Dopo la light war: Bush e l'Iraq

Di Renzo Guolo Lunedì 01 Settembre 2003 02:00 Stampa

Gli obiettivi che l’amministrazione Bush si era proposta con la guerra all’Iraq appaiono, almeno sino a oggi, lontani dall’essere realizzati. Certo, Saddam è caduto; ma le premesse ideologiche e strategiche che ispiravano l’originario disegno americano sono sottoposte a dure sollecitazioni. Recisione del supposto legame tra Iraq e terrorismo di matrice islamista; nation-building in un paese destinato a essere il laboratorio del «nuovo Medio Oriente»; esportazione della democrazia nel mondo islamico; linkage tra Iraq e questione palestinese; ridimensionamento del multilateralismo come fattore di governance mondiale.

 

Gli obiettivi che l’amministrazione Bush si era proposta con la guerra all’Iraq appaiono, almeno sino a oggi, lontani dall’essere realizzati. Certo, Saddam è caduto; ma le premesse ideologiche e strategiche che ispiravano l’originario disegno americano sono sottoposte a dure sollecitazioni. Recisione del supposto legame tra Iraq e terrorismo di matrice islamista; nation-building in un paese destinato a essere il laboratorio del «nuovo Medio Oriente»; esportazione della democrazia nel mondo islamico; linkage tra Iraq e questione palestinese; ridimensionamento del multilateralismo come fattore di governance mondiale. Questi propositi, basati sulla National Security Strategy del 2002, sembrano oggi perdersi nel pozzo senza fondo del deserto iracheno.

 

La light war e la sottovalutazione del teatro iracheno

Le difficoltà incontrate dalla «coalizione» in campo militare dopo la caduta del regime sono significative. Esse rivelano, come affermano gli stessi capi di Stato maggiore delle forze USA in un documento interno destinato ad approfondire il solco tra leadership militari e politiche, non solo un deficit di pianificazione e organizzazione, ma anche una sottovalutazione delle dinamiche politiche irachene e dell’effetto catalizzatore, in senso antiamericano, che la presenza dei marines avrebbe suscitato nello scacchiere mediorientale.

La «guerra leggera» di Rumsfeld ha costretto i militari USA a rimuovere il «complesso di Westmoreland», eredità della sindrome vietnamita, basato sul presupposto che, per occupare un paese in cui è possibile lo sviluppo di una guerriglia e limitare le perdite, l’esercito americano deve disporre di una superiorità schiacciante. I neoconservatori che fanno capo all’ala «stabilizzatrice» di Rumsfeld e Cheney, fautrice della nuova politica di potenza americana indipendentemente dagli strumenti con i quali si afferma, più che i seguaci dell’ala «rivoluzionaria» di Wolfowitz, teorica dell’esportazione della democrazia nell’Islam, lontana dalle problematiche tipicamente militari nonostante il suo radicamento al Pentagono, hanno ritenuto invece che, una volta liquefatto l’esercito iracheno, messo fuori gioco dall’azione congiunta di Abrams e «biglietti verdi», il paese si sarebbe consegnato entusiasta ai suoi liberatori. Non è andata così; nonostante i diffusi rancori verso Saddam di larga parte degli iracheni. Se sciiti e curdi guardavano con favore alla caduta del regime, non così i sunniti. Il timore di perdere potere, la paura di vendette di massa, accentuata dalla constatazione che gli americani non riuscivano a garantire protezione nemmeno contro i saccheggi e la criminalità, hanno impedito che ampie fette della società sunnita si schierassero con gli occupanti. La leadership sunnita «esterna», in esilio per lungo tempo, non è stata in grado di contrastare questa diffusa percezione, anche a causa dei suoi scarsi legami con la società irachena.

Inoltre il regime di Saddam, come ogni regime totalitario fondato sul dispotico carisma del leader ma anche sulla forza istituzionalizzata di un partito come quello Baath, modellato sull’esperienza dei fascismi europei del XX secolo e veicolo di una inclusiva «nazionalizzazione delle masse» almeno in ambito sunnita, godeva di consenso in alcuni settori della società: le estese burocrazie della sicurezza, ceti economicamente dipendenti dal rapporto con gli apparati amministrativi dello Stato; fruitori di status derivante dall’accesso privilegiato ai canali clientelari di partito. Settori dai quali provengono gli attori della guerriglia esplosa nel momento in cui gli occupanti si sono mostrati incerti sul piano politico e vulnerabili sul piano militare. Ma la guerriglia ha preso piede anche perché, dopo la prima guerra del Golfo, Saddam ha declinato l’ideologia nazionalista, un tempo veicolata dal laico Baath, in forma di islamonazionalismo. Quest’ibrido ideologico è stato tenuto insieme dall’antiamericanismo, divenuto ormai l’unico grande collante, insieme all’Islam, di molte società del mondo arabo.

Sull’ostilità sunnita ha inciso anche il temuto uso della «carta sciita» teorizzato dai neoconservatori. Paul Wolfowitz, John Bolton e soprattutto il nuovo consigliere di quest’ultimo alla Difesa, David Wurmser, guardano alla shi’a come al gruppo più interessato, e religiosamente adatto, alla costruzione della democrazia in Iraq. L’interpretazione, tutta in senso religioso, del grande pellegrinaggio a Kerbala e Najaf e la sottovalutazione di manifestazioni come quelle per il ritorno in patria dell’ayatollah Hakim, rivela il pensiero in materia dei neoconservatori. Essi cercano di rimodellare la leadership sciita puntando su esponenti del clero, che vedono nel ritorno alla tradizione religiosa prekhomeinista (che separa politica e religione nell’attesa del ritorno dell’Imam occulto, il Messia sciita) come l’ayatolla Sistani, o come esponenti di rango inferiore ma già molto influenti, ad esempio Ayad Jamal Al-Din e Hussein Khomeyni. Il nipote del leader della rivoluzione iraniana del 1979, in dissenso da lungo tempo con il principio del «governo islamico», si è ora stabilito a Najaf.

Timorosi per la loro possibile emarginazione, i sunniti, minoritari nel paese ma base di massa del regime di Saddam, hanno alimentato i primi nuclei di guerriglia. Guidata, più che dagli esponenti di prima fila del vecchio regime ancora in libertà, preoccupati soprattutto di sfuggire alla cattura, da quadri intermedi del partito, dell’esercito, delle milizie di regime; ma anche da coloro che sono mossi dal livore antiamericano. Per questo, quella irachena, si presenta come guerriglia diffusa, guidata da leadership che emergono sul campo, non ancora strutturate come i gruppi che agiscono secondo una precisa strategia del terrore.

 

La «carta sciita»

Nemmeno la «carta sciita» si sta rivelando vincente per Washington. Entrati a far parte del Consiglio di governo e poi del governo provvisorio, gli sciiti sono divisi sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli occupanti. La morte dell’ayatollah Hakim, leader carismatico dello Sciri, ucciso nell’attentato di Najaf, sconvolge gli equilibri politici e religiosi nella comunità e potrebbe produrre effetti dirompenti. Proprio come si prefiggevano gli «strateghi della tensione» irachena, in azione già contro l’ambasciata giordana e contro la sede ONU a Baghdad, il cui proposito appare quello di scatenare la guerra civile e destabilizzare ulteriormente il paese.

L’attentato alla moschea di Alì è di tipo strategico: mira a produrre un drastico mutamento politico. Storico oppositore di Saddam, Hakim era l’uomo di Teheran in Iraq. Fautore prima dell’immediato ritiro dal paese degli americani, pena lo scatenarsi di una guerriglia sciita animata dal suo «Esercito di Badr», il braccio armato dello Sciri, Hakim decise poi di dare il via libera alla partecipazione del suo movimento al governo provvisorio iracheno. Nella nuova strategia era avvertibile l’influenza di Teheran. In particolare del governo Khatami, che ha cercato di frenare l’antiamericanismo dello Sciri, temendo che la tensione tra sciiti iracheni e americani potesse coinvolgere gli sciiti iraniani, accelerando così lo scontro nella Repubblica islamica tra l’ala riformista del regime e i conservatori, stretti attorno alla guida religiosa Khamenei. La morte di Hakim rimescola le carte senza volto della questione sciita.

L’attentato di Najaf rinvia alla mappa dei nemici della «carta sciita». Molti erano interessati all’eliminazione del leader dello Sciri. Innanzitutto i seguaci di Saddam. Bersaglio e luogo, il mausoleo di Alì a Najaf, fanno pensare a sunniti di matrice laica nazionalista, decisi a provocare la libanizzazione del teatro iracheno, fomentando uno scontro interconfessionale che renderebbe impraticabile l’esperienza del governo provvisorio. Ma non è da scartare nemmeno l’ipotesi di una resa dei conti tra le fazioni sciite. Con l’eccezione di quelle radicali, le leadership sciite avevano deciso, tatticamente, di non opporsi frontalmente agli USA. Nello stesso Sciri prevaleva la linea che voleva gli americani lasciati a logorare nella guerriglia contro i sunniti, per esercitare poi, nel momento della loro massima debolezza, una decisa pressione nei loro confronti.

A Najaf, Hakim giocava anche una partita per l’egemonia nel campo religioso; puntando a diventare il più autorevole leader della comunità sciita. Nella gerarchia di tipo orizzontale che la dirige, fondata sul sapere teologico, il suo dominio era però contrastato dall’ayatollah Sistani, leader della corrente quietista. Corrente che, per complesse ragioni legate alla dottrina dell’imamato predica l’indifferenza verso il potere politico purché questo consenta l’adempimento degli obblighi di fede. Sistani, seppur d’accordo con la parola d’ordine «l’Iraq agli iracheni», è alieno dall’Islam politico e da ogni forma di resistenza attiva nei confronti degli occupanti.

Sistani e i suoi alleati religiosi erano già stati intimiditi dal gruppo radicale guidato da Mukhtada al Sadr con il linciaggio, nella stessa moschea di Alì, dell’ayatollah Khoi, leader quietista e, soprattutto, fiduciario di Blair e Bush. Khoy aveva cercato, subito dopo il rientro dall’esilio londinese, di indurre Sistani a un’alleanza comune contro Hakim. Ma la sua morte e la svolta dello Sciri avevano convinto gli americani a puntare sul leader dello Sciri.

Mukhtada al Sadr è figlio dell’ayatollah Mohammad Baqir al Sadr, leader religioso fatto uccidere da Saddam Hussein e legato all’islamismo rivoluzionario iraniano. Sadr padre era uno degli estensori materiali della costituzione della repubblica islamica iraniana. Mukhtada Al Sadr si è opposto duramente alla svolta moderata di Hakim, accusando lo Sciri di tatticismo compromissorio e continuando a invocare la cacciata degli anglo-americani dall’Iraq. Eliminato Hakim, che frenava l’impazienza rivoluzionaria del suo gruppo, il campo sciita rischia ora di essere preda delle posizioni più estreme. Anche perché il giovane Al Sadr ha stretto solidi rapporti con le fazioni radicali del regime iraniano, un potere parallelo che controlla Pasdaran, Bassidjie e l’intelligence. Il giovane Al Sadr trae indubbi vantaggi dalla scomparsa di Hakim: in politica il vuoto si riempie e parte delle stesse milizie dell’Esercito di Badr, non più orientate dal loro leader carismatico, non nascondono oggi simpatie per lui.

Ma anche se l’attentato fosse opera di jihadisti sunniti legati al wahhabismo, dottrina rigidamente antisciita a causa dell’avversione per il culto dei santi e la teologia imamita, la situazione non sarebbe meno preoccupante. Significherebbe che la strategia della guerra civile è alimentata anche da gruppi, probabilmente guidati da sauditi o yemeniti, legati ad Al Qaeda, decisi a provocare uno scontro devastante nel paese. Queste spinte convergenti hanno, comunque, un comune obiettivo: rendere impraticabile la «carta sciita» agli americani.

 

La «carta moschicida»

Come ha riconosciuto lo stesso Bush, l’Iraq è divenuto oggi l’epicentro della guerra al terrore. Nel paese, prima e dopo la fine ufficiale delle ostilità, sono affluiti migliaia di jihadisti provenienti da ogni angolo del mondo musulmano, decisi a trasformare il teatro iracheno in quello che l’Afghanistan fu per l’Unione Sovietica negli anni Ottanta. Come in passato ai piedi dell’Hindu Kush, oggi in Iraq si forgia una nuova internazionale islamista combattente. Secondo le linee dettate da Abdallah Azzam, giordano di origine palestinese, prima docente e poi compagno d’armi di Bin Laden, mente ideologica e organizzativa del jihad contro i sovietici, i militanti del «partito di Dio» perseguono oggi la sconfitta sul campo dell’America. Con il consenso più meno tacito di Stati e pezzi di regimi, decisi a contrastare per ragioni diverse la presenza americana in Medio Oriente.

Di fronte a questo scenario, la teoria della «carta moschicida», uscita dal cappello degli strateghi di Washington nel tentativo di razionalizzare il preoccupante fenomeno della mobilitazione islamista in Iraq, si rivela, sempre più, un’infausta profezia che si autoavvera. L’Iraq è oggi, davvero, quel focolaio di terrorismo evocato da Bush per giustificare l’intervento militare. E la possibilità di infliggere una dura lezione agli jihadisti concentrati «provvidenzialmente» in gran numero nell’area, resta ancora una mera ipotesi, dati gli equilibri sul terreno imposti dalla light war.

 

Lo scacco del linkage e il ruolo dell’ONU

Anche il linkage tra Road Map e il cambio di regime in Iraq, invocato da Bush come una delle ragioni della guerra, mostra la corda. La caduta di Saddam non ha mutato le strategie degli attori nella scena israelo-palestinese. Il governo Sharon non affronta i nodi, decisivi, dello smantellamento delle colonie e del Muro, e prosegue la politica delle «eliminazioni mirate». Hamas e la Jihad rompono l’hudna e riprendono gli attacchi terroristici. Abu Mazen è costretto a lasciare. E la drammatica spirale attentati-rappresaglie non pare possa essere interrotta senza un intervento dell’America, capace di far sentire il suo peso su entrambi i contendenti. Ipotesi che presuppone un cambio di strategia politica in Medio Oriente, che sembra ancora lontana. Tanto più in vista delle elezioni presidenziali del 2004.

La crisi irachena mette in luce anche la crisi dell’unilateralismo. Per uscire dalla trappola del Vietnam di sabbia, l’America deve chiedere aiuto a quello stesso ONU che ancora recentemente Bolton bollava come inutile orpello del passato. Il bisogno di truppe e le numerose perdite mettono in difficoltà Washington. Così come il lievitare dei costi di «Iraqi Freedom» e della ricostruzione del paese. L’arma del petrolio è spuntata dagli attentati agli oleodotti e dall’obsolescenza della tecnologia estrattiva. E la Conferenza dei donatori rischia il fallimento senza l’avallo ONU: Banca mondiale e Fondo monetario Internazionale continuerebbero, in tal caso, a restare defilati. Bush deve chiedere così al Congresso lo stanziamento record di 87 miliardi di dollari per proseguire la campagna irachena. Ma ricorrere al Palazzo di Vetro, mossa obbligata, poiché non è possibile abbandonare precipitosamente l’Iraq senza destabilizzare ulteriormente la regione e favorire il radicalismo islamico, significa accettare un compromesso con l’ONU.

Sei mesi dopo, la guerra rivela che la volontà di «potenza trasformativa» intrinseca all’ideologia dell’amministrazione Bush è in panne. E che, implementando una simile linea politica, il Medio Oriente resta, come afferma con intenti assai diversi il neocons Gerecht, «politicamente disfunzionale» per l’America.