Opporsi al mercato globale si deve. Le ragioni dei no global

Di Giampiero Rasimelli Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

Quali sono le ragioni dei no global o new global che dir si voglia? Secondo me ne esistono fondamentalmente due. La prima è che questo movimento variegato ed eterogeneo ha conquistato sul campo legittimità alla critica della globalizzazione neoliberista, quella che sin qui abbiamo conosciuto, quella del pensiero unico, della fine della storia. La politica riformista si è attardata e involuta nella reazione alla sconfitta storica maturata con la rivoluzione tecnologica, con la crisi del welfare e tra le macerie lasciate dalla caduta del muro di Berlino.

 

Quali sono le ragioni dei no global o new global che dir si voglia? Secondo me ne esistono fondamentalmente due. La prima è che questo movimento variegato ed eterogeneo ha conquistato sul campo legittimità alla critica della globalizzazione neoliberista, quella che sin qui abbiamo conosciuto, quella del pensiero unico, della fine della storia. La politica riformista si è attardata e involuta nella reazione alla sconfitta storica maturata con la rivoluzione tecnologica, con la crisi del welfare e tra le macerie lasciate dalla caduta del muro di Berlino. Anche la stagione aperta dalla «terza via» di Blair, che ha portato il centrosinistra al governo in quasi tutti i paesi europei e con Clinton negli USA, è risultata insufficiente a definire un’alternativa reale e comprensibile all’egemonia neoliberista. Ho detto insufficiente, perché quel pensiero, a mio parere, contiene un nucleo innovativo e positivo che guarda alla nuova articolazione sociale di oggi, alla necessità di ricostruire in modo diverso il compromesso sociale, lo spazio pubblico. Il risultato si è però dimostrato riduttivo, incapace di incidere sui problemi del mondo, di contrastare e sostituire l’egemonia neoliberale, di acquisire, soprattutto nelle società ricche, il consenso necessario a restituire alla politica il suo ruolo di garante dell’interesse generale.

La seconda riguarda il tema della guerra. Le contraddizioni strutturali della globalizzazione senza regole, guidata da interessi ristretti hanno prodotto, invece della fine della storia, un’inaudita crescita della conflittualità internazionale. Questo, fuori dal rigido schema di controllo imposto dalla guerra fredda, ha moltiplicato i rischi legati al gigantesco mercato degli armamenti, alla forza crescente dei poteri illegali, all’espandersi del cancro del terrorismo internazionale. Ma a ciò si è aggiunta l’interpretazione che di questo disordine internazionale hanno via via dato gli Stati Uniti d’America. L’idea autoreferenziale ed unilateralista del gendarme mondiale posto a difesa del proprio modello di vita ha progressivamente preso corpo sino a diventare oggi esplicita dottrina di governo, fuori dai vincoli imposti da un pur esangue diritto internazionale e dalle sue istituzioni. Da almeno quindici anni il movimento per la pace, al di là di ogni tentazione di pura testimonianza e probabilmente con alterne ragioni (io penso che molte volte fosse nel giusto), ha lanciato, inascoltato, il suo allarme sull’involuzione della situazione internazionale, sui conflitti irrisolti, sull’incapacità di prevenirli (anche quando si sono manifestati nel cuore dell’Europa), sul rischio connesso all’indebolimento del diritto internazionale, sull’insostenibilità del peso del complesso militare-industriale sull’economia e sulla sicurezza internazionale. Ecco, il pacifismo ha sollevato per primo e con forza la questione della sicurezza per tutti, di un governo equo e sicuro delle relazioni sul pianeta, lottando prima contro l’equilibrio del terrore e poi contro l’unipolarismo posto a guardia del mondo dei conflitti senza regole, senza diritto, senza giustizia. Intendiamoci, il terrorismo oggi è un drammatico dato di fatto, un nemico reale da combattere senza reticenze, ma la lotta al terrorismo e il perseguimento della sicurezza internazionale sono una questione ben più complessa.

Questo è interessante! In fin dei conti il movimento per la critica della globalizzazione neoliberista e per la pace si è manifestato come l’espressione di una grande e crescente esigenza di giustizia e sicurezza legata al futuro delle nostre società, alla loro possibile convivenza sul pianeta. La globalizzazione che abbiamo conosciuto porta con sé grandi opportunità e grande conflittualità, grandi potenzialità e grandi squilibri. Ciò che ha prodotto non è l’happy end, un’illuministica fine della storia, ma una grandissima questione di giustizia e di sicurezza nel mondo che interroga in modo diverso e da diverse condizioni ogni cittadino del villaggio globale, il suo futuro, la sua vita e quella dei suoi figli. La questione, ormai da tempo, non è più soltanto etica, ma concretamente politica e non può essere lasciata nelle mani di chi rappresenta interessi ristretti e dà una risposta autoritaria e cieca alle contraddizioni della nostra epoca. Forse per il riformismo nei paesi ricchi e sviluppati, il problema non è tanto (o soltanto) la conquista della rappresentanza degli interessi del centro, della variegata middle-class del nostro tempo. Forse oggi abbiamo l’urgenza di conquistare questo centro ad una cultura riformatrice che credibilmente indichi le risposte possibili alle domande di sicurezza e di giustizia per il nostro futuro e da queste faccia discendere l’esigenza di un nuovo spirito pubblico, di uno spirito di responsabilità collettiva non più vissuto individualmente come limite alle proprie aspettative personali, ma, al contrario, come condizione per ridurre l’insicurezza e conquistare una nuova e positiva convinzione sul futuro di noi tutti.

Dopo le recenti elezioni tedesche si è parlato, con riferimento al successo in extremis e di stretta misura della coalizione rosso-verde, della vittoria di una maggioranza culturale. Penso che sia un concetto produttivo, da approfondire, e che segua il senso del mio ragionamento. Se prevale un’idea di destra della sicurezza e del futuro, porterà con sé un altissimo e pericoloso tasso di conflittualità, di discriminazione, di riduzione democratica. La sicurezza si realizzerà nelle cittadelle fortificate del privilegio. La cultura democratica, la sinistra devono proporre un’alternativa e sinora non ci sono riuscite, non hanno conquistato credibilità e consenso in questa direzione, l’agire è apparso subordinato o troppo debole da diversi e contrastanti punti di vista, non si è coagulata quell’energia politica e culturale capace di dare unità e forza positiva alle domande di futuro, di sicurezza e opportunità per tutti presenti nelle nostre società.

Al di là della discussione sul grado di radicalità espresso dai movimenti, questa è la situazione. La politica democratica non pare avere un potenziale di azione efficace per interpretare le domande di cui è destinataria e i movimenti, per la loro parte, hanno sinora occupato e presidiato questo vuoto. E hanno spinto positivamente! Giuliano Amato lo ricorda sempre: «questi movimenti sono una manna caduta dal cielo». Hanno posto le questioni fondamentali. Come si regolano i mercati finanziari? Come si regola l’economia globale? Come si costruisce uno sviluppo ecologicamente sostenibile capace di valorizzare anche le potenzialità e le vocazioni dello sviluppo locale? Come può essere compatibile una globalizzazione che voglia distribuire opportunità a tutti col protezionismo dei paesi più ricchi? Come si possono rafforzare le istituzioni internazionali se la prassi è la violazione del diritto internazionale da parte di coloro che ne dovrebbero essere i garanti? Come si può affermare nel mondo la democrazia se la prassi è la violazione dei diritti umani fondamentali da parte dell’attuale modello di sviluppo? Come può essere sconfitto il terrorismo internazionale se non migliorano le condizioni di vita di miliardi di persone e se non si affermano quei diritti umani fondamentali oggi negati? Come si può avere sicurezza sul pianeta se il sistema militare-industriale resta o torna ad essere padrone dell’economia e della politica nutrendo autoritarismo, corruzione, terrorismo e ogni genere di traffici illegali? Sono questi gli interrogativi sulla governance dell’equilibrio mondiale, la sfida reale per il presente e per il futuro. I movimenti li hanno proposti e hanno contribuito a cambiare il clima culturale, a far maturare l’esigenza che un’altra agenda politica è possibile e necessaria, a mettere in difficoltà l’egemonia neoliberista. Ora è urgente che la politica pratichi il suo mestiere, recuperi rapidamente il suo spessore (anche etico, che certamente non guasta), incroci le armi della critica e della proposta politica. Trovo oziosa la discussione sulla congruità delle proposte dei movimenti. Che se ne avanzino di più congrue! Che si faccia qualcosa di visibilmente incisivo! Non tarderanno ad arrivare i consensi! La verità è che quanto si è fatto sinora è seriamente insufficiente e i rischi sono aumentati per la sinistra, per la democrazia, per il mondo.

Specchio di questa realtà è la situazione degli organismi internazionali. A proposito dell’ONU recentemente Gianni Riotta ha scritto sul Corriere della Sera raccontando la discussione di un importante «salotto» diplomatico: «il paradosso del momento attuale vede l’ONU con scarso potere reale avere però nel mondo uno straordinario prestigio morale. Per contro gli Stati Uniti, che godono di una forza militare senza confronti, soffrono di scarsa legittimità morale. Se non risolviamo questa contraddizione prepariamo tensioni tragiche». Il riferimento è ovviamente alla disputa sulla guerra in Iraq, ma il fatto è che questa tensione si estende al complesso dei temi della governance mondiale e all’insieme delle sue istituzioni. Se si guarda oltre l’ONU, al Fondo monetario internazionale, alla Banca mondiale, alla Organizzazione mondiale del commercio ecc., si ha nettamente la sensazione della conclusione di un epoca. Organismi nati alla fine della seconda guerra mondiale per garantire e rafforzare la pace, dare stabilità, prevenire le crisi, sono divenuti agenti di crisi o testimoni impotenti di esse, piegati alla logica del pensiero unico, dell’ortodossia economica neoliberale, della stringente dinamica del Washington consensus. A questo proposito nel movimento si confrontano due posizioni. Una propone il superamento di questi organismi valutando l’impossibilità della loro democratizzazione, di un nuovo corso e prefigura una governance disarticolata fondata su istituzioni di governo sovranazionali su base regionale. L’altra, che io condivido, spinge invece per una democratizzazione di questi organismi, o meglio, per una loro profonda riforma che ne ridefinisca la mission di fronte ai problemi del mondo di oggi e gli fornisca adeguata cultura e strumenti per attuarla. Le proposte in campo sono già molte, il problema è determinare una volontà politica di cambiamento che oggi ancora non si manifesta a sufficienza e che, soprattutto per questo, pare non poter prevalere. La globalizzazione ha portato con sé questa grandissima sfida per la democrazia: come realizzare una governance globale fondata su un sistema di principi equo e condiviso che dia legittimità e operatività ai suoi istituti. Questa è la grande questione politica che abbiamo di fronte, che non si può ridurre nella tecnicalità e che disegna lo spazio di un nuovo riformismo. Bisogna ripartire da dove ha fallito la «terza via», dall’inaccettabilità della più inaudita concentrazione di potere e di ricchezza della storia. E va fatto unendo le forze migliori della cultura democratica dell’Europa e degli Stati Uniti d’America alla spinta dei paesi emergenti, alla lotta dei paesi poveri per la sopravvivenza, all’azione diretta dei cittadini in tutto il mondo.

Altro che antiamericanismo. Quello che oggi l’amministrazione Bush pare non sappia capire è che la ricerca di questa governance globale più democratica e più rispettosa della dignità di tutti è l’unica via per mantenere la pace e togliere spazio ad un terrorismo sempre più incisivo, capace di sfruttare e colpire le reti e i simboli del mondo globale. Il modello di vita raggiunto nei paesi ricchi può essere adeguato, cambiato se la sua difesa coincide con la necessità di allargare l’accesso alle opportunità di crescita, di mantenere un equilibrio ambientale sostenibile, di costruire un diritto internazionale che credibilmente vincoli i comportamenti di tutti. Diversamente da ciò si può produrre una sconfitta drammatica per la democrazia e allora, veramente si avranno tensioni tragiche.

Alla luce di tutto questo forse si può comprendere meglio il cammino dei movimenti da Seattle a Porto Alegre 3, il Forum sociale mondiale che si è tenuto solo pochi giorni fa nel nuovo Brasile di Lula. «Un altro mondo è possibile e necessario» recitano gli slogan e non testimoniano un’ingenua utopia, ma, al contrario, pongono con estrema concretezza sul tavolo della discussione e dell’azione politica l’urgenza di una risposta alla crisi del neoliberismo che è sotto i nostri occhi, tanto che da due anni è anche il tema dell’incontro dei potenti a Davos. Né può essere considerato strano, quasi imbarazzante, che i primi atti del governo Lula siano stati il piano contro la fame e la proposta di legalizzazione delle favelas, cioè l’esatto contrario di quanto per anni le dottrine del Fondo monetario internazionale hanno imposto in America Latina e in altre parti del mondo.

L’Europa può essere la grande risorsa di questo impegno democratico nel dialogo e anche nel confronto conflittuale con gli Stati Uniti, nel far valere il suo peso nella riforma degli organismi internazionali, nel promuovere il ruolo di nuovi soggetti mondiali, nel presidiare e rafforzare la pace e il diritto internazionale senza per questo diminuire l’intensità della lotta al terrorismo. Se l’esperienza dell’Unione saprà consolidarsi, questo porterà all’Europa grande forza e grande prestigio che potranno essere spesi utilmente in direzione di un rinnovamento democratico delle relazioni internazionali. Per ottenere questo risultato probabilmente dovremo saper ridare centralità a quello spazio pubblico che è il cuore della civiltà europea e che negli ultimi decenni ha subito i colpi della sua crisi e quelli della propaganda del pensiero unico. Oggi, forse, il riformismo può riprendere, dipenderà dall’intelligenza e dagli attori che riuscirà a mettere in campo. Considero l’esperienza dei movimenti di critica della globalizzazione e per la pace una parte vitale e insostituibile di questo nuovo, possibile, necessario orizzonte riformista.