare nessuno di passare per incapace: ha case, ville, barche e aerei, un mestiere, i soldi, un impero imprenditoriale, e al momento buono potrebbe tranquillamente filare nel Mar dei Caraibi a fare la bella vita, alla faccia dei politicanti che la vita gliela avvelenano tutti i giorni con le loro insopportabili litigate.

Non si evoca a caso il post-Berlusconi. Quello che per alcuni è un bon mot, per altri è un’idea. Va da sé che gli indizi configurano una prova soltanto se sono ripetuti e convergenti, e la voce dal sen fuggita al capo del governo aveva il tono più della boutade aziendale che non della minaccia fattuale. Non sfugge tuttavia che sulla politica italiana la presenza di Berlusconi ha un tale rilievo sistemico da suggerire in modo quasi automatico la domanda sul «dopo» e sull’eventuale «senza». Il capo di Forza Italia infatti è l’inventore e il federatore della Casa delle Libertà. Ma non solo: è anche il cardine della conformazione bipolare del sistema politico, il croupier che allinea sul panno verde le carte e divide i giocatori.

Nec tecum, nec sine te è il motto scolpito da un decennio sul frontone del teatro politico del nostro paese. Il nec tecum si riferisce, com’è ovvio, all’impressionante addensamento di potere – politico, economico, mediatico – che si concentra sulla figura del premier, un gravame che appesantisce la vita pubblica nazionale e il funzionamento di una democrazia moderna. A sua volta, il nec sine te allude al fatto che solo con Berlusconi come leader esiste una coalizione moderata (ammesso che si possano etichettare sotto questa sigla le pulsioni politiche della sua alleanza); ed esiste simmetricamente una varia congerie sul lato opposto dell’arco politico, le cui componenti sono accomunate soprattutto, se non esclusivamente, dal rifiuto della figura dell’attuale capo del governo.

Senza Berlusconi, tutto questo potrebbe sfumare in una nube indistinta. Il suo plotone di avvocati e professional trasferiti a Montecitorio si sfalderebbe. Nonostante tutti gli sforzi propagandistici dei suoi portavoce e dei mezzi di informazione a essa riferibili, la coalizione di centrodestra sarebbe uno spazio politicamente turbolento (ancora più caotico e litigioso di quanto non appaia ora).

Sono trascorsi dieci anni dal varo di Forza Italia e dal lancio della doppia coalizione, il Polo per le libertà e il Polo del buongoverno, che consentirono all’outsider assoluto di vincere le elezioni e di salire per la prima volta a Palazzo Chigi. Eppure in questo decennio non sembra che si sia assistito a un’evoluzione significativa nella compattezza e nella cultura politica del centrodestra.

Passiamo in rassegna sinteticamente i quattro soggetti principali che compongono l’alleanza. Il partito di maggioranza relativa, Forza Italia, è ancora una formazione fortemente eterogenea. Istinti liberali si mescolano a velleità protezioniste o soi-disant colbertiane. Tratti laicizzanti convivono con generose fidejussioni clericali, esemplificate dalla gioia registrata dalle cronache con cui il presidente del Consiglio avrebbe rivenduto a una frotta di cardinali la bocciatura del divorzio «veloce», asseverando che «il matrimonio è sacro». Spinte liberalizzatrici nel nome del mercato e del privato, nonché dell’immancabile flessibilità, sono affiancate e sterilizzate da affiliazioni e resipiscenze corporativo-professionali. Velleità di pesare nel contesto internazionale appaiono inficiate da una singolare mistura di posizioni unilateraliste ultra-americane e di resistenze alla dottrina geostrategica di stampo neocon (con l’apparizione memorabile, a suo tempo, dei «liberal-saddamiti» che si opponevano all’intervento in Iraq).

Il catalogo delle contraddizioni in seno al partito potrebbe proseguire, ma tanto vale sintetizzare il tema affermando che per ora a Forza Italia non è riuscita l’operazione-crogiuolo che doveva fondere ispirazioni e sensibilità diverse in un contenitore simildemocristiano, nell’entità di centro a cui il leader azzurro si riferiva già nel 1994, quando si addolorava con Gianni Letta per l’etichetta di destra affibbiatagli dai giornali. Il partito del premier non è né un soggetto popolar-conservatore, magari paternalista sul piano sociale ma non ostile alla modernizzazione, paragonabile ad esempio alla CDU-CSU, né un’entità robustamente neoconservatrice, fondata su una mobilitazione costante dei ceti borghesi di riferimento: sotto questa luce i nomi di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, posti nell’ostensorio ideologico ed esibiti come icone della nouvelle vague politico-economica, assomigliano piuttosto a care reliquie che viene comodo esporre nelle assemblee e nelle convenzioni, in chiave antistatalista, antisindacale e anti-sinistra ma senza vincoli programmatici impegnativi.

D’altronde, dopo una campagna pubblicitaria condotta nel 2001 tutta in termini supply-side, meno tasse per tutti, con il miracolo che avrebbe pagato da solo, e a usura, i tagli d’imposta, che fare allorché la brutalità del ciclo economico si incarica di spegnere gli ideologismi economici e di appiattire la curva di Laffer? Avesse avuto una percezione politica di lungo periodo, Berlusconi avrebbe proceduto a una ri-sintonizzazione del suo schema e programma politico, stringendo il patto con i due soggetti moderati della Casa delle Libertà, Alleanza Nazionale e UDC, e cominciando a concepire una onesta prospettiva moderata.

Ma evidentemente un obiettivo di questo genere non è nelle sue corde. Per lui i centristi di Casini, Follini e Tabacci rappresentano la replica tardiva della vena compromissoria democristiana, mentre AN e il suo leader Gianfranco Fini costituiscono un alleato fedele quanto politicamente indecifrabile. La miscela postmoderna di nazionalpopulismo,  protezionismo, ortodossia confessionale, socialità postfascista, e soprattutto di politicantismo che permea il partito di Fini può risultare utile come massa di manovra, ma risulta inaccettabile per il sentimento profondo, per il liberismo imprenditoriale e spontaneistico di Berlusconi. Il quale evidentemente continua a credere che il suo destino politico è contrassegnato da una sola alternativa: un exploit socio-economico oppure il  nulla. Sembrerebbe questa la ragione profonda che gli ha fatto privilegiare nei fatti l’asse Tremonti-Bossi, con palese insofferenza dei centristi e di AN. Non tanto per affinità politiche profonde con  la Lega, quanto per la convinzione che una sola è la chance di successo della Casa, cioè acchiappare la benedetta  ripresa mondiale, quando verrà: e in questo senso il galleggiamento tremontiano, con la creatività delle una tantum e dei condoni, è il faticoso strumento interlocutorio in attesa del sospirato prodigio a venire.

Si tratta di una scommessa al buio, anche perché chi ricorda la successione biblica dei sette anni di vacche grasse e dei sette di vacche magre intuisce che dopo il lunghissimo ciclo clintoniano di crescita la stagnazione promette di non essere breve. Ciò nondimeno, vale la pena anche di considerare l’effetto indotto da questa scelta, ossia il rapporto con la Lega. Serve a poco ripetere che il movimento di Umberto Bossi rappresenta l’ala plebea di Forza Italia: dopo avere sottolineato ancora una volta l’aspetto residuale della realtà politica leghista, conviene tutt’al più registrare la caratteristica antimoderna della Lega, che si esprime in una baraonda popolana contro l’immigrazione, così come nelle estemporanee dichiarazioni di cattolicesimo tradizionalista e anticonciliare del senatur, successive al paganesimo «celtico» e ai riti dell’ampolla su cui Bossi aveva costruito le sue rappresentazioni identitarie e secessioniste (vogliamo aggiungere le polemiche sul’euromandato d’arresto e «Forcolandia»? Sull’Europa massonica, protestante o atea? Sui dazi contro l’export cinese?); ed eventualmente chiedersi qual è la razionalità di questa scelta così condizionante.

Dovrebbero quindi esserci pochi dubbi sul fatto che il melting pot del centrodestra non è riuscito finora ad amalgamare una cultura politica condivisa e politicamente attraente. Anzi, finora il vero miracolo berlusconiano è consistito nell’essere riuscito a controllare, seppure sempre più a fatica, le dinamiche centrifughe serpeggianti nella coalizione. Ma non si capisce quale sia la visione strategica di Berlusconi: se effettivamente la Lega è un soggetto politico in declino, forse irrilevante per la riconquista dei seggi uninominali al nord, un calcolo di piatta convenienza elettorale avrebbe dovuto indurlo a rendere più compatta e stringente l’alleanza con centristi e postfascisti.

È accaduto l’esatto contrario. AN e UDC si sono trovate spinte al margine della coalizione dal legame di ferro con Bossi. In numerose occasioni pubbliche e private, Marco Follini ha segnalato al premier lo squilibrio politico determinato dall’atteggiamento corrivo verso la Lega. Ed è stato naturale che queste due entità politicamente tradizionali abbiano trovato una sintonia che ne ha unito le forze per contrastare la primazia tremontian-bossiana. Per cui è lecito ribadire la domanda: Berlusconi possiede un disegno strategico sul futuro della politica italiana? E ancora: ha qualche idea significativa sul completamento della transizione politico-istituzionale?

Forse sì, visto che ha affidato ai suoi «saggi» la stesura di una riforma costituzionale che accrescerebbe il suo potere e la presa sugli alleati. Forse no, se è vero che più volte il capo di Forza Italia ha ipotizzato il ritorno a qualche forma di sistema elettorale proporzionale. Ora, non è ben chiaro per quale motivo un uomo politico che è stato ampiamente gratificato dal maggioritario dovrebbe spendersi a favore di una formula che rievoca le mediazioni e le contrattazioni della scoppoliana «Repubblica dei partiti». Tuttavia, ciò che Berlusconi considera con istintiva simpatia intellettuale per l’insofferenza verso l’intelaiatura rigida delle alleanze precostituite, viene visto con un interesse molto più essenziale – molto più vitale – dai suoi alleati.

Il postulato vigente nella Casa delle Libertà, neanche a dirlo, è che il discrimine bipolare fra destra e sinistra non deve essere messo in discussione da nessuna riforma elettorale. La tesi di scuola nel centrodestra dichiara che il formato strutturale della politica italiana costituisce un dato di fatto irrinunciabile. Ma questo di per sé non è che l’eco pubblico di una buona intenzione. Anche la Casa delle Libertà è tributaria dell’idea che l’elettorato ha assimilato il criterio bipolare. Ma siamo sicuri che un partito come Alleanza Nazionale e un raggruppamento come l’UDC abbiano interiorizzato questo schema come un criterio  permanente e vincolante? Certo, Fini non ha al momento alcuna possibilità movimentista nel panorama politico: a ragione o a torto, e sicuramente più per la sua storia che non per la realtà effettuale e le caratteristiche della sua leadership, AN viene ancora identificata da larghi  settori di opinione come l’estrema destra dello schieramento politico. Cioè una posizione che non consente tattiche troppo manovriere, anche se le ultime riflessioni di Fini, sul riconoscimento della prima parte della Costituzione come statuto immutabile dell’identità repubblicana, e la definizione di AN come un partito «patriottico, liberale, cattolico»,  dischiudono opportunità ancora inesplorate.

Il discorso cambia invece ragguardevolmente di segno per i centristi post-democristiani. Chi ha l’abitudine a considerare la politica come una pratica di lungo periodo è intrinsecamente orientato al superamento di un assetto leaderistico, iper-personalizzato, distorto dalla polemica interistituzionale, ossia la guerra contro la magistratura, e stressato da un fattore extrapolitico come il conflitto d’interessi.

Un elemento da considerare è che via via – attraverso la ragionevolezza intellettuale di Follini, così come grazie alla stilizzazione istituzionale di Pier Ferdinando Casini – l’UDC si è levato di dosso il sentore di  vecchiume democristiano. Non ha un serbatoio di voti rilevante, ma ha davanti a sé una risorsa essenziale, il tempo. Può aspettare con una certa serenità l’avvento del post-Berlusconi, in qualsiasi modo questo «post» si dispieghi. Allorché una qualsiasi ragione storica o politica spedisse il capo dei forzisti, in ipotesi, ai Caraibi, l’UDC sarebbe il candidato primario alla successione. Non si metterebbe a disposizione un uomo, un leader, una personalità d’eccezione, quanto un partito fatto e finito. Un soggetto scarsamente conflittuale, non dotatissimo di technicalities se non sotto la forma delle tecnicalità di creazione e mantenimento del consenso, ma costituzionalmente prevedibile e quindi affidabile (anche per il centrosinistra).

Naturalmente, Fini avverte benissimo che il post-Berlusconi potrebbe avere una marcata impronta democristiana. Non si spiegherebbe altrimenti la lunga marcia di avvicinamento all’area dei popolari europei, così come non si comprenderebbero iniziative come la proposta del voto amministrativo agli immigrati, che fa formicolare l’epidermide della sua base. La prerogativa principale del leader di AN è uno sradicamento  ideologico che gli consente un pragmatismo piuttosto originale, sostanzialmente indifferente alle memorie identitarie presenti nel suo partito. Perché la posta in gioco per l’ex missino Fini, per l’ex «fascista del Duemila», è uno smarcamento dalle posizioni date: che gli consenta di lasciare alla propria destra, in un ruolo defilato, la Lega, abbandonando all’insediamento bossiano i temi più rancorosi del conflitto multietnico e lo strillonaggio populista.

Chiaro che si tratta di una politica che procede a colpi di invenzione, come gli imputano i settori più sentimentali del suo partito e, all’esterno, coloro che continuano a diffidare dell’antologia bibliografica, oscillante fra Gramsci ed Evola, presentata nei documenti dell’assemblea di Fiuggi. Tuttavia è una scelta che nasce dal convincimento che per AN l’identità è un elemento ostruttivo. Se sta cominciando la grande corsa alla successione di Berlusconi, sarà il caso di trovarsi ai blocchi di partenza con alle spalle un potenziale catchallparty, non una bottega di reduci, di nostalgici, di rancorosi, di sociali, di matrone e di benpensanti inclini alla mano dura. Per quelli, al massimo ci sarà il contentino del law and order sul consumo di droga.

Già, ma fin qui siamo alla vendita prematura della pelle dell’orso. È vero che è fallita l’operazione che doveva condurre Forza Italia alla conquista di un’egemonia culturale nella società italiana. È fallita nei riguardi dell’establishment economico-finanziario, dopo gli entusiasmi iniziali manifestati dalla tribuna confindustriale da Antonio D’Amato. E non è riuscita compiutamente nel ventre del corpo sociale, a dispetto dell’ipnosi televisiva. Conti pubblici problematici, tassi di crescita irrilevanti, inflazione elevata nei consumi primari, problemi di reddito fra i ceti medi: un complesso di fattori sufficiente per generare sfiducia, o perlomeno scetticismo sulla prestazione complessiva del governo.

A tutt’oggi, l’unica vera risorsa ancora a disposizione di Berlusconi sembra essere l’ostilità verso i «comunisti», nell’accezione che di questo termine ha offerto Piergiorgio Corbetta: sotto quella dicitura si legga tutto ciò che ha che fare con il pubblico, lo statale, i tribunali, il professionismo politico, gli apparati sindacali, la burocrazia amministrativa. Da questa parte, dalla parte di Berlusconi, ecco l’impresa, il mercato, il privato, l’iniziativa individuale, le partite IVA, i professionisti, gli artigiani, un mondo accomunato dal fastidio per i lacciuoli; dall’altra, scontrini fiscali, pressione tributaria, IRAP, concertazioni estenuanti, vessazioni d’ufficio, vischiosità decisionali, lentezze, freni, automatismi di carriera, fisime ambientali, fastidi infrastrutturali.

Che questo sia sufficiente per riguadagnare il consenso maggioritario degli elettori appare incerto, soprattutto se si pone a confronto il luccichio artificiale della campagna elettorale del 2001, con i risultati di governo effettivamente riscontrabili: da un lato sullo sfondo la scenografia del «Contratto con gli italiani», la scrivania nello studio di Bruno Vespa, la stilografica notarile, e dall’altro l’inerzia in politica economica, e l’abulia nel controllo del changeover, insieme a qualche elemosina. Si  direbbe quindi che la scelta di caratterizzare in negativo la caccia agli elettori, mobilitando nuovamente sentimenti populisti e familistici, possa apparire perlomeno scontata.

Ma, messo agli atti tutto ciò, si tratta di vedere se, quando e come potrebbe avvenire il melt down della maggioranza di centrodestra. Sul se, è inutile dilungarsi: fino a qualche mese fa la sintesi più efficace era offerta dalla diagnosi «il governo non cade ma crolla», in cui si riassumeva a un tempo l’inamovibilità e lo sgretolamento della Casa delle Libertà. Oggi invece aleggia la sensazione che dopo la conclusione del semestre europeo si aprirà un orizzonte politico senza certezze di sorta. Non appena si comincia a parlare di rimpasti, tagliandi, ripartenze, «fase due» di un governo, si può stare sicuri che ci si trova in una situazione di pre-crisi.

Ovviamente risulta difficile pensare che la maggioranza attuale possa andare a un suicidio politico, cioè a una destrutturazione così profonda e grave da impedire anche un resettaggio dell’esecutivo e un riequilibrio interno; tanto più che in questo momento alla Casa delle Libertà, e nella fattispecie a Forza Italia e a Berlusconi, manca la risorsa aggiuntiva costituita dalla possibilità di puntare a una specie di plebiscito (i plebisciti si organizzano quando c’è la certezza di vincerli). Anzi, l’eventuale tentazione berlusconiana di scommettere su un referendum informale centrato sulla figura del cavaliere costituirebbe con ogni probabilità una forzatura insostenibile per gli altri partiti della coalizione, e quindi si configurerebbe come un’ipotesi che si autoannulla.

È vero che incombe pur sempre una variabile giudiziaria, in grado di distorcere ogni valutazione di prospettiva e ogni scenario; ma se ci limitiamo volutamente alla dimensione politica del post-Berlusconi sembrano delinearsi due sentieri principali. Il primo conduce ipoteticamente a una crisi gravissima dell’alleanza, prima delle elezioni europee, con il seguito di scenari «tecnici» o «di garanzia». Ma chi può pensare ragionevolmente a una riedizione di un governo simil-Dini? Probabilmente esistono settori dell’establishment che stanno guardando con sottaciutofavore allo svolgersi di contatti informali tra aree omogenee dell’élite economico-finanziaria e della sfera bancaria; inoltre si intuiscono inclinazioni crescenti verso un’equilibratura dell’orientamento politico da parte delle associazioni imprenditoriali.

Tuttavia: esiste un interesse specifico, e specificamente attribuibile, per una soluzione «tecnica»? C’è al Quirinale il possibile gestore à la Scalfaro di un assetto politico non-bipolare? Siamo in presenza di una crisi sociale e/o valutaria come quella che consentì ripetutamente negli anni Novanta il sostanziale commissariamento del sistema rappresentativo? A tutte queste domande la risposta è negativa. E dunque più che la puntata matta, tecnocratica e consociativa, sull’impallinamento del croupier e la caduta del banco, conviene attendere lo svolgimento degli appuntamenti politici prestabiliti, e l’uscita dei relativi numeri elettorali.

A lume di buonsenso si può preventivare che il banco di prova di Berlusconi sia dato dal risultato delle elezioni europee. Un esito che fra l’altro sarà influenzato non solo dalla popolarità residua del leader di Forza Italia e del suo governo, ma anche dall’offerta politica della controparte ulivista. Un conto infatti sarebbe assistere alla competizione di un centrosinistra a brandelli, e un conto invece vedere in campo la cosiddetta lista unica (a proposito: secondo il monitoraggio dell’Istituto Cattaneo, saremmo prossimi alla smentita del vecchio schema per cui, nel contesto di un voto con la proporzionale, risulta favorevole presentarsi divisi; i rilevamenti più recenti mostrerebbero un elettorato di centrosinistra grato al pensiero di un voto unitario, e sollevato di conseguenza dall’idea di poter finalmente prescindere dalle perduranti divisioni politiche fra le principali componenti dell’Ulivo).

Perciò il quesito principale riguarda il grado di tenuta di Berlusconi. Nell’alternativa diabolica, bicornuta, fra il nec tecum e il nec sine te, la  centralità della figura del cavaliere risulta cruciale per gli sviluppi successivi della politica di casa nostra. Il croupier vince o tiene, e di conseguenza  il post-Berlusconi è rinviato alla lentezza di processi politici determinati dal logorio essenziale della politica e del conflitto di potere, così come dal mutare bradisismico degli orientamenti dell’elettorato. Oppure Berlusconi perde, e magari perde male, impallinato dal disincanto dell’opinione pubblica di élite e dalla delusione politica ed esistenziale della «gente», e allora lo shock sarebbe profondo.

Ci troveremmo infatti in una fase troppo avanzata della legislatura per immaginare o progettare soluzioni empiriche di aggiustamento. Occorrerebbe allora esaminare a mente fredda quale apparirà il grado di maturazione dei due partiti, AN e UDC, e la loro candidabilità alla guida  di una coalizione ristrutturata. A prima vista i tempi sono troppo anticipati. Ma un’alleanza composita come la Casa delle Libertà può davvero attendere due anni, il tempo che mancherà alle consultazioni politiche del 2006, con un leader scalfito nel suo prestigio, e con un’esperienza di governo alle spalle che non ne esalta certamente la credibilità?

Insomma, il post-Berlusconi si profila contemporaneamente come un problema di cultura politica del centrodestra, di egemonia (vabbè, di tonalità prevalente) all’interno della coalizione, di credibilità politica dei suoi possibili successori. È anche una questione di tenuta della cornice bipolare, che comincerebbe a incrinarsi non appena venissero ventilate le ipotesi più fumose di governi inciucisti, e anche nel caso supplementare di apertura del dibattito su un’evoluzione proporzionalista.

Fatti tutti i conti, varrebbe la pena che il post-Berlusconi cominciasse con Berlusconi stesso, nel solco di un esito politicamente riscontrato in seguito dalle elezioni politiche. Perché fra i vantaggi dell’alternanza c’è, o almeno così ci siamo raccontati, la punizione politica dello sconfitto, e l’apertura di un nuovo corso. Visto che con Berlusconi sembrano inibite di fatto le strade che accedono a una destra popolar-moderata, si può sempre sperare che sia un risultato elettorale a preparare il campo al nuovo partito, o alla nuova coalizione, che dia al paese una tranquilla riedizione ammodernata di uno specchio politico dell’Italia moderata.