La fonte dell'attenzione

Di Riccardo Rita Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

Andrea strinse ancora un po’ la fibbietta degli stivali. Lo sapevo che il quarantadue mi stava largo, disse. Fece qualche passo sul posto, come se stesse pestando l’uva in una tinozza, poi si spolverò con le mani i pantaloni della tuta di pelle, anche se non erano impolverati, infilò i guanti e uscì dal bagno tenendo il casco incastrato tra l’anca e il braccio. Il corridoio era deserto. Guardò prima a sinistra, poi a destra, per ricordarsi da quale parte era venuto, e s’incamminò a testa bassa verso il lato più rumoroso.

 

Andrea strinse ancora un po’ la fibbietta degli stivali. Lo sapevo che il quarantadue mi stava largo, disse. Fece qualche passo sul posto, come se stesse pestando l’uva in una tinozza, poi si spolverò con le mani i pantaloni della tuta di pelle, anche se non erano impolverati, infilò i guanti e uscì dal bagno tenendo il casco incastrato tra l’anca e il braccio. Il corridoio era deserto. Guardò prima a sinistra, poi a destra, per ricordarsi da quale parte era venuto, e s’incamminò a testa bassa verso il lato più rumoroso. Pochi passi più avanti vide il luccichio di una moneta per terra, si chinò per raccoglierla ma visto che con quei guanti imbottiti non riusciva ad afferrarla, dopo un po’ lasciò perdere.

All’ingresso della pista c’era ancora un gruppetto di gente. Un uomo con gli occhiali specchiati, basso, calvo, con la voce rauca, gridò un numero e alzò una pettorina nera con lo stesso numero stampato in bianco sul dorso.

Mio, disse uno di quelli che aspettavano.

Prese la pettorina e uscì.

Andrea ne aveva almeno una ventina davanti.

Prese a picchettarsi con le dita sulla coscia, e sbuffò mentre guardava l’uomo con gli occhiali a specchio infilare una mano nel mucchio e afferrare un’altra pettorina.

La alzò in aria come la testa di un nemico sconfitto dopo una battaglia d’altri tempi. Quarantasette, disse l’uomo.

Silenzio.

Quarantasette. Non c’è il quarantasette?

I presenti si guardarono attorno, qualcuno alzò le spalle, qualcun altro si grattò la testa, tutti, comunque, in silenzio.

Quarantasette! Chi prende il quarantasette?

Passa a quello dopo, disse un ragazzo coi capelli rossi.

L’uomo si tolse gli occhiali con la sinistra e li guardò a uno a uno agitando la pettorina con la destra, come a significare che qualcuno se la doveva prendere senza tante storie, altrimenti non si andava avanti.

Vabbè, disse Andrea. La prendo io.

Tagliò il gruppetto e afferrò la pettorina. Ecco, bravo,

prenditela tu, si sentì dire, e qualcuno rise.

Andrea spostò lo sguardo dalla pettorina al gruppetto di gente, poi considerò l’uomo che dava i numeri. Tutti superstiziosi ‘sti ragazzi, disse.

L’uomo alzò il mento come a indicare un evento inevitabile e si rimise gli occhiali a specchio. Andrea sorrise e scosse la testa, si voltò e andò di corsa a prendere la moto ai box.

Sugli spalti del lungo rettilineo suo padre aveva appena alzato la linguetta della lattina di cocacola, e l’aveva restituita all’altro suo figlio, quello piccolo, che ci infilò dentro una cannuccia gialla e cominciò a bere.

Qual è Andrea?

Il padre puntò l’indice verso un gruppetto di moto che stavano appena entrando nel rettilineo.

Quello davanti.

Il piccolo spostò la testa da sinistra a destra per seguire con lo sguardo suo fratello, finché non lo vide scomparire tutto piegato dietro la curva. Poi guardò suo padre.

Numero quarantasette, disse. L’uomo annuì senza distogliere gli occhi dalla pista, dove le motociclette continuavano a sfrecciare ipnoticamente.

Quanto ci mette a ripassare?

Non so, rispose il padre. Un paio di minuti, credo.

Il piccolo si portò il polso sinistro davanti agli occhi e non lo mosse per due minuti esatti. Poi spostò lo sguardo su suo padre. Ci mette di più, protestò.

Il padre si alzò in piedi; aveva appena visto il gruppetto di testa ripercorrere tutto il rettilineo. Suo figlio non c’era. Forse si è fermato ai box, pensò. Restò in attesa per un po’, mentre il piccolo lo tirava per la giacca. Dove sta Andrea, gli domandava.

Il padre gli accarezzò la testa. Adesso passa, disse. Adesso passa.

Tutt’a un tratto si svegliò con una spiacevole sensazione nel cuore. Accese la luce del comodino e guardò la sveglia: erano le tre e quarantasette. Osservò sua moglie, che era voltata dall’altra parte e, quando vide che la coperta si alzava e si riabbassava impercettibilmente, si tranquillizzò. Uscì dal letto facendo attenzione a non svegliarla e andò al bagno. Mentre lui urinava, Ginger saltò sul ripiano alla sua sinistra e si mise a fissarlo, come in attesa.

Allora sei tornata, disse l’uomo. Dove diavolo ti eri cacciata?

Appena ebbe finito tentò di accarezzarla, ma la gatta saltò giù come una saetta, andò verso la porta, si fermò sulla soglia e si girò a guardarlo.

Ma cos’hai?

Quando le si avvicinò, lei fece un altro scatto, girò a destra nel corridoio, si fermò davanti alla porta chiusa che dava sulla cantina e cominciò a grattarla miagolando.

Dove diavolo vuoi andare, disse.

La raggiunse e aprì la porta. La gatta sgusciò dentro, inghiottita dal buio delle scale.

Accese la luce delle scale giusto in tempo per vederla sparire di sotto, sulla destra, nella cantina. Scese e tastò il muro accanto all’entrata in cerca dell’interruttore. Lo trovò quasi subito, però, quando lo spinse, la lampadina non si accese; così ricordò che avrebbe dovuto cambiarla già da qualche giorno ma, chissà perché, finiva sempre per dimenticarsene. La luce delle scale diffondeva un po’ di chiarore nella cantina. Andò verso la cassettiera di metallo e tirò fuori una candela; continuò a frugare per un po’. I fiammiferi, si ricordò, erano sulla mensolina. Ginger se ne stava ferma sul fusto dell’olio e lo fissava come se lo stesse aspettando. Ma cos’è che hai in mente, disse tra sé e sé. La gatta allora saltò sulla credenza, camminò calma sul ripiano di legno, s’infilò nello spazio tra due grosse scatole di cartone e sparì. L’uomo si avvicinò, fece luce con la candela, ma della gatta non c’era più traccia.

Che diavolo, disse.

Fece gocciolare un po’ di cera sul ripiano, fissò la candela e tirò giù prima una scatola e poi l’altra. Mentre tirava via la seconda sentì cadere qualcosa a terra, qualcosa di carta, che stava infilata sotto la grossa scatola. Staccò la candela per farsi luce, si chinò e vide che sotto la credenza c’era una busta da lettere gialla. La prese e la girò. Per Giulia, c’era scritto, e siccome non era stata chiusa, alzò il lembo di carta. C’era dentro un foglio piegato in quattro.

Riconobbe la calligrafia fitta di suo figlio.

Quando tornò a letto sua moglie era sveglia.

Dove sei stato?

Ginger è tornata, sta giù in cantina, da qualche parte.

L’uomo accostò le pantofole ai piedi del letto e spense la luce. È successa una cosa strana, continuò. Sembrava che mi ci volesse portare, giù in cantina.

Lui rimase in attesa, ma sua moglie non disse niente.

Sospirò. Ho trovato una lettera di Andrea. Una lettera per Giulia.

La donna accese il lume sul comodino e si voltò a guardarlo.

Era aperta, aggiunse.

Lei si tirò su col busto.

Stavo per leggerla, disse ancora lui.

Invece l’ho richiusa e l’ho rimessa dove l’avevo trovata, sotto lo scatolone dove sta la roba della moto. Non so come c’è finita. Inspirò profondamente.

Lasciò uscire l’aria dal naso e ne ascoltò il suono. Di fuori, da qualche parte, un cane abbaiava.

Si voltò a guardarla. Pensi che gliela dovremmo spedire?

Lei sospirò. È passato tanto tempo, disse.

L’uomo annuì. Lei gli accarezzava i capelli, e se ne stettero tutti e due in silenzio per un po’. Dalle stecche delle persiane filtrava un chiarore tenue che bordava le tende d’un blu etereo e distante, e il ticchettio della sveglia gocciolava nella stanza come un rubinetto che non si sarebbe mai più chiuso del tutto.

Domani, disse la donna. Domani gliela spediamo.

Suo marito annuì, poi si voltò dall’altra parte. Dormiamo ancora un po’, disse.

Sì, disse lei. Ancora un po’.