L'Italia nell'Unione europea: comprimaria o protagonista?

Di Giuliano Amato Giovedì 26 Giugno 2008 18:37 Stampa

Dopo un ingresso nelle Comunità europee tutt’altro che dimesso, l’Italia ha vissuto la contraddizione del paese fondatore che tuttavia si comporta da paese comprimario, quasi ospite degli altri. Ora è necessario capire quale ruolo il nostro paese intende esercitare nell’Unione e se ha intenzione di far valere i propri interessi e convertirli in soluzioni europee, assumendo stabilmente e sistematicamente un atteggiamento maturo di paese protagonista.

Sarebbe ingiusto dire che l’Italia entrò nelle Comunità europee con lo stesso spirito con cui un secolo prima era entrata nella guerra di Crimea. Non fu così, perché De Gasperi e la Democrazia Cristiana si erano esplicitamente pronunciati sull’importanza di dar vita a un’entità europea capace di inserirsi con una propria voce fra le due superpotenze del tempo. In più, De Gasperi, che aveva con sé un consigliere del calibro di Altiero Spinelli, era profondamente convinto della necessità storica dell’integrazione europea per porre fine alla rovinosa conflittualità fra gli Stati nazionali. Non a caso fu lui a insistere più di ogni altro perché la (mai nata) Comunità di difesa avesse un Parlamento elettivo, che aprisse la strada alla federazione politica.

L’inizio dunque fu tutt’altro che dimesso, o gregario. È un fatto, però, che negli anni successivi sempre più ci siamo fatti risucchiare da quel lontano e mai rimosso atteggiamento, di cui tante volte abbiamo messo a fuoco le cause, guardandoci sempre bene, però, dall’adoprarci per farle cessare: da un lato il giudizio su di noi reso dagli altri all’insegna di una nostra scarsa affidabilità, desunta un po’ dalla nostra fragilità interna, un po’ dalla nostra dubbia e più volte revocata lealtà alle alleanze internazionali; dall’altro lato il giudizio che noi stessi tendiamo a dare su di noi, all’insegna dell’autoflagellazione, dell’amplificazione dei difetti nazio-nali e della gioia sarcastica di descriverci peggio degli altri, con il risultato di spingere gli altri a vederci essi stessi come noi ci vediamo.

E così abbiamo vissuto la contraddizione del paese fondatore, che del fondatore ha tutte le (potenziali) prerogative e che tuttavia si comporta da paese comprimario, quasi ospite degli altri. I ministri degli altri paesi e i loro stessi funzionari presero a concertarsi con assiduità, i nostri c’erano solo alle riunioni formali e non entrarono a far parte dell’establishment. Sarà che c’è una Mitteleuropa i cui esponenti erano e si sentivano più vicini di noi nel triangolo Strasburgo-Bruxelles-Lussemburgo, sarà che noi, specie nei primi decenni, eravamo scarsi in lingue. Certo è che con gli anni il nostro ruolo, nelle riunioni a cui eravamo presenti, diventò quello di dire una parola mediana fra le posizioni che già si erano formate, oppure di apprendere decisioni che altri avevano già preso in negoziati a cui noi eravamo semplicemente assenti. E non è solo, si badi, una naturale conseguenza dell’asse franco-tedesco, giacché quando i due paesi presero a vedersi prima fra di loro e a precostituire le decisioni dei consigli, toccava a tutti, e non ai soli italiani, l’imbarazzo dell’informativa ex post. No, a noi è anche toccato trovarci esclusi da negoziati come quelli che portarono una buona parte dei nostri partner all’accordo di Schengen e, più di recente, all’accordo di Prunn, accordi ai quali abbiamo aderito in un secondo tempo, senza troppo chiederci – né chiedere – perché nessuno ci avesse chiamato dall’inizio (in fondo, è dalla guerra di Crimea che ogni volta pensiamo di avere davanti lo stesso perché e di non avere conseguentemente bisogno di altre spiegazioni). Per non parlare delle grandi iniziative di politica internazionale, nelle quali ha preso corpo l’odiato direttorio a tre (Francia, Germania, Regno Unito), davanti al quale il nostro orgoglio ferito ci ha regolarmente indotto ad accampare il ruolo di quarto grande europeo, con la inconfessata e debilitante convinzione, però, che noi come grandi siamo una mezza misura.

Nell’establishment di Bruxelles, come nel cinema, nello sport e in altri cimenti, diamo ogni tanto la prova del contrario, diamo cioè prova di eccellenza. Lo abbiamo fatto con Spinelli e con altri commissari che, dopo di lui, si sono conquistati un grande prestigio (l’ultimo è stato Mario Monti). Lo abbiamo fatto con Romano Prodi, il presidente del-l’allargamento. Lo abbiamo anche fatto con direttori generali rimasti negli annali, come Tommaso Padoa-Schioppa e Giovanni Ravasio agli affari economici negli anni a cavallo dell’euro. Lo abbiamo fatto infine con grandi exploit politici, come quelli iniziali di De Gasperi, che rese davvero l’Italia uno dei grandi della prima Europa a 6, quello di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, che aprirono la strada all’Atto unico mettendo in minoranza la Thatcher al Consiglio europeo di Milano del 1985, quello di Carlo Azeglio Ciampi, che nel 1998 fece entrare l’Italia nell’euro grazie alla sua personale garanzia. Sono exploit di cui andiamo orgogliosi e che amiamo ricordare a testimonianza delle nostre qualità, nonostante tutto. Ma il nonostante rimane.

Il nonostante rimane e ci fa vivere l’Europa non come l’arena istituzionale e politica sopranazionale nella quale possiamo dar corso alle nostre scelte politiche non realizzabili con la necessaria efficacia entro i ristretti confini nazionali, ma come la fonte, tanto severa quanto indispensabile, dei vincoli che tengono a bada le nostre pigrizie e la nostra accondiscendenza verso i nostri difetti, riportandoci così sulla diritta via. Ecco allora l’Europa dello SME che costringe l’industria italiana a ristrutturarsi, il Parlamento europeo che ci sprona burbero a fare finalmente una legge antitrust, la preparazione dell’euro che ci spinge al risanamento della finanza pubblica, il governo Achille che insegue ogni anno, e da sempre, la tartaruga delle procedure di infrazione ma che, naturalmente, non riesce mai a raggiungerla.

Per moltissimi anni agli italiani l’Europa è piaciuta così. E il gradimento delle istituzioni europee ha fatto da contraltare al crescente giudizio critico nei confronti di quelle nazionali, soprattutto delle istituzioni politiche, il Parlamento e il governo. A prescindere da ogni altra e più solida considerazione, bastava la nostra propensione ad autoflagellarci per rendere ai nostri occhi più verde tutto ciò che apparteneva al nostro vicinato. Poi, però, le cose hanno cominciato a cambiare e l’Italia, paese tradizionalmente europeista, ha preso a dare segni di euroscetticismo o, più propriamente, di euro-insofferenza.

È stato uno dei frutti del radicamento della nuova coalizione politica di centrodestra, che ha fatto crescere anche da noi tanto la critica all’Europa minuziosa e ossessiva regolatrice di troppi det-tagli della vita quotidiana, quanto la rivendicazione di un interesse nazionale, identificato nel “particulare” italiano da non sacrificare non solo ai “particolari” altrui, ma neppure sull’altare dei (presunti) interessi generali europei. Si tratta di critiche che risalgono a presupposti concettuali assai contrastanti fra loro, giacché l’una esprime l’insofferenza liberista per i lacci e laccioli, l’altra la difesa di stampo protezionista dei contributi comunitari e degli aiuti di Stato che convengono a categorie o imprese nazionali. Ma la destra copre e fa sue queste diverse impostazioni non solo in Italia. Ciò che conta è che davanti alle tante fonti di rischio e di insicurezza che hanno preso a giungere dal mondo esterno – dal terrorismo alle ondate di immigrazione, dalla grande quantità di prodotti cinesi alle delocalizzazioni delle nostre stesse imprese – chi si dichiara insoddisfatto delle protezioni fornite dall’Europa, e magari condisce tale insoddisfazione auspicando una più robusta rivendicazione della cristianità della stessa Europa, offre una piattaforma che attrae consensi; una piattaforma sulla quale anche un plateale aiuto di Stato all’agonizzante Alitalia appare più motivato di quanto altrimenti sarebbe.

Ma proprio questo è il punto. Quale ruolo intende esercitare l’Italia nell’Unione su queste basi? Lascerà una buona volta il ruolo del comprimario e si comporterà invece da protagonista, facendo coincidere quello che ritiene essere il suo interesse nazionale con interessi più ampi e quindi con politiche capaci di diventare europee? Oppure sarà un Calimero non più remissivo, che continua perciò a essere piccolo e nero, ma si impunta come un mulo ribelle?

È appena il caso di ricordare che fra i paesi ritenuti grandi questa seconda strada l’ha percorsa solo il Regno Unito, sulla premessa, da tutti condivisa, che a impuntarsi nel suo caso non era un muletto, ma un cavallo di gran razza. E la differenza, piaccia o no, ha un suo peso. Gli altri due, la Francia e la Germania, hanno invece (quasi) sempre seguito la prima strada, un po’ in ragione delle loro convinzioni europeiste, un po’ in ragione dell’intelligenza delle rispettive élite, che ne hanno perorato le cause nelle sedi comuni. Certo, seguire la prima strada, incanalare perciò i propri interessi nazionali in alvei che riescono a essere più ampi e capaci di coinvolgere anche altri, significa saper generare per loro soluzioni non nazionali, ma euro-pee (come fecero Giscard d’Estaing e Schmidt quando reagirono alla volatilità dei cambi seguita allo sganciamento del dollaro dai vincoli di Bretton Woods, non chiudendo i rispettivi mercati valutari, ma dando vita allo SME). E già questo fa da selettore degli interessi nazionali che si possono decentemente convertire in interessi comuni e quindi far valere nelle sedi comuni.

L’Italia, come gli altri Stati membri, ha interessi nazionali convertibili in soluzioni europee. Ne ha in materia di sicurezza, immigrazione, energia, clima, infrastrutture, relazioni economiche e politiche internazionali. Non entro nel merito, anche perché altri lo fanno, almeno in parte, in questo stesso numero della rivista. Quello che conta è che tutti ci adopriamo perché l’Italia tali interessi li faccia valere e li sappia convertire in soluzioni europee, assumendo stabilmente e sistematicamente quell’atteggiamento maturo di paese protagonista che solo occasionalmente, e grazie alle speciali qualità di taluni dei suoi rappresentanti, ha saputo assumere in passato. È un esercizio di cui tutti abbiamo bisogno, perché in materia non abbondano fra di noi i primi della classe. A sinistra si potrà dire che sono quelli del centrodestra a voler trasformare l’Italia comprimaria in un muletto riottoso, e anzi ad averlo già fatto in più di una occasione. Ma l’europeismo con le idee, le proposte e addirittura lo stesso personale degli altri (esempio clamoroso e attuale: li abbiamo o no dei candidati italiani di calibro europeo per le cariche di vertice dell’Unione introdotte dal Trattato di Lisbona?) è innegabilmente un difetto nazionale.

Liberarcene, certo, non è solo liberarci da questo difetto. Dobbiamo liberarci, quando davvero ci sono, dalle ragioni di oggettiva debolezza rispetto agli altri. Dobbiamo liberarci, quando tali ragioni non ci sono, dal vizio dell’autoflagellazione, che poi ci ricade addosso come opinione altrui promossa da noi. Dobbiamo imparare a pensare europeo, prendendo atto, noi vecchi europeisti, che l’Europa non è la mamma severa che ci sgrida da fuori, ma è la dimensione naturale di tante delle nostre politiche. Insomma: a cinquant’anni dalla nascita dell’impresa comune europea, è tempo anche per l’Italia, che ne è socio fondatore, di non esserne più junior partner.