Ma la legge Moratti è regressiva

Di Andrea Ranieri Lunedì 02 Giugno 2003 02:00 Stampa

La ragione fondamentale per cui è assolutamente essenziale tenere insieme la ferma opposizione alla legge Moratti e la ricerca di tutte le strade possibili per portare avanti un percorso di cambiamento della scuola, è data dal fatto che siamo stati noi a volere e a promuovere la riforma della scuola, mentre la legge Moratti tende a chiudere gli spazi di cambiamento e di innovazione che la spinta riformatrice del centrosinistra e della parte migliore della scuola italiana ha posto in essere.

 

La ragione fondamentale per cui è assolutamente essenziale tenere insieme la ferma opposizione alla legge Moratti e la ricerca di tutte le strade possibili per portare avanti un percorso di cambiamento della scuola, è data dal fatto che siamo stati noi a volere e a promuovere la riforma della scuola, mentre la legge Moratti tende a chiudere gli spazi di cambiamento e di innovazione che la spinta riformatrice del centrosinistra e della parte migliore della scuola italiana ha posto in essere.

Un atteggiamento puramente difensivo non è dunque possibile (soprattutto per noi «la scuola deve cambiare»), ma nemmeno l’acquiescenza alle logiche esplicitamente controriformatrici della legge del centrodestra, che finisce per colpire proprio le esperienze più innovatrici che hanno attraversato la scuola italiana.

La riforma Berlinguer-De Mauro partiva dal fatto che la scuola italiana produce pesantissimi tassi di dispersione (il 30% dei ragazzi fra i 15 e i 18 anni non sono coinvolti in alcun percorso formativo); che questa dispersione è a tutt’oggi originata dalle condizioni socio-economiche delle famiglie e che, proprio per questo, non svolge una funzione di mobilità sociale; ha un basso tasso di innovazione didattica; tarda a internalizzare i mutamenti culturali, le diverse modalità, i diversi linguaggi, con cui i bambini, gli adolescenti, i giovani si rapportano al mondo, e le domande di senso che il mondo rivolge alla scuola. La riforma Berlinguer-De Mauro, in questa direzione, affrontava alcuni nodi fondamentali:

  1. Generalizzare e rafforzare la formazione educativa della scuola dell’infanzia, cogliendo in essa il punto nodale di una scuola che vuole superare le differenze derivanti dalle condizioni socio-culturali di partenza. È un fatto che i tassi di dispersione scolastica rispecchiano in Italia e nel mondo la qualità e la generalizzazione della scuola dell’infanzia.
  2. Riformare profondamente il ciclo di base, in una visione unitaria che eviti il salto, la rottura pedagogica fra elementari e medie, portando anche nella scuola media primaria la cultura della priorità dell’apprendimento e della molteplicità delle intelligenze, per evitare che lo spezzettamento delle discipline e l’insegnamento brutalmente top down che ne consegue, provochino la perdita d’interesse allo studio, e la caduta della stima di sé, di quanti non possiedono in famiglia gli «integratori disciplinari» e sono portatori di approcci al sapere diversi dalla logica verticale delle discipline. Come è ormai ampiamente dimostrato da molteplici indagini nazionali ed internazionali è alla fine delle medie che i livelli di apprendimento dei nostri studenti precipitano agli ultimi posti delle graduatorie internazionali, e si divaricano i risultati sulla base dei titoli di studio dei genitori, con i distinti e gli ottimi che si addensano sui figli dei laureati, e i sufficienti sui ragazzi provenienti da famiglie di livello culturale medio-basso. È da lì che parte la divaricazione dei percorsi, e lì è già possibile riconoscere quelli che saranno i futuri dispersi.
  3. Innalzare l’obbligo dopo il ciclo di base unitario, con una forte finalità orientativa, anche se già innestato sui percorsi delle superiori, e con ampie possibilità di integrazione fra scuola e formazione professionale, per rendere da un lato possibile e sensata la prosecuzione del percorso scolastico anche a chi si sente scoraggiato da un’offerta puramente scolastica, e per offrire elementi di saper fare anche a quei ragazzi portati a proseguire nei percorsi liceali. Un approccio agli studi superiori di questo tipo può consentire che i percorsi con cui si consegue l’obbligo formativo fino a 18 anni siano diversificati ma non gerarchizzati e non irreversibili.

Questa riforma si è innestata su pratiche diffuse che vanno in questa direzione, scelte, decise, progettate autonomamente da molte scuole.

L’autonomia è infatti il cuore della riforma: una scuola basata sulla centralità dell’apprendere, capace di rispondere ai bisogni e ai desideri diversificati dei propri studenti, di integrare sapere col saper fare, ha bisogno di esercitare responsabilità, di ampi margini per progettare i percorsi formativi, di grande apertura alla cultura del territorio in cui è inserita.

Lo stesso confronto con l’innovazione tecnologica e culturale non può avvenire in maniera rigida e prescrittiva, ma ha bisogno di una progettazione dell’offerta formativa finalizzata, e adeguata ai contesti sociali e territoriali in cui l’attività della scuola si svolge. Anche su questo terreno la scuola italiana ha cominciato a cambiare; sono cominciati a fiorire studi e ricerche in cui per la prima volta la scuola viene considerata come una realtà organizzativa, in grado di assicurare flessibilità rispetto ad una domanda variabile e diversificata, e una qualità valutabile dei progetti educativi. La legge Moratti non è l’avvio di un processo riformatore su una scuola immobile e bloccata, ma interviene su un processo di mutamento in corso, che sta già dando importanti risultati. L’opposizione ferma e risoluta nasce dal fatto che essa non colpisce le arretratezze della scuola italiana, ma mette in discussione proprio i più significativi cambiamenti, innestando processi di vera e propria regressione culturale.

Infatti: 1) La scuola dell’infanzia è spinta, con l’anticipo a 2 anni e mezzo, a svolgere una funzione di puro e semplice sostegno alla genitorialità, che diventa prevalente rispetto ai compiti e alle finalità educative. Lo stesso carattere riveste l’anticipo a 5 anni e mezzo per l’ingresso alle elementari, che, come dimostrano i dati delle iscrizioni di questo primo anno di parziale applicazione, ha «successo» nei territori in cui mancano le scuole dell’infanzia, e viene pressoché ignorata dove la scuola dell’infanzia svolge adeguatamente la sua funzione educativa.

2) Tra le elementari e le scuole medie inferiori viene innalzata una vera e propria barriera, lasciando cadere nella legge e nella prima bozza di decreto applicativo la timida riconferma della «comprensività» – un biennio integrato fra la quinta elementare e la prima media – che era contenuta nel documento Bertagna.

Nelle elementari si ritorna alla logica del maestro unico, «tuttor» più che tutor, dal momento che gli viene affidata pressoché l’intera attività educativa, facendo venir meno quella integrazione fra scuola della socializzazione e cultura disciplinare, che ha caratterizzato le scuole elementari del team educativo.

La barriera è confermata dalle indicazioni per la stessa formazione universitaria degli insegnanti, in cui agli insegnanti delle scuole medie viene proposto un percorso prevalentemente disciplinare. Il consenso è ricercato fra quella parte del corpo insegnante delle medie primarie che si era opposta alla riforma, temendo di perdere «status» rispetto ai colleghi delle elementari e delle superiori, e a scapito dei tentativi di innalzare la qualità didattica e ridurre le differenze derivanti dalle condizioni socio economiche delle famiglie.

3) L’eliminazione dell’anno di obbligo scolastico fa degli esiti delle medie il punto di partenza per una differenziazione di percorsi rigida e che può segnare tutta la vita – non solo quella scolastica – delle persone, la loro capacità di «long life learning», che è possibile solo se fin dall’inizio si tiene insieme sapere e saper fare, e non divaricando gli indirizzi, con il secondo, quello professionalizzante, che rischia di essere il canale obbligato per quelli che escono dalla scuola dell’obbligo con gli esiti più scadenti.

4) Vengono ridotti i margini di autonomia delle scuole sia attraverso le politiche degli organici, la cui riduzione, secondo parametri rigidi, ha effetti non solo quantitativi ma anche qualitativi, diminuendo la possibilità di scelta delle scuole nell’utilizzo degli organici secondo i propri progetti educativi, sia con la norma che assegna alle regioni il 15% dei programmi, da definirsi, addirittura, con una legge regionale. Le scuole saranno in balìa di due centralismi: quello ministeriale, attraverso il controllo degli organici e delle risorse, e quello regionale, attraverso una indebita e impropria riserva sui programmi di insegnamento.

Non una riforma quindi, ma un coerente tentativo di riportare indietro il processo di cambiamento usando esplicitamente il consenso di quelle componenti della scuola che più attivamente avevano resistito alla riforma di Berlinguer e De Mauro. Il ritorno indietro non è però un semplice ritorno al passato, perché la Moratti si trova a dover fare i conti con spinte forti della sua maggioranza, tese a ridimensionare il ruolo dell’offerta formativa pubblica e ad aprire spazi a quella sorta di familismo liberista che è componente essenziale delle politiche sociali del centrodestra. La scuola più povera e più rigida diventa così funzionale ad una «personalizzazione» dei percorsi che, più che operare sulla molteplicità e sulla diversità delle intelligenze, è orientata dalla domanda delle famiglie, e ne rispecchia le diversità di condizioni sociali e culturali.

Fin dalla scuola dell’infanzia, attraversando la scuola di base, in cui la riduzione e l’irrigidimento del tempo scuola di tutti, è compensato dall’apertura di finestre opzionali attivate prevalentemente sulla base della domanda delle famiglie, fino alla separazione precoce dei percorsi della scuola secondaria. Il successo formativo è garantito a tutti se tutti stanno al loro posto, che è il posto loro assegnato dalle condizioni sociali e culturali delle famiglie da cui provengono. Il tutto è riassunto dalla cultura del «bonus», come sostegno alle famiglie che, di fronte al calo dell’offerta formativa pubblica, sono in grado di investire in proprio nel futuro dei loro figli. La scuola, da bene pubblico fondamentale per assicurare a tutti un diritto fondamentale di cittadinanza e le condizioni della mobilità sociale, viene risucchiata nella logica dei servizi a domanda individuale, in cui è la qualità della domanda – affidata alle famiglie – a determinare la qualità dei percorsi.

Il lungo lavoro, che è alla base della migliore cultura pedagogica laica e cattolica, per leggere la domanda inespressa, per valorizzare i saperi impliciti, la cultura negata delle classi subalterne, è bruscamente svalorizzato. I nuovi occhiali con cui la scuola è chiamata a leggere il mondo, sanno solo rispecchiare il mondo così com’è. Non c’è da stupirsi, quindi, se la legge Moratti provoca anche reazioni difensive da parte di quelli stessi che aveva attratto proprio in nome del blocco del processo riformatore. Sempre più viene infatti in chiaro come la scuola della Moratti sia semplicemente meno scuola pubblica, meno organici, meno risorse, meno tempo pieno e meno tempo prolungato, minor possibilità di svolgere seriamente il proprio lavoro. Ed emerge sempre più la differenza sostanziale fra la nostra idea del cambiamento e la loro: la personalizzazione orientata dal nostro «non uno di meno», presupponeva certo una rottura degli schemi autoreferenziali della vecchia scuola, ma spingeva verso un arricchimento e un potenziamento dell’offerta formativa pubblica; il loro «si salvi chi può» è del tutto compatibile con la sua riduzione.

Il problema che hanno davanti le forze riformatrici è a questo punto quello di mettere in atto un’iniziativa per salvaguardare e sviluppare il pensiero e la pratica della riforma della scuola, così come è vissuta nelle scuole migliori, nelle realtà territoriali più consapevoli della centralità dell’educazione e del sapere per lo sviluppo e la coesione sociale. Nessun pasticcio quindi con il centrodestra, ma un’azione attenta per salvaguardare tutti gli spazi di autonomia, e per dare uno sbocco riformatore all’insofferenza crescente del mondo della scuola verso la legge Moratti.

Innanzitutto contrastando le ferite che si stanno infliggendo alla scuola della autonomia, mettendo in discussione, prima di tutto a livello parlamentare, un utilizzo della delega che tende a dare alle scuole indicazioni programmatiche e organizzative rigide, palesemente in contrasto con l’incardinamento costituzionale che ha l’autonomia scolastica nel nuovo titolo V della Costituzione. E sostenendo quelle scuole che hanno progettato un’idea aperta e flessibile di utilizzazione degli organici, in funzione dei propri progetti di offerta formativa.

Occorre impegnarsi perché le regioni – a partire da quelle governate dal centrosinistra – riconsegnino alle scuole dell’autonomia la quota di programmi che la legge Moratti affida a loro. Le culture e le lingue dei territori possono essere valorizzate attraverso provvedimenti regionali che offrano alle scuole un quadro di opportunità positive attraverso cui integrare il proprio Piano per l’offerta formativa. L’intesa fra governo di centro sinistra e regione sarda, che ha prodotto la legge regionale n.26 sulla lingua e la cultura sarda nelle scuole, è un punto di riferimento importante, purtroppo scarsamente operativo per le inadempienze e i ritardi applicativi del governo regionale di centrodestra.

Le regioni possono altresì esercitare un ruolo decisivo per evitare la canalizzazione precoce dei ragazzi dopo la terza media, esercitando pienamente le competenze sulla formazione professionale a loro assegnate dalla Costituzione. Se è per loro ovviamente impossibile reintrodurre tramite legislazione regionale l’obbligo scolastico, è però possibile – e le regioni da noi governate lo stanno facendo, o con proprie leggi, o con propri atti di indirizzo – finanziare in via prioritaria i percorsi di formazione professionale che propongono, soprattutto nel primo biennio, percorsi integrati con la scuola e che perseguono standard formativi tali da mettere in grado i ragazzi, al termine del biennio, di continuare sia nella formazione professionale che nella scuola.

Si apre in questo modo uno spazio importante alla formazione professionale, e si invita la scuola a confrontarsi con nuovi percorsi educativi, capaci di valorizzare il sapere che si acquisisce attraverso il saper fare, indispensabile per tenere dentro i percorsi formativi molti ragazzi che un sapere astratto e disciplinare tende inesorabilmente a disperdere. Ed è questo il modo per far decollare davvero un serio indirizzo professionale legato alle dinamiche del mondo del lavoro e al mutamento delle professioni, ma capace di dare al ragazzo le competenze necessarie ad apprendere per tutta la vita. La formazione professionale acquista qualità, in tutto il percorso dell’obbligo formativo, se si fonda su basi solide. La proposta di una canalizzazione precoce, il legittimo sospetto, data la confusione e la vaghezza delle intenzioni ministeriali, che essa porti con sé, schiacciandola verso il basso, la stessa istruzione tecnica e professionale, sta causando un effetto contrario a quello che la legge dice di voler perseguire: una diminuzione delle iscrizioni alle scuole a indirizzo tecnico professionale e un incremento delle iscrizioni ai licei.

Ma le regioni e il sistema degli enti locali hanno anche un ruolo decisivo sul dimensionamento scolastico, che dovrà uscire sempre di più da una logica di razionalizzazione amministrativa e nutrirsi invece di attenzione alle realtà territoriali e alla progettualità didattica. La «comprensività», l’integrazione verticale tra scuola dell’infanzia, scuola elementare, scuola media di primo grado, può essere perseguita per questa via, assistendo le scuole dell’autonomia nella progettazione dei percorsi adeguati alle realtà del territorio e alla nuova domanda sociale. In primo luogo l’integrazione di bambini e ragazzi di paesi e di lingue diverse.

Analogo impegno stanno dimostrando i comuni nell’evitare la perdita del valore educativo della scuola dell’infanzia, da un lato contrastando con successo il tentativo del governo di attivare da subito, senza risorse dedicate, senza una adeguata preparazione del personale, l’anticipo a due anni e mezzo delle iscrizioni, dall’altro progettando percorsi in continuità fra i 0 e i 6 anni, capaci di tenere insieme il sostegno alla genitorialità con l’attenzione ai tempi di apprendimento e di crescita dei bambini, puntando a generalizzare e a rafforzare il carattere educativo degli asili nido in alternativa all’abbassamento della qualità educativa della scuola dell’infanzia, che la pura e semplice applicazione dell’anticipo provocherebbe.

Questi punti – e altri se ne potrebbero citare, a partire dall’impegno per lo sviluppo dell’educazione degli adulti, del tutto ignorate dal progetto del centro destra – sono, mi pare, sufficientemente esemplificativi dell’atteggiamento tenuto dall’Ulivo unitariamente, nei confronti della legge Moratti: non chiusura difensiva, ma al contrario un’azione coerente perché le parole riforma e cambiamento possano continuare ad avere senso contro e oltre la legge Moratti. Si deve in parte a questo atteggiamento se la maggioranza ha dovuto riaprire, a livello istituzionale (nei rapporti con le Regioni e gli Enti Locali) e a livello sociale con le Confederazioni sindacali, quel confronto sugli esiti concreti delle proprie proposte che ha pervicacemente negato a livello politico e parlamentare. E che ha dovuto talvolta prendere atto della insostenibilità e della impraticabilità di molte delle proprie proposte.

Mi sembra questo un modo di operare concretamente riformista, che sostiene nel presente la riforma che c’è, quella che vive nelle scuole e nei territori, e si candida al governo del paese proprio per rilanciare quel percorso di cambiamento che la legge Moratti rende più impervio e difficile. Dimostrando nei fatti, a partire dalle nostre regioni, dalle nostre province, dai nostri comuni, quella centralità del sapere per le politiche di sviluppo e di coesione sociale, che nell’azione governativa precedente abbiamo più predicato che praticato. A meno che non valga la regola che, per essere riformisti, occorre trovare necessariamente una via di mezzo tra noi e loro, anche quando loro si sono inventati una legge con il fine esplicito di affossare una nostra riforma.