La Corte europea dei diritti dell'uomo e l'ambiente

Di Jean-Paul Costa Giovedì 26 Giugno 2008 18:59 Stampa
La necessità di proteggere i diritti ambientali dell’uomo, non espressamente menzionati dalla Convenzione europea, si è negli ultimi anni sviluppata anche attraverso la giurisprudenza della Commissione e della Corte, che hanno considerato che l’articolo 8 della Convenzione, relativo al diritto al rispetto della vita privata e familiare, includesse anche il diritto a un ambiente salubre e dunque alla protezione dall’inquinamento.

Il Ventesimo secolo ha conosciuto diverse catastrofi ecologiche, a Seveso, a Bhopal o a Chernobyl, per citare solo quelle che più hanno colpito l’opinione pubblica internazionale. Questo certamente spiega perché, sempre più spesso, i dibattiti politici che animano le società democratiche vertono sulla protezione dell’ambiente. La questione figura al centro dei programmi politici e delle campagne elettorali. Si tratta indiscutibilmente di un fenomeno recente ed è evidente che, negli anni Cinquanta, l’esigenza universale di proteggere l’ambiente non fosse ancora manifesta. La prima conferenza mondiale sull’ambiente, d’altronde, si tenne solo nel 1972 (a Stoccolma, sotto l’egida delle Nazioni Unite). Inoltre, il testo originale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non esprime ancora una presa di coscienza della necessità di proteggere i diritti ambientali dell’essere umano.

In compenso, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che è più recente, prende sul serio tali questioni; l’articolo 37 dispone: «Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile».1

Queste preoccupazioni si fanno sentire anche su scala planetaria: emerge dal Protocollo di Kyoto che l’inquinamento ambientale è una questione sovranazionale, dato che non rispetta le frontiere degli Stati. Si tratta dunque di una questione che dipende, per eccellenza, dal diritto internazionale – e, a maggior ragione, da una giurisdizione internazionale. L’attenzione a livello planetario per la tutela dell’ambiente converge con l’interesse generale per i diritti umani. Era naturale, dunque, che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si occupasse sempre di più di tali questioni. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, definita, nella sentenza Tyrer contro Gran Bretagna del 1978, uno «strumento vivo», non cessa di evolvere e di subire adattamenti in funzione dei cambiamenti che sopravvengono nelle nostre società grazie a un’interpretazione evolutiva della Corte di Strasburgo. Questa interpretazione evolutiva delle diverse esigenze della Convenzione, cui si affidano, da oltre cinquant’anni, la Commissione e la Corte, è stata generalmente di segno “progressista”: esse hanno gradualmente esteso ed elevato la protezione dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione per creare un “ordine pubblico europeo”.

Per citare soltanto il campo dei diritti ambientali dell’uomo, la Commissione e la Corte hanno sempre più frequentemente considerato che l’articolo 8 della Convenzione, relativo al diritto al rispetto della vita privata e familiare, includesse il diritto a un ambiente salubre, e dunque alla protezione contro l’inquinamento e i fattori di degrado chimici, olfattivi, respiratori, sonori ecc. Ciò non sorprende: come non considerare lo stretto legame tra la protezione dei diritti dell’uomo e la necessità urgente di decontaminare l’ambiente? La salute non è forse, con il diritto alla vita, il bisogno umano più fondamentale? Che cosa rappresentano i diritti dell’uomo che attengono al rispetto del domicilio se il domicilio di una persona rimbomba giorno e notte del rumore assordante dei motori degli aeromobili?

In che modo è potuta intervenire la Corte? La giurisprudenza della Corte ha consentito di sancire il diritto a un ambiente salubre attraverso lo strumento degli obblighi positivi imposti agli Stati. Si deve osservare a tal proposito che la Convenzione, se presa alla lettera, faceva ricadere sugli Stati solo obblighi negativi, di non fare; la creatività della giurisprudenza ha imposto loro anche obblighi di fare. I danni all’ambiente, infatti, sono, tutt’altro che una prerogativa delle autorità statali. Certamente, la Convenzione tutela l’individuo contro gli abusi di potere diretti delle autorità dello Stato ma, nella maggior parte dei casi, l’aspetto ambientale dei diritti fondamentali dell’individuo non si vede minacciato da ingerenze dirette dello Stato. La teoria degli obblighi positivi ha dunque permesso alla Corte di agire. Spesso è necessario capire se lo Stato abbia preso o meno le necessarie misure per proteggere la salute e la vita privata, o addirittura per lottare contro le minacce alla vita privata e alla salute derivanti da persone o entità esterne rispetto a esso. D’altro canto, poiché la Convenzione non copre espressamente il diritto ambientale, l’articolo 8, nel tutelare il diritto al rispetto della vita privata e familiare così come il domicilio, è venuto a colmare tale lacuna.

Le questioni ambientali hanno iniziato ad essere evocate davanti alla Corte principalmente a partire dal 1990, con il caso Powell e Rayner contro Gran Bretagna. I ricorrenti affermavano di essere vittime, in ragione del rumore eccessivo causato dal traffico aereo dell’aeroporto di Heathrow, di una ingiustificata violazione del diritto loro garantito dall’articolo 8 della Convenzione. Ritenevano inaccettabili i livelli sonori autorizzati dai regolamenti sul traffico aereo, e inefficaci le misure governative destinate a ridurre l’esposizione al rumore. Nella sua sentenza, la Corte ha constatato che l’esistenza di grandi aeroporti internazionali, persino nelle grandi aree urbane a forte densità di popolazione, e il crescente impiego di aerei a reazione fossero ormai necessari per il benessere economico di un paese. Ha osservato che l’aeroporto di Heathrow, tra i più frequentati al mondo, occupava una posizione chiave nel commercio e nelle relazioni internazionali e nell’economia della Gran Bretagna e che il suo sfruttamento perseguisse un fine legittimo le cui ripercussioni negative sull’ambiente non potevano essere completamente eliminate.

La Corte ha esaminato le misure prese dalle autorità britanniche per controllare il rumore degli aerei all’aeroporto di Heathrow e ha osservato che quelle misure avevano tenuto conto delle norme internazionali in vigore, dell’evoluzione tecnica in materia di aviazione e dei diversi livelli di disturbo subiti dagli abitanti della zona. Ha dunque concluso che il governo britannico non aveva oltrepassato il proprio margine di valutazione o rotto il giusto equilibrio da assicurare ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. Non ha dunque riscontrato una violazione della Convenzione, ma è interes- sante notare che la questione della nocività provocata dall’aeroporto di Heathrow sarebbe tornata a porsi, qualche anno più tardi, davanti alla Corte stessa. Inoltre, dopo il caso Powell e Rayner, è stata posta chiaramente la questione dell’obbligo positivo dello Stato.

È il 1994, con il caso Lopez Ostra contro Spagna, riguardante le emissioni nauseabonde di una stazione di depurazione delle acque e di trattamento dei rifiuti di una conceria, a segnare un vero cambio di indirizzo nella giurisprudenza della Corte, con la decisione che «minacce di grave entità all’ambiente possono compromettere il benessere di una persona e privarla del godimento del suo domicilio, così nuocendo alla sua vita privata e familiare ». Nel constatare la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Corte riconosceva che il diritto al rispetto della vita privata e familiare implicasse il diritto di vivere in un ambiente salubre. Bisogna dire che, contrariamente al caso Powell e Rayner in cui era in gioco il benessere dei ricorrenti, nel caso Lopez Ostra ne era minacciata la salute stessa. In tal modo, la Corte estendeva il grado di nocività, perché, se la definizione ampia che l’OMS dà di salute include il benessere della popolazione, quest’ultimo è in qualche modo un grado ideale della salute.

Tale giurisprudenza, che sanziona gli Stati quando non assicurano un giusto equilibro tra l’interesse del benessere economico e il godimento effettivo del diritto al rispetto del domicilio e della vita privata e familiare, ha continuato a confermarsi. Così, nel caso Guerra contro Italia del 1998, la Corte ha ritenuto che emissioni nocive provenienti da un’industria chimica avessero un’incidenza diretta sul diritto delle ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare, e che minacce di grave entità all’ambiente potessero incidere sul benessere delle persone e privarle del godimento del proprio domicilio così da nuocere alla loro vita privata e familiare. È chiaramente sugli Stati che grava la responsabilità di garantire il diritto a un ambiente salubre e, analogamente a come le autorità spagnole si erano viste rimproverare la propria inerzia nel caso Lopez Ostra, la Corte ha constatato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione da parte dell’Italia nel caso Guerra, con la motivazione che le ricorrenti erano rimaste, fino all’arresto della produzione di fertilizzanti nel 1994, in attesa di informazioni es- senziali che avrebbero permesso loro di valutare gli eventuali rischi per sé e per i propri familiari derivanti dal fatto di continuare a risiedere sul territorio di un comune così esposto al pericolo in caso di incidente all’interno della fabbrica. Anche in questo caso, l’accento è stato posto sulla salute dei ricorrenti ed è interessante osservare che il diritto ad essere informati dei rischi di inquinamento è stato energicamente evidenziato dalla Corte.

La giurisprudenza ha continuato ad affinarsi attraverso i diversi casi e la nozione di domicilio vi ha svolto un ruolo centrale. Nel caso Moreno Gomez contro Spagna del 2004, riguardante l’inquinamento acustico subito dalla ricorrente a causa della vicinanza della sua abitazione con locali notturni, la Corte ha considerato che «l’individuo ha diritto al rispetto del suo domicilio, inteso non soltanto come il diritto a un semplice spazio fisico ma anche come quello al godimento, in tutta tranquillità, dello spazio suddetto. Le minacce al diritto al rispetto del domicilio non riguardano soltanto i danni materiali o fisici, quali la violazione del domicilio individuale, ma anche quelli immateriali o incorporei, quali i rumori, le emissioni, gli odori e altre ingerenze. Se si tratta di danni gravi, questi possono privare una persona del diritto al rispetto del domicilio perché le impediscono di godere del proprio domicilio». I danni ambientali legati al funzionamento dell’aeroporto londinese di Heathrow sono stati nuovamente evocati davanti alla Corte nel caso Hatton contro Gran Bretagna. In questo caso, i ricorrenti sostenevano che la politica messa in atto dal governo nel 1993 in materia di voli notturni a Heathrow comportasse una violazione dei loro diritti garantiti dall’articolo 8 della Convenzione. La Camera della Corte che presiedevo ha ritenuto, in una sentenza del 2 ottobre 2001, che si dovesse avere considerazione per il giusto equilibrio da assicurare tra gli interessi concorrenti dell’individuo e quelli della società nel suo insieme. Essa ha aggiunto che «nel campo particolarmente delicato della tutela ambientale, il semplice riferimento al benessere economico del paese non era sufficiente a far passare in secondo piano i diritti di terzi». La nostra Camera ha considerato che i voli notturni apportassero un certo contributo all’economia nazionale, ma ha indicato che la portata di tale contributo non aveva mai fatto oggetto di una valutazione critica, da parte del governo direttamen- te o attraverso uno studio indipendente di cui questo fosse stato il committente. Essa ha dunque ritenuto che, applicando il sistema del 1993, lo Stato non fosse riuscito ad assicurare un giusto equilibrio tra il benessere economico della Gran Bretagna e il godimento effettivo da parte dei ricorrenti del diritto al rispetto del loro domicilio e della loro vita privata e familiare.

Il caso è stato riesaminato dalla Grande camera della Corte. Quest’ultima ha ricordato che, se la Convenzione non riconosce espressamente il diritto a un ambiente salubre e tranquillo, una questione può essere posta con riferimento all’articolo 8 della Convenzione quando una persona patisca direttamente e in modo grave rumore o altre forme di inquinamento. Ha ricordato anche il ruolo fondamentalmente sussidiario del meccanismo della Convenzione e il fatto che, quando sono in gioco questioni di politica generale, in merito alle quali in uno Stato democratico possono esistere profonde divergenze, si tratta di accordare una particolare importanza al ruolo del decisore nazionale, e ha dichiarato che lo Stato deve godere di un esteso margine di valutazione.

La Grande camera ha in primo luogo rilevato che, nei casi precedenti (Lopez Ostra e Guerra) in cui la Corte aveva concluso constatando violazioni della Convenzione, le sue constatazioni si fondavano sull’inosservanza da parte delle autorità nazionali di alcuni aspetti della regolamentazione interna. Tale elemento di irregolarità con riguardo al diritto interno era totalmente assente nella fattispecie. Secondo la Corte, quando si tratta per uno Stato di affrontare questioni complesse di politica ambientale ed economica, il processo decisionale deve necessariamente comportare la realizzazione di indagini e di studi appropriati, così da consentire l’attuazione di un giusto equilibrio tra i diversi interessi concorrenti in gioco; essa ha dunque ritenuto che le autorità non avessero oltrepassato il loro margine di valutazione nella ricerca di un giusto equilibrio tra il diritto delle persone interessate dalla regolamentazione oggetto di contestazione a veder rispettata la propria vita privata e il loro proprio domicilio da una parte e, dall’altra, gli interessi concorrenti di terzi e della società nel suo insieme. Pertanto, contrariamente alla Camera, essa non ha concluso che vi sia stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione. La sentenza della Grande camera, che è evidentemente sovrana in virtù della Convenzione, ha in un certo modo privilegiato le considerazioni economiche a scapito delle condizioni sanitarie di base, definendo la «sensibilità al rumore» dei ricorrenti come propria di una «debole minoranza di persone». La tendenza a minimizzare tale sensibilità va confrontata con la crescente importanza attribuita all’ambiente, in tutta Europa e nel mondo. La salute come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale è condizione indispensabile per un’autentica vita privata, per l’intimità ecc., e non potrebbe esserne dissociata. Lo Stato ha indiscutibilmente l’obbligo positivo di assicurare, nella misura del possibile, condizioni di sonno normali al comune cittadino. Ma, ancora una volta, è la sentenza della Grande camera ad avere valore di res iudicata, e conviene prenderne nota.

In un ambito completamente diverso, il caso Ta¸skin e altri contro Turchia riguardava la concessione di autorizzazioni a sfruttare una miniera aurea. I ricorrenti erano abitanti di villaggi situati nei dintorni. Essi sostenevano che sia la concessione, da parte delle autorità nazionali, dell’autorizzazione a ricorrere a un procedimento di sfruttamento per cianurazione di una miniera aurea, sia il processo decisionale seguito, costituivano una violazione dei loro diritti garantiti dall’articolo 8 della Convenzione. In questo caso, la Corte ha innanzitutto confermato la propria giurisprudenza secondo la quale, in casi implicanti questioni legate all’ambiente, lo Stato deve godere di un margine di valutazione esteso. La Corte ha osservato che la decisione delle autorità di concedere un permesso per lo sfruttamento della miniera aurea era stata annullata dal Consiglio di Stato turco, il quale, dopo aver proceduto al bilanciamento degli interessi concorrenti nella fattispecie, si era basato sul godimento effettivo, da parte dei ricorrenti, del diritto alla vita e all’ambiente per concludere che quell’autorizzazione non fosse in alcun modo conforme all’interesse pubblico.

Alla luce di questa conclusione, la Corte non ha ritenuto utile procedere a un nuovo esame dell’aspetto concreto del caso, rispetto al margine di valutazione generalmente riconosciuto alle autorità nazionali in materia. La Corte ha ugualmente insistito sulla necessità, quando uno Stato affronta questioni complesse di politica ambientale ed eco- nomica, che il processo decisionale comporti la realizzazione di indagini e studi appropriati, in maniera da prevenire e valutare anticipatamente gli effetti delle attività che possono recare danno all’ambiente e ai diritti degli individui, e consentire così di attuare un giusto equilibrio tra i diversi interessi concorrenti in gioco. La Corte ha sottolineato anche l’importanza del pubblico accesso alle conclusioni cui sono pervenuti tali studi così come alle informazioni che consentono di valutare il pericolo a cui è esposta la cittadinanza. Infine, i soggetti interessati devono anche poter disporre di un ricorso davanti a un tribunale contro qualsiasi decisione, atto o omissione, nel caso in cui ritengano che i propri interessi o le loro osservazioni non siano stati sufficientemente considerati nel processo decisionale. Bisogna pertanto confrontare quest’analisi della nostra Corte con le legislazioni nazionali, che abbondano in Europa, sulle ricerche pubbliche e sugli studi d’impatto ambientale.

Nella fattispecie, la decisione di concedere un’autorizzazione alla miniera aurea era stata preceduta da una serie di indagini e di studi condotti su un lungo periodo. Era stata organizzata una riunione allo scopo di informare la popolazione abitante nella regione. Nel corso di quella riunione, uno studio sulla questione era stato portato a conoscenza dei partecipanti, i quali avevano potuto formulare le proprie osservazioni. I ricorrenti e gli abitanti della regione avevano avuto accesso a tutti i documenti di pertinenza, compreso lo studio in questione. Nel caso in esame, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’autorizzazione a sfruttare la miniera non fosse conforme all’interesse generale. Si trattava di una sentenza esecutiva, e tuttavia la chiusura della miniera aurea era stata ordinata soltanto dieci mesi dopo la pronuncia di tale sentenza e quattro mesi dopo la sua notifica all’amministrazione. La Corte ha ricordato che questa notifica costituisce un elemento dello Stato di diritto, il cui interesse coincide con quello di una buona amministrazione della giustizia, e che, se l’amministrazione rifiuta o omette di eseguire la sentenza o tarda a farlo, le garanzie di cui ha beneficiato il ricorrente durante la fase giudiziaria della procedura perdono ogni ragione d’essere. La Corte ha aggiunto che, poiché la miniera d’oro aveva già iniziato a funzionare, le autorità avevano privato di qualsiasi effetto utile le garanzie procedurali di cui disponevano i ricorrenti e lo Stato convenuto non aveva ottemperato all’obbligo di garantire il diritto dei ricorrenti al rispetto della propria vita privata e familiare, in violazione dell’articolo 8 della Convenzione. La nozione di “effetto utile”, che la Corte di Strasburgo ha tratto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee – le due Corti, è noto, esercitano un’importante influenza reciproca – ricorda che la Corte europea dei diritti dell’uomo è molto attenta all’effettività dei diritti garantiti.

Ugualmente interessante è il caso Fadeïeva contro Russia del 2005. All’origine del caso si trova una richiesta presentata da una ricorrente russa, la signora Fadeïeva, che risiedeva nelle vicinanze di un centro siderurgico di primaria importanza. Le autorità avevano istituito una zona tampone – il “perimetro di sicurezza sanitaria” – intorno al sito industriale con l’obiettivo di circoscrivere i settori in cui l’inquinamento generato dalla produzione di acciaio rischiava di essere eccessivo. La ricorrente e la sua famiglia occupavano un appartamento municipale situato nella zona tampone. La ricorrente e diversi altri abitanti di quella zona intrapresero un’azione giudiziaria allo scopo di ottenere l’assegnazione di nuovi alloggi esterni al perimetro di sicurezza sanitaria, in un ambiente ecologicamente salubre. Un tribunale municipale giudicò che, in virtù del diritto interno, la ricorrente poteva in linea di principio pretendere l’assegnazione, a carico del Comune, di un nuovo alloggio. Tuttavia, invece di pronunciare un decreto ingiuntivo per l’assegnazione di un nuovo alloggio all’interessata, il tribunale ordinò alle autorità locali di iscrivere quest’ultima in una “lista d’attesa prioritaria” in vista dell’assegnazione di un appartamento. La decisione fu confermata in appello e fu presa un’ordinanza esecutiva, ma la procedura di esecuzione fu interrotta, con la motivazione che non era stata costituita nessuna “lista d’attesa prioritaria” per consentire ai residenti del perimetro di sicurezza sanitaria di vedersi assegnare nuovi alloggi. L’interessata intraprese una nuova azione contro la municipalità al fine di farsi immediatamente assegnare un nuovo alloggio, ma il suo ricorso fu respinto con la motivazione che non esisteva nessuna “lista d’attesa prioritaria”. La Corte ha considerato che, nella fattispecie, un certo numero di elementi consentisse di dedur- re che l’esposizione prolungata della ricorrente ai rifiuti industriali della fabbrica fosse la causa del degrado del suo stato di salute e l’avesse inevitabilmente resa più vulnerabile a diverse malattie. Essa ha dunque ammesso che la minaccia reale alla salute dell’interessata e al suo benessere fosse di un livello sufficiente per ricadere nell’ambito dell’articolo 8 della Convenzione. La Corte ha riconosciuto che imporre allo Stato o all’impresa inquinante l’obbligo di trovare gratuitamente un nuovo alloggio alla ricorrente sarebbe stato eccessivo. Tuttavia, ha ritenuto che lo Stato non avesse offerto alla richiedente una soluzione effettiva per favorirne l’allontanamento dalla zona a rischio. La Corte ha concluso dunque che, pur considerando l’ampio margine di valutazione che gli è riconosciuto, lo Stato non avesse saputo assicurare un giusto equilibrio tra gli interessi della comunità e l’esercizio effettivo da parte della ricorrente del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare. Il caso Giacomelli contro Italia del 2006 è in parte simile. Esso riguardava una ricorrente che viveva in un’abitazione situata a 30 metri da una fabbrica per lo stoccaggio e il trattamento di rifiuti speciali classificati come pericolosi o non pericolosi, la quale denunciava che il rumore persistente e le emissioni nocive generate dall’impianto costituissero un grave danno per l’ambiente in cui viveva nonché un rischio permanente per la sua salute e il suo domicilio. La Corte ha osservato che né la decisione di autorizzare lo sfruttamento della fabbrica né quella che autorizzava quest’ultima al trattamento di decontaminazione dei rifiuti industriali erano state precedute da uno studio o da una indagine appropriati e che il ministero dell’Ambiente aveva affermato in due occasioni che l’attività dell’impianto sarebbe stata incompatibile con le norme ambientali in ragione della sua collocazione geografica inadatta e che sarebbe esistito un pericolo concreto per la salute delle persone residenti nelle vicinanze. Secondo la legislazione in vigore, l’attività della fabbrica avrebbe dovuto essere sospesa, ma l’amministrazione non ordinò in nessun momento la chiusura dell’impianto. Secondo la Corte, l’Italia non ha saputo assicurare, nella fattispecie, un giusto equilibrio tra l’interesse della collettività a disporre di una fabbrica per il trattamento di rifiuti industriali tossici e il godimento effettivo da parte della ricorrente del diritto al rispetto del proprio domicilio e della propria vita privata e familiare. La Corte ha dunque riscontrato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione. Infine, è opportuno citare il caso Hamer contro Belgio del 2007, riguardante la demolizione forzata di un’abitazione costruita senza permesso in una zona forestale non edificabile. Nella sua sentenza, la Corte ha dichiarato per la prima volta che «l’ambiente costituisce un valore» e che «gli imperativi economici e perfino alcuni diritti fondamentali, come il diritto di proprietà, non dovrebbero vedersi accordare la priorità di fronte a considerazioni riguardanti la tutela dell’ambiente, in particolare laddove lo Stato abbia legiferato in materia». Questa motivazione mostra il cammino percorso in campo ambientale. Si deve infatti osservare che, se le questioni relative all’ambiente non figurano nella Convenzione né nei suoi protocolli addizionali, la Corte le ha comunque ritenute degne di tutela. Nel corso degli anni e delle sentenze, essa si è spinta sempre più in là sulla via di una vera e propria consacrazione dell’ambiente come valore da difendere. Il diritto di vivere in un ambiente salubre è ormai chiaramente riconosciuto, se non nella Convenzione europea, per lo meno nella giurisprudenza della nostra Corte.

In un caso molto importante, ma che rappresenta un caso limite in ragione degli effetti tragici sulla popolazione interessata, la Corte ha concluso riconoscendo perfino la violazione del diritto alla vita garantito dall’articolo 2 della Convenzione. Si tratta del caso Oneryildiz contro Turchia, del 2004: alcuni abitanti di una bidonville alla periferia di Istanbul erano morti in seguito all’esplosione di una sacca di metano in una zona in cui erano depositati rifiuti, senza alcuna precauzione. Le lacune iniziali della Convenzione sono state, in qualche modo, colmate. E i difensori dell’ambiente sanno che la Corte europea dei diritti dell’uomo sorveglia la protezione di questo diritto nuovo e cruciale per tutti gli abitanti del pianeta. Si deve semplicemente sperare, al di là delle decisioni giudiziarie, che i dirigenti, sotto la pressione delle opinioni pubbliche, siano abbastanza saggi da proteggere il pianeta stesso, e con esso le generazioni attuali e quelle future. Una volta di più, la nostra Corte dimostra di svolgere un ruolo importantissimo, ma che può essere soltanto sussidiario, e non motore.

[1] Si vuole qui rendere omaggio a uno dei grandi artefici della Carta, scomparso di recente, Guy Braibant.