Diritti umani, diritti fondamentali, nuovi diritti in Europa

Di Elena Paciotti Giovedì 26 Giugno 2008 18:58 Stampa
A partire dal secondo dopoguerra si fa strada in Occidente una nuova cultura dei diritti: dal monopolio giuridico dello Stato-nazione ai diritti universali e inalienabili di ogni essere umano. Fra convenzioni internazionali e carte dei diritti anche i giudici devono operare in un contesto “multilivello”.

Che cosa è cambiato negli ultimi sessant’anni

Dagli orrori della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto emerge in Occidente una nuova cultura dei diritti, che riesce a rifondare il diritto internazionale, imperniato sull’ONU, e ad affermarsi nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. I diritti inalienabili degli individui vengono così affrancati dal monopolio dell’ordine giuridico da parte dello Stato-nazione.

Il superamento della concezione dell’onnipotenza del legislatore – e quindi della politica – fonda il moderno costituzionalismo, che afferma la rigidità delle costituzioni, sovraordinate alle leggi ordinarie, limite e vincolo ai poteri delle maggioranze, e fornite di apposite garanzie giurisdizionali. Non a caso tali garanzie vengono introdotte nel dopoguerra in Italia e in Germania e quindi, caduti i rispettivi regimi autoritari, in Spagna e in Portogallo.

L’autonomia dell’individuo, la moltiplicazione dei diritti, il superamento della sovranità statale trovano in Europa il terreno sul quale radicarsi. Dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 si sviluppa il sistema di garanzia dei diritti del Consiglio d’Europa. Dall’istituzione della Comunità economica europea nel 1957 si sviluppa il complesso percorso dell’integrazione europea. Questa parte dall’unificazione del mercato, ma passa poi al riconoscimento dei diritti fondamentali propri delle “tradizioni costituzionali comuni” e quindi alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in un tormentato processo di “costituzionalizzazione” dell’Unione europea, ancora incompiuto.

Il provvisorio risultato raggiunto – continuamente messo a repentaglio dall’attacco ai diritti portato dalla rilegittimazione delle guerre, dalle ideologie securitarie e xenofobiche e dalle logiche del mercato capitalistico – è comunque significativo. Inalienabilità, universalità, inscindibilità caratterizzano ora in Europa un ampio catalogo di diritti che spettano a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla condizione di cittadini e anche con riferimento ad aspetti della vita materiale, culturale e relazionale, dai rapporti familiari alla realtà corporea. La garanzia dei diritti fondamentali è affidata a un sistema multilivello, che muta il ruolo stesso dei giudici.

Diritti umani e diritti fondamentali

Sovente vengono usate in modo indifferenziato le locuzioni “diritti umani” e “diritti fondamentali”. Qui si cercherà di tenerle distinte. Si chiameranno “diritti umani” quelli che, sulla base di dichiarazioni pattizie, come la Dichiarazione universale del 1948, spettano indistintamente a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro effettività. Si chiameranno invece “diritti fondamentali” quelli definiti come tali da ordinamenti giuridici vigenti e dotati di effettività, come le costituzioni degli Stati democratici occidentali. Non sfugge il margine di opinabilità di una simile distinzione, che tuttavia consente di rendere più chiaro il prosieguo del discorso. I diritti umani – come il diritto alla vita o alla libertà personale – sono per definizione inviolabili e universali.

La pretesa universalità dei diritti umani è stata contestata dai fautori del multiculturalismo, che ne hanno accusato i sostenitori di “imperialismo culturale”. Ma è bene intendersi. Va precisato, in primo luogo, che universalità non significa condivisione da parte di tutti, ma eguale rispetto per tutti; in secondo luogo, che il patrimonio universale costituito dall’insieme dei diritti umani è pur sempre un prodotto della storia ed è difficile oggi ammettere che le diversità culturali possano giusti- ficare pratiche come la schiavitù, la segregazione razziale, la tortura o magari i sacrifici umani; in terzo luogo che, di fatto, allorché fu redatta e sottoscritta la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, essa fu il frutto dell’incontro di culture fra loro lontane e anche avversarie.

I diritti fondamentali riconosciuti negli ordinamenti costituzionali delle moderne democrazie inglobano generalmente i diritti umani, ne ampliano il catalogo e prevedono ulteriori diritti inviolabili che spettano soltanto ai cittadini. Nel moderno costituzionalismo infatti democrazia non è soltanto partecipazione dei cittadini, attraverso i loro rappresentanti, alla formazione delle scelte politiche. È anche limitazione dei poteri, soggezione alla legge, rispetto delle minoranze. Questi limiti sono costituiti dai diritti fondamentali delle persone, che sono la base dello Stato di diritto e la condizione per lo sviluppo di una democrazia costituzionale.

I nuovi diritti

L’individuazione di diritti di cui si ritiene necessaria la protezione è connessa ai mutamenti storici e all’evoluzione delle civiltà.

Tutte le costituzioni democratiche dei paesi occidentali prevedono come diritti fondamentali i diritti civili e politici, cioè i diritti dei cittadini alla libertà e alla sicurezza personale e alla partecipazione alla vita pubblica, frutto della rivoluzione borghese. Ad essi si è aggiunto in gran parte dell’Europa il riconoscimento di diritti sociali, frutto dell’emergere di un nuovo soggetto storico, la classe operaia.

Ma nelle costituzioni più recenti, ad esempio quelle dei paesi dell’Est europeo e dell’America Latina, si trovano iscritti diritti nuovi, dovuti all’emergere di nuovi rischi. Fra i nuovi diritti più frequentemente codificati si trovano il diritto all’ambiente e il diritto alla privacy.

È viceversa aperta la discussione sulla possibilità di codificare come diritti esigenze ritenute essenziali ma difficilmente inquadrabili nelle nostre tradizioni giuridiche. Stefano Rodotà1 ne parla come conseguenza delle «pacifiche rivoluzioni del Novecento, delle donne, degli ecologisti, della scienza e della tecnica». E osserva: «La libertà concreta s’incarna nella differenza sessuale, nell’at- tenzione al corpo, nel rispetto per la biosfera, nell’uso non aggressivo delle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Tutto questo ha prodotto la più intensa esplosione di richieste di riconoscimento di diritti che mai sia stata conosciuta». Si parla, così, di “diritti riproduttivi” e di “diritto a non nascere”, di “diritto a morire” e di “diritto ad ammalarsi”, ma anche del “diritto dell’embrione” e del “diritto a non essere perfetto”. È difficile affrontare questi temi in modo astratto: forse la via di soluzioni accettabili va trovata attraverso l’elaborazione giurisprudenziale, che può tenere conto dei molteplici aspetti dei casi concreti e contemperare i diversi principi in gioco.2

I diritti umani in Europa

Il 5 maggio 1949 veniva istituito il Consiglio d’Europa – con sede a Strasburgo – con lo scopo di tutelare i diritti dell’uomo e la democrazia pluralista e garantire il primato del diritto in Europa. Sotto la sua egida, veniva firmata a Roma il 4 novembre 1950 la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Ad oggi sono 47 gli Stati europei che hanno aderito alla CEDU e fanno parte del Consiglio d’Europa, sottoponendosi così ai controlli, ai rapporti, alle raccomandazioni del Comitato dei ministri e dell’Assemblea parlamentare, ma soprattutto alle decisioni e alle sanzioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, cui possono far ricorso gli individui che ritengano lesi i diritti loro riconosciuti dalla CEDU, dopo averne inutilmente invocato il rispetto da parte dei giudici dei singoli Stati.

Si supera così per la prima volta il tradizionale sistema del diritto internazionale, i cui soggetti sono soltanto gli Stati, non le persone. Gli Stati europei accettano “l’ingerenza umanitaria”, pacifica e legale, di una Corte che – chiamata da un singolo, che sia oppure no un cittadino di quegli Stati – entra nei loro affari interni, giudica l’applicazione delle loro leggi da parte dei giudici nazionali. In questo modo i diritti umani in Europa non sono più soltanto affermazioni apparentemente condivise in solenni dichiarazioni, ma diritti esigibili davanti a un giudice: sono divenuti diritti fondamentali di un ordinamento internazionale che copre ormai l’intero continente europeo.3

L’integrazione europea e la Carta dei diritti fondamentali

La costruzione delle Comunità europee e, poi, dell’Unione europea costituisce un unicum nella storia delle istituzioni. Non si era mai visto, né ancora si vede altrove, un simile processo di progressiva volontaria cessione di quote di sovranità da parte di un numero crescente (ora 27) di Stati democratici. Nei decenni successivi al Trattato di Roma del 1957, che ha istituito la Comunità economica europea per creare un mercato comune, l’ordinamento sopranazionale si è via via ampliato e rafforzato, fino ad assumere i caratteri di una progressiva “costituzionalizzazione”. Il passaggio simbolico dall’Europa del mercato all’Europa dei diritti è costituito dalla proclamazione, avvenuta a Nizza il 7 dicembre 2000, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, licenziata da un’apposita Convenzione e scritta “come se” dovesse diventare un testo giuridicamente vincolante, ma approvata all’unanimità proprio perché era rimasta soltanto una solenne dichiarazione politica. La Carta sancisce in modo chiaro ed efficace i diritti fondamentali riconosciuti nell’Unione, compresi i “nuovi” diritti relativi alla bioetica, all’ambiente, alla privacy, alla buona amministrazione ecc. Li suddivide in sei capitoli, corrispondenti ai grandi valori comuni di dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia, sottolineandone così l’indivisibilità e l’universalità. Attraverso il riconoscimento della pari dignità di ciascuno, il rispetto e la valorizzazione delle diverse identità, la Carta dei diritti costituisce il mezzo per l’inveramento del progetto europeo di convivenza fra persone, culture, popoli diversi. In essa si vede chiaramente rispecchiato il modello sociale europeo, che si differenzia dal resto dell’Occidente democratico, perché attribuisce valore di diritti fondamentali ai diritti economici e sociali e impone in modo assoluto il divieto della pena di morte: è una vera carta di identità dell’Unione europea.

Dopo il fallimento del Trattato costituzionale, che aveva previsto l’inserimento della Carta nella Costituzione europea, i paesi membri dell’Unione hanno sottoscritto a Lisbona il 13 dicembre 2007 un nuovo trattato di riforma. Il giorno precedente la Carta dei diritti è stata di nuovo “proclamata” e sottoscritta dai rappresentanti delle tre istituzioni europee a Strasburgo. Benché nel Parlamento europeo si sia voluto sottolineare che questa proclamazione avrebbe accresciuto la “visibilità” della Carta, è a tutti chiaro che la nuova cerimonia è stata resa necessaria dal fatto che la Carta di Nizza è stata nel frattempo integrata con nuove clausole (da un punto di vista formale non è dunque la Carta di Nizza che entra nei trattati, ma una sua versione aggiornata e leggermente peggiorata). Va detto, tuttavia, che dal punto di vista dell’efficacia giuridica concreta le piccole aggiunte al preambolo e agli articoli 51 e 52 non suscitano serie preoccupazioni. Per lo più si tratta di ulteriori esplicitazioni e reiterazioni di limiti della portata e degli effetti della Carta, che si applica al diritto dell’Unione e non a quello degli Stati membri. Sono una sorta di formule scaramantiche, per chi ha paura della forza espansiva della Carta. Più sgradevole è il richiamo, aggiunto nel preambolo, nell’articolo 52 della Carta e nello stesso articolo 6 del nuovo Trattato, secondo cui occorre tenere debito conto anche delle “spiegazioni” elaborate per ciascun articolo dal segretariato della Convenzione che ha redatto la Carta e aggiornate dal segretariato della Convenzione che ha redatto il superato Trattato costituzionale, spiegazioni che perciò vengono pubblicate. Qui, francamente, la volontà di dar valore a un lavoro compilativo di uffici addetti al supporto delle due Convenzioni, che le Convenzioni stesse si sono rifiutate di approvare, è davvero irritante per qualsiasi giurista e per qualsiasi democratico. Può confortare la consapevolezza che nella storia, da Giustiniano a Napoleone, il tentativo di imbrigliare l’interpretazione dei giudici non ha mai avuto esito.

Si vede in queste formule, e ancora di più nelle ulteriori clausole del nuovo Trattato che pretendono di rendere immune il Regno Unito dagli effetti della Carta dei diritti, la pesante mano britannica, che ha sempre contribuito a frenare l’unità politica dell’Europa. Non sempre riuscendoci, per fortuna: infatti, con la sottoscrizione del nuovo Trattato di riforma l’Europa ha fatto di nuovo un grande passo avanti, dopo la delusione della mancata ratifica del Trattato costituzionale, e la Carta, sia pure in un testo separato, avrà – recita testualmente l’articolo 6 del Trattato – «lo stesso valore giuridico dei trattati». Un risultato invocato dalla stragrande maggioranza del Parlamento europeo e infine fatto proprio da tutti i democratici: nell’ultima votazione, anche l’estrema sinistra, che a Nizza era sembrata voler innalzare barricate contro la Carta dei diritti, accusata assurdamente di far arretrare la tutela dei diritti fondamentali anziché di potenziarla, ha votato a favore.

Luci e ombre dell’Unione europea

La vicenda della Carta dei diritti fondamentali è emblematica delle difficoltà del processo di integrazione politica dell’Europa, che è nelle mani di una classe politica giustamente accusata di avere “paura del proprio coraggio”, perché ogni volta che si anima di buona volontà e disegna un avvenire dell’Europa quale ogni ragionevole europeo sembra augurarsi, subito dopo, all’atto di realizzare il progetto disegnato, frena, ridimensiona, rallenta o addirittura torna indietro.

Il Consiglio europeo di Colonia del giugno 1999 aveva dato slancio non solo all’unità dell’Europa, ma anche alla sua dimensione “costituzionale”, subordinando la legittimità delle sue istituzioni e delle sue politiche al rispetto dei diritti fondamentali delle persone, e quindi disponendo la redazione della Carta dei diritti e prevedendo anche l’istituzione di un’Agenzia per i diritti fondamentali. L’anno dopo la Carta era sottoscritta e proclamata, ma fu confinata nel limbo delle dichiarazioni solenni non giuridicamente obbliganti e solo ora è dichiarata vincolante. L’Agenzia, a sua volta a lungo dimenticata, solo nel 2007 ha visto finalmente la luce, ma anche in questo caso stenta a diventare operativa per i mille freni che i tradizionali avversari dei diritti, coloro che li temono o ne diffidano – i governi e le burocrazie – frappongono alla costruzione di una sua autonoma capacità operativa. È davvero profondamente contraddittoria questa Europa, o meglio lo sono le sue classi dirigenti e forse anche i suoi cittadini, desiderosi di un’Europa che sappia far fronte unitariamente alle sfide del mondo contemporaneo, ma timorosi di ogni innovazione necessaria a tale scopo. Siamo dunque di fronte a uno scenario fatto di luci e ombre: da un lato si registra una ritirata se non una disfatta della politica, dall’altro un rilevante avanzamento dell’integrazione europea e persino del suo processo di progressiva costituzionalizzazione. È vero che con il Trattato di Lisbona il progetto costituzionale “è abbandonato”, come è abbandonata l’idea di fondere i Trattati dell’Unione in uno unico. Non si usano più i termini “costituzione”, né “legge europea”, né “ministro degli Affari esteri”; non si menzionano i simboli dell’Unione, come la bandiera, l’inno, il motto. Ogni forma che evochi l’idea di una comunità politica viene cancellata. Il che significa che continua a mancare un elemento essenziale all’approfondimento dell’integrazione europea: un progetto politico comune e una comune leadership politica europea che sappia portarlo avanti.

Ciononostante, occorre riconoscere che la sostanza delle innovazioni positive introdotte dal Trattato costituzionale resta in gran parte confermata. Nel settore che qui interessa, che riguarda i diritti dei cittadini, si può affermare che, di fatto, la sostanza delle innovazioni “costituzionali” è mantenuta. Il carattere vincolante della Carta, l’estensione della giurisdizione della Corte di giustizia e la prevista adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo costituiscono potenti fattori di migliore tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei e di tutti coloro che si trovano entro i confini dell’Unione.

Il ruolo dei giudici

Fin dalla sua proclamazione la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha cominciato a vivere, nelle istituzioni e persino nella giurisdizione. La stessa Commissione Barroso ha messo a punto una comunicazione, impegnativa e analitica, per adottare un test di compatibilità dei documenti della Commissione stessa con la Carta dei diritti. Ma è soprattutto grazie ai giudici che si sta consolidando l’Europa dei diritti. La Carta dei diritti fondamentali è diventata a poco a poco un comune riferimento per l’attività interpretativa dei giudici dei paesi europei, che divengono sempre più consapevoli di operare in un sistema “multilivello”, nel quale la tutela dei diritti impegna tre diversi ordinamenti: quelli nazionali, con le rispettive corti supreme e corti costituzionali, quello comunitario, con la sua Corte di giustizia, e quello internazionale, sia pure sui generis, con la sua Corte europea dei diritti dell’uomo. Questa consapevolezza fa evolvere l’interpretazione e in qualche modo muta il ruolo stesso dei giudici, arrivando anche ad avvicinare le culture giuridiche, tradizionalmente incomunicanti, di common law e di civil law. Le stesse due Corti europee, inizialmente ostili, per diversi motivi, alla Carta dei diritti, l’hanno ben presto non solo accettata ma addirittura, sia pure con grande cautela, utilizzata e valorizzata. Certamente un’ulteriore spinta all’evoluzione delle interpretazioni, ma anche, in prospettiva, al consolidamento di un assetto più stabile e persino alla costruzione di una comune cultura giuridica europea conseguirà al riconosciuto carattere vincolante della Carta dei diritti. Una tutela sempre più urgente e necessaria a fronte del dilagare di tendenze securitarie, repressive e xenofobe che attraversano l’Europa (e ancor più l’Italia), impaurita dai fenomeni migratori e dalle incertezze della globalizzazione. Rafforzare le garanzie e, a questo scopo, preservare l’indipendenza dei giudici diventa perciò sempre più necessario. Così questo continente, che ha saputo inventare un ordinamento sopranazionale capace di rendere impossibili le guerre che per i secoli passati avevano lacerato le sue nazioni, resterà la regione del mondo in cui meglio sono protetti i diritti fondamentali delle persone.

[1] S. Rodotà, I nuovi diritti che hanno cambiato il mondo, in “La Repubblica”, 26 ottobre 2004.

[2] Ha scritto Gustavo Zagrebelsky: «C’è oggi certamente una grande responsabilità dei giudici nella vita del diritto, sconosciuta negli ordinamenti dello Stato di diritto legislativo. Ma i giudici non sono i padroni del diritto nello stesso senso in cui il legislatore lo era nel secolo scorso. Essi sono più propriamente i garanti della complessità strutturale del diritto nello Stato costituzionale, cioè della necessaria, mite coesistenza di legge, diritti e giustizia»; G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992, p. 213.

[3] Per certi versi simile è l’ordinamento che si fonda sulla Convenzione americana dei diritti dell’uomo del 1969, che ha istituito la Corte interamericana dei diritti dell’uomo. A questa tuttavia non si possono rivolgere i singoli individui, ma solo un’apposita Commissione.