Il concetto di dignità: i diritti umanicome nuovo codice dell'umanità

Di Antonio Cassese Giovedì 26 Giugno 2008 19:03 Stampa
Il diffondersi della cultura dei diritti umani nella comunità internazionale ha radicato il concetto di rispetto della dignità di ogni persona, senza discriminazione alcuna. Rimane però un divario enorme tra i progressi a livello normativo e la deludente attuazione pratica degli imperativi etico-giuridici. Purtroppo l’azione dei governi e delle organizzazioni intergovernative è troppo condizionata da interessi politici, economici, commerciali. Bisogna dunque puntare soprattutto sulla società civile internazionale, che agisce sia per stigmatizzare atrocità e arbitri di governi e gruppi privati, sia per pungolare i governanti più progressisti.

L’irrompere della cultura dei diritti umani nella comunità degli Stati

È tempo di bilanci, in materia di diritti umani: sono passati sessant’anni dall’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani, il testo che ha segnato una svolta nella comunità internazionale. Ma è difficile fare bilanci, perché quella dei diritti umani è una materia complessa e ricchissima di implicazioni politiche, giuridiche e sociali. Quella dei diritti umani è stata una rivoluzione silenziosa ma profonda nella comunità internazionale, iniziata con il famoso messaggio al Congresso del presidente Franklin Delano Roosevelt il 6 gennaio 1941, quando il grande presidente proclamò con forza che quattro libertà fondamentali (la libertà di coscienza, la libertà di religione, la libertà dal bisogno, e la libertà dalla paura) dovevano essere riconosciute non solo nei pochi Stati democratici allora esistenti, ma in tutto il mondo. Da allora la cultura dei diritti umani ha lentamente modificato istituzioni e rapporti internazionali e sollecitato dall’alto una profonda trasformazione di regimi politici e sociali, sradicando anche miti consolidati (quali quello del “dominio riservato” di ogni Stato, in cui nessun altro potrebbe ingerirsi, un mito cui solo la Cina rimane abbarbicata). Oggi si è realizzato il concetto profetico di Kant: la violazione di un diritto in un paese è sentita come tale in ogni altra parte del mondo. E perciò ogni Stato, e forse anche gruppi non statali, sono legittimati a esigere il rispetto dei diritti umani da qualunque altro governo. La distinzione tra cittadino e straniero è stata travolta: esiste ora solo la persona umana (un bellissimo concetto che dobbiamo soprattutto al personalismo cattolico di Mounier e Maritain); gli Stati Uniti sono tra i pochissimi Stati che continuano ad aggrapparsi a quella distinzione arcaica. È morto il vecchio dogma che faceva degli Stati sovrani gli unici soggetti della comunità internazionale: oggi anche gli individui hanno voce in capitolo, sebbene in misura ridotta e variabile a seconda dell’area geografica del pianeta. Altra innovazione: la società internazionale, prima fondata sul concetto che ogni Stato è in pratica vincolato solo dalle norme che ha approvato (ogni Stato è legislatore di se stesso), ha visto emergere alcuni “principi costituzionali supremi” tra cui il divieto del genocidio, della schiavitù, della tortura, della discriminazione razziale. Questi divieti, che formano il cosiddetto jus cogens, non possono essere derogati da accordi tra due o più Stati: essi limitano quindi la potestà normativa di ogni soggetto internazionale, gerarchizzando il diritto in nome della tutela dei diritti umani e della pace.

Il concetto di eguaglianza

La rivoluzione dei diritti umani ha posto al cuore della comunità internazionale due concetti fondamentali, strettamente e indissolubilmente legati l’uno all’altro. Il concetto che non si può e non si deve più distinguere, dal punto di vista dei diritti che si possono invocare – ossia delle pretese, delle legittimazioni, delle rivendicazioni che ognuno può accampare – tra cittadino e straniero, tra uomo e donna, tra bianco e nero, tra cristiano ed ebreo, tra musulmano e non musulmano, tra credente e laico. In breve, il concetto di eguaglianza di tutti gli esseri umani, almeno dal punto di vista di ciò che essi hanno diritto a esigere dalla società e dagli altri. Anche qui, come in tanti altri campi, questo concetto non è stato che la traduzione in termini etico-politici di un grande principio religioso: come scrisse San Paolo nella straordinaria epistola ai Galati: «Non vi è né ebreo né greco, né schiavo né uomo libero, né maschio né femmina, perché siete tutti eguali in Gesù Cristo».

Il concetto di dignità umana

Il secondo concetto è quello di dignità della persona umana. È un concetto che Kant aveva indagato già nel 1785 nella “Fondazione della metafisica dei costumi”. In quell’opera così densa e profonda, il grande filosofo aveva notato che: «Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcosa d’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti è ciò che ha una dignità (…). Ciò che permette che qualche cosa sia fine a se stessa non ha solo un valore relativo, e cioè un prezzo, ma ha un valore intrinseco, e cioè una dignità (…). L’umanità [l’essere uomo] è essa stessa una dignità: l’uomo non può essere trattato dall’uomo (da un altro uomo o da se stesso) come un semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine. In ciò appunto consiste la sua dignità (personalità), ed è in tal modo che egli si eleva al di sopra di tutti gli esseri viventi che non sono uomini e possono servirgli da strumento». Nella “Metafisica dei costumi”, del 1797, Kant torna sull’argomento, sottolineando tra l’altro un principio importantissimo, e cioè che è contrario al concetto di dignità punire in modo disumano anche un «uomo malvagio»: «Non posso rifiutare neanche al malvagio il rispetto che gli devo in quanto uomo, perché il rispetto che gli è dovuto in quanto uomo non gli può essere tolto neanche se con i suoi atti se ne rende indegno. E perciò vi possono essere pene infamanti, che disonorano tutta l’umanità (ad esempio, lo squartamento, il dare i criminali in pasto ai cani, il tagliar loro naso e orecchie). Per l’uomo geloso del proprio onore (e che esige, come ognuno deve farlo, il rispetto degli altri) queste pene non solo sono più dolorose della perdita dei suoi beni e della vita, ma fanno anche arrossire di vergogna lo spettatore per il fatto di appartenere a una specie che si comporta in tal modo». Queste parole racchiudono un’altissima lezione di umanità. Pensate a coloro che ogni giorno, in tante parti del mondo, tor turano, seviziano o comunque maltrattano persone sospettate di terrorismo, sentendosi legittimati a umiliare e vessare gli uomini che hanno tra le mani solo perché hanno compiuto o potrebbero aver compiuto atti atroci di terrorismo. Kant ci dice che queste persecuzioni e torture sono contrarie non solo alla dignità della vittima ma anche a quella del carnefice.

Orbene, questi concetti, elaborati in modo ineguagliato dal filosofo di Königsberg, hanno stentato a tradursi in norme giuridiche vincolanti a livello universale. La nostra Costituzione, all’articolo 3, comma 1, sancisce in modo efficacissimo il concetto, legandolo strettamente a quello di eguaglianza: «Tutti i cittadini [ora, tutti gli esseri umani presenti sul territorio dello Stato] hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Un anno dopo l’approvazione di questo testo e di tutta la Costituzione italiana, a livello planetario venne adottata la Dichiarazione universale, che accoglie gli stessi principi, anche se li formula in maniera meno icastica: all’articolo 1, la Dichiarazione statuisce che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Ma c’è voluto molto per specificare e tradurre questo principio generale in comandi giuridici concreti e operativi. È stato necessario adottare varie convenzioni internazionali che, ratificate da molti Stati, sono diventate imperativi giuridici all’interno di ciascuno di essi. Pensiamo soprattutto alle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (quella, del 1951, sull’eguale remunerazione, e quella, del 1958, contro la discriminazione nell’impiego e nell’occupazione), alla fondamentale Convenzione dell’ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, del 1965, alla Convenzione dell’UNESCO del 1960 contro la discriminazione nell’istruzione, alla Convenzione del 1979 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, nonché alla Dichiarazione del 1981 sull’eliminazione di ogni forma di intolleranza e di discriminazione basate sulla religione o le credenze, e a quella, del 1993, sull’eliminazione della violenza contro le donne. Non meno importante è la Convenzione del 1984 contro la tortura e ogni trattamento o punizione crudele, disumano o degradante. Il progresso dei diritti umani: un nuovo codice di comportamento e nuovi parametri di valutazione dell’azione dei governi

Cosa ha comportato di nuovo, nella comunità internazionale, la cultura dei diritti umani, così come si è affermata dal 1945 ad oggi? Non solo ha cercato di radicare nella società degli Stati un nuovo ethos, un nuovo modo di vedere e concepire i rapporti tra esseri umani e tra essi e i vari Stati in cui si suddivide la comunità internazionale. Essa ha segnato anche l’introduzione di un nuovo modo di guardare ai comportamenti degli uomini e di classificarli in base a un nuovo criterio di valutazione. Quasi ogni giorno i quotidiani ci danno resoconti di massacri, discriminazioni, torture, violenze contro donne e bambini. Gli abomini e la sopraffazione non sono certo fenomeni nuovi nella storia. Ora però abbiamo un nuovo parametro di giudizio: possiamo qualificarli come violazione di questo o di quel diritto umano fondamentale. È un progresso indubbio: la comunità internazionale può infatti guardare con occhi nuovi a ciò che avviene e formulare giudizi – condanne, denunce, elogi – che prima operavano solo a livello nazionale. Prima del 1948 l’opinione pubblica di uno Stato poteva protestare per le violazioni commesse dal governo di quello Stato, o da uno Stato straniero, e usava a tale scopo, come parametro di giudizio, i valori dell’Occidente e cioè, in pratica, le Costituzioni dell’Europa occidentale o degli Stati Uniti d’America. Si protestava, ad esempio, perché nell’Unione Sovietica i fondamentali diritti di libertà venivano gravemente conculcati, perché il regime fascista soffocava in Italia la libertà di espressione e di associazione, perché in molti paesi gli ebrei venivano perseguitati, perché nelle colonie britanniche le popolazioni indigene erano sottoposte a uno sfruttamento disumano, perché negli Stati Uniti d’America i cittadini di pelle nera venivano discriminati. A partire dal 1948, dall’approvazione della Dichiarazione universale, in tutto il mondo disponiamo di un codice internazionale che non solo contiene una serie di precetti, e così serve a farci decidere come comportarci, ma ci consente anche di valutare i comportamenti delle autorità governative. Disponiamo ora di parametri che valgono sia per gli Stati che per gli individui: i principi internazionali sui diritti umani impongono linee di comportamento, esigono dai governi azioni di un certo tipo e nello stesso tempo legittimano gli individui a levare alta la loro voce se quei diritti non vengono rispettati.

I diritti umani continuano però a essere violati impunemente

Malgrado il fiorire della cultura dei diritti umani e l’esplosione normativa che si è avuta a livello internazionale, i diritti umani continuano però a essere calpestati ogni giorno in tante parti del mondo, e troppo spesso impunemente. È inevitabile dunque che tutti coloro che seguono con inquietudine le vicende dei nostri tempi si pongano con angoscia alcune domande elementari: perché tanta violenza? E poi: cosa possiamo fare per arginarla? Sono domande che ci tormentano ma che invece fanno sorridere di commiserazione quelli che Benedetto Croce chiamava con giusto disprezzo «gli animi grossolani, economico-giuridici», coloro cioè la cui vita ha «una forte impronta utilitaristica».

La prima domanda sembra semplice, ma è invece oltremodo complessa: perché tanti massacri, atrocità, torture, uccisioni? Perché tanti fanatismi e tanta intolleranza? È una domanda quasi metafisica, perché in fondo con essa ci si chiede perché esiste il male e cosa spinge gli uomini a essere come sono. Grandi filosofi hanno già riflettuto a lungo sul tema: si pensi ad Agostino, a Spinoza, a Kant e, più vicino a noi, a Martin Buber. E tutti sanno che nel 1932 Einstein, quando la Società delle Nazioni e il suo Istituto internazionale di cooperazione intellettuale gli chiesero di scandagliare le motivazioni del male supremo, la guerra, si rivolse a Freud, pensando che solo colui che era abituato a guardare nell’oscuro dell’animo umano potesse forse abbozzare una risposta. Ma la risposta di Freud fu alquanto scettica: a suo giudizio le forti pulsioni distruttive, le pulsioni all’odio e alla distruzione (tanathos) che lottano nel nostro animo contro le pulsioni libidiche (eros) non cesseranno mai di operare; guerre e conflitti violenti sono dunque inevitabili, anche se forse si può in qualche modo raffre- narli o limitarli attraverso adeguate forme di promozione del pacifismo. Quale che sia la fondatezza delle considerazioni del grande psicologo, è certo che questa prima domanda è grave e tocca le mura portanti della nostra esistenza. Non è possibile neanche affrontarla in questa sede.

Cosa si può fare per arginare la violenza? L’azione a livello intergovernativo

La seconda domanda è per certi versi più semplice: cosa possiamo fare per imporre, almeno ai detentori del potere, un minimo di rispetto della dignità della persona umana?

Da quando Franklin Delano Roosevelt proclamò che nella nuova comunità internazionale che sarebbe sorta alla fine della seconda grande conflagrazione mondiale i diritti umani dovevano essere rispettati a livello planetario, l’azione per promuovere quei diritti si è svolta su due piani. Anzitutto a livello intergovernativo, grazie all’opera fattiva dell’ONU e di altre organizzazioni internazionali composte da Stati. In secondo luogo al livello di società civile, in uno sforzo generoso di individui, gruppi e associazioni di imporre sempre più ai governi di rispettare tutti i cittadini del mondo, giorno per giorno, ovunque nel mondo.

Purtroppo, oggi si ha l’impressione che l’azione generosa e meritoria dell’ONU e delle altre organizzazioni intergovernative si stia esaurendo. Dobbiamo certo alle Nazioni Unite la proclamazione di principi e norme internazionali sui diritti fondamentali, a beneficio di tutti gli abitanti del pianeta. L’attività normativa degli organi internazionali, quella cioè volta a elaborare un decalogo dei diritti della persona umana, è davvero impressionante. Ma da quando si è passati al tentativo di far rispettare concretamente e non solo a parole quel decalogo, i limiti degli organi intergovernativi sono apparsi chiarissimi. Le organizzazioni internazionali possono esortare, incoraggiare, pungolare, oppure censurare, biasimare o condannare. Tutto ciò però avviene con le parole. Manca la spada che imponga il rispetto dei diritti a chi violenta, tortura, uccide, massacra. La recente trasformazione della Commissione dei diritti dell’uomo nel Consiglio dei diritti umani è la prova evidente dell’incapacità intrinseca degli organi interstatali di imporre che gli imperativi etico-giuridici vengano tradotti in fatti concreti. Il Consiglio è infatti rimasto un organo politico composto di governi e non di esperti indipendenti, e i suoi poteri sono rimasti assai limitati e appaiono comunque altamente condizionati da considerazioni politiche o ideologiche. I diritti umani sono troppo cruciali per la vita degli individui perché se ne discuta solo tra diplomatici. Soprattutto, i diritti umani non si prestano a negoziati tra politici e diplomatici. Questi devono porre mente a interessi nazionali a carattere economico, commerciale, politico, e devono armonizzarli con i valori universali rappresentati dal rispetto dei diritti umani. Troppo spesso questo tentativo di armonizzazione o di contemperamento si risolve nel sacrificio dei valori o nella loro assai parziale realizzazione.

L’azione a livello di società civile internazionale

È nell’azione civile a livello interindividuale che si trova la chiave di volta per tentare di spezzare la tendenza a negare i diritti della persona. Nella società civile internazionale sono nate numerose organizzazioni che si battono giorno dopo giorno in un “teatro di guerra” sempre più vasto: Amnesty International, Human Rights Watch, Médecins sans frontières, la Commissione internazionale dei giuristi, nonché, in Italia, la Comunità di S. Egidio, la Caritas, Emergency. Queste organizzazioni, e tante altre ancora, assolvono compiti diversi, tutti importanti. Molte pungolano i governi perché si dedichino alle necessità più elementari delle persone, o intervengano, almeno per le vie diplomatiche, nei confronti degli Stati che calpestano i diritti umani in modo macroscopico. Molte si sostituiscono agli Stati nella funzione di indagare gravi violazioni e far convergere su di esse l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Altre organizzazioni elaborano testi normativi che gli Stati esitano invece a predisporre perché potrebbero ulteriormente comprimere la sovranità di ciascuno di essi. In una parola, le organizzazioni non governative “surrogano” gli Stati, si sostituiscono ad essi e svolgono quei compiti che motivazioni politiche, ideologiche, economiche o anche strategiche impediscono agli Stati di adempiere. La società civile non agisce però solo attraverso associazioni, gruppi organizzati o movimenti. Essa fa sentire la sua voce anche attraverso singoli individui che hanno la forza di opporsi, di criticare, di mettere in discussione l’autorità dello Stato nel quale vivono. Sono i dissidenti, coloro che sacrificano i propri interessi personali, l’attività professionale, tutti i vantaggi che potrebbero trarre dalle proprie capacità intellettuali, per poter pubblicamente mettere in dubbio la legittimità del potere. Gli oppositori sono il sale della terra. Certo, il mondo in cui viviamo cambia ogni giorno grazie all’opera fattiva di uomini politici, di pensatori, di architetti della società, di ingegnosi innovatori che elaborano nuovi progetti sociali. Ma se storture, deviazioni, autoritarismi, modelli oppressivi vengono in qualche modo arginati o erosi, ciò lo dobbiamo ai dissidenti. Essi non accettano le idee comuni. Sono accaniti, anche se lottano con il sole negli occhi. Sono animati da un formidabile spirito critico. Guardano più alto e più lontano. La loro azione, secondo taluni velleitaria, utopistica e sterile, è invece un acido potente che intacca le istituzioni – se non subito, alla lunga. La loro azione può suscitare in tutti noi, che assistiamo attoniti a tanta violenza nel mondo, «una minuscola onda di speranza» («a tiny ripple of hope», per riprendere le parole del bellissimo discorso che Robert Kennedy tenne il 6 giugno 1966 a Cape Town, agli studenti sudafricani che ancora pativano la segregazione razziale). L’azione di alcuni oppositori, solitari e pervicaci, ha smosso gli animi di tante altre persone. Se il 27 giugno 1937 il pastore luterano Martin Niemöller non si fosse pronunciato a Berlino, nel suo sermone domenicale, contro l’oppressione nazista, venendo per ciò arrestato dalla Gestapo e trascinato prima a Sachsenhausen e poi a Dachau, allora e ancora oggi si sarebbe potuto credere che in Germania vi fosse il deserto morale. Se nel 1939 Alexander Solzhenitsyn non si fosse apertamente rivoltato contro il regime di Stalin, subendo il carcere per lunghi anni, e se poi non avesse avuto il talento e la forza di scrivere libri rivoluzionari sulla società sovietica, molto più tempo sarebbe stato necessario per smantellare il gulag. Se il 1° dicembre 1955 Rosa Parks, una “cucitrice” nera di Montgomery nell’Alabama, non si fosse seduta in un posto dell’autobus riservato ai bianchi e non fosse stata quindi arrestata per aver violato le leggi americane sulla segregazione razziale, il giorno dopo non sarebbe stato organizzato il boicottaggio di tutti gli autobus della città (boicottaggio guidato da un giovane pastore nero allora ancora sconosciuto, Martin Luther King jr.), e la Corte suprema degli Stati Uniti non avrebbe approvato, il 13 novembre 1956, la decisione di un coraggioso giudice di colore secondo cui le leggi sulla segregazione razziale erano incostituzionali. Se Andrej Sakharov non avesse contestato nel 1957 e 1958 gli esperimenti nucleari sovietici a scopo bellico e non avesse poi cominciato a ribellarsi apertamente, nel 1970, contro il soffocamento delle libertà in Unione Sovietica, probabilmente lo sgretolamento del potere in quello Stato sarebbe stato molto più lento. Se il 16 gennaio 1969 Jan Palach non si fosse dato fuoco in piazza San Venceslao a Praga, e non fosse stato seguito da Vaclav Havel nella protesta contro l’oppressione comunista, la Cecoslovacchia avrebbe molto tardato nel ripristinare libertà troppo a lungo conculcate. Se in Birmania da anni Aung San Suu Kyi non si battesse accanitamente per la democrazia, soffrendo insopportabili limitazioni della propria libertà, con il carcere e l’impossibilità di incontrare liberamente altri cittadini, la giunta militare che dal 1962 governa il paese sarebbe sprofondata ancora di più nell’autoritarismo. Se in Iran l’avvocatessa Shirin Ebadi non lottasse da anni contro i tre regimi autoritari che si sono succeduti nel tempo (prima quello filo-occidentale e corrotto dello scià, poi quello islamico dell’ayatollah Khomeini e poi quello estremistico di Mahmoud Ahmadinejad), oggi in quel paese i diritti delle donne sarebbero ancora più misconosciuti. Se nello stesso paese, in Iran, lo scrittore e giornalista Akbar Ganji non avesse denunciato gli arbitri dei “guardiani assoluti della legge” e le ingiustizie sociali commesse dalle autorità, soffrendo di conseguenza il carcere, oggi i cittadini iraniani sarebbero ancora più oppressi e la libertà di manifestazione del pensiero sarebbe ancora più conculcata. Perché tutti gli uomini e le donne appena ricordati si rifiutano di accettare l’esistente, le menzogne, i luoghi comuni cui si conformano tutti gli altri – gli «uomini che non si voltano» di cui parlava Montale? Perché, con gesti dimessi e quotidiani, ma con insopprimibile forza d’animo, si ribellano e rompono le regole? La ragione la diede per tutti Rosa Parks, il 1° dicembre 1955. Spiegò che il suo rifiuto di alzarsi dal posto dell’autobus destinato ai bianchi e di sedersi in uno dei posti assegnati ai neri era stato per lei «una questione di dignità; se mi fossi mossa di lì, dopo non avrei potuto affrontare me stessa e la mia gente».

Dobbiamo perciò essere per sempre riconoscenti a tutti questi “oppositori”, perché è soprattutto grazie a loro che la lotta per i diritti umani ogni tanto registra qualche piccola vittoria. È grazie ad essi e a persone come loro, che ogni tanto possiamo ancora percepire qualche «minuscola onda di speranza».