Cambiare il PSE? Uniamo prima i riformisti italiani

Di Claudio Martelli Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

In modi diversi Giorgio Napolitano, Pierre Moscovici e Peter Mandelson hanno risposto criticamente alla lettera di Amato e D’Alema ai socialisti europei. Napolitano giudica irrealistica la prospettiva di un coinvolgimento di tutti i riformisti europei in una «casa» comune, invitando gli autori a non confondere «la questione dell’Ulivo italiano come casa comune dei riformismi di centrosinistra, con la questione dei partiti europei». Una svolta simile, argomenta Napolitano, avrebbe bisogno di «ben altri approfondimenti» in mancanza dei quali la questione della collocazione europea «degli eletti italiani di centrosinistra nel Parlamento di Strasburgo si può risolvere in uno statuto speciale di associazione al gruppo socialista».

 

In modi diversi Giorgio Napolitano, Pierre Moscovici e Peter Mandelson hanno risposto criticamente alla lettera di Amato e D’Alema ai socialisti europei. Napolitano giudica irrealistica la prospettiva di un coinvolgimento di tutti i riformisti europei in una «casa» comune, invitando gli autori a non confondere «la questione dell’Ulivo italiano come casa comune dei riformismi di centrosinistra, con la questione dei partiti europei». Una svolta simile, argomenta Napolitano, avrebbe bisogno di «ben altri approfondimenti» in mancanza dei quali la questione della collocazione europea «degli eletti italiani di centrosinistra nel Parlamento di Strasburgo si può risolvere in uno statuto speciale di associazione al gruppo socialista».

Analogamente Moscovici, che nell’analisi e nella prognosi appare più disilluso e fatalista («la sintesi socialdemocratica è in crisi in tutta Europa (…) la socialdemocrazia ha esaurito la sua capacità di riforma» perché «in tutta Europa la società è socialdemocratica» e dunque, è possibile qualche «ulteriore miglioramento ma il compromesso socialdemocratico» proprio perché realizzato «non corrisponde più alle attese della società contemporanea»), giudica impossibile «trapiantare l’Ulivo nel paesaggio politico francese o europeo» per l’inconciliabilità delle culture politiche, segnatamente, quelle liberali e quelle socialiste. Entrambi, Napolitano e Moscovici, concludono perorando in alternativa alle tesi «contaminatorie» di Amato e D’Alema la nascita, finalmente, di «un vero partito del socialismo europeo» che dovrebbe recuperare a livello sovranazionale quella capacità di guida e di governo dei processi globali, ormai sfuggita alla maîtrise degli Stati nazione nei quali si è sviluppata l’esperienza socialdemocratica.

Sulla stessa lunghezza d’onda sembrano sintonizzati gli interventi, nel successivo convegno di Italianieuropei, di Piero Fassino e del segretario del PSOE Zapatero che curiosamente mescolano aspettative salvifiche e critiche impietose dal e al Partito socialista europeo, giudicato da quest’ultimo «né partito, né europeo e forse neppure socialista» e da Fassino «privo di leadership e persino di un programma». Anche Peter Mandelson vede la crisi del socialismo europeo e ritiene indispensabile, per uscirne, riconoscere una leadership (di cui il socialismo europeo pur dispone e che dovrebbe saper investire di questa missione) e maggiore realismo, dinamismo e innovazione. Insomma, l’esatto contrario «del dogmatismo, delle divisioni e del distacco dalla realtà» che individua come i vizi capitali della sinistra europea. Peraltro, lo stesso Mandelson, mentre rivendica al New Labour di aver saputo «raggiungere nuovi elettorati e al contempo di aver restituito ai nostri iscritti il diritto di contare nei processi decisionali del partito», riconosce l’insuccesso del tentativo di realizzare, in Gran Bretagna, una stabile alleanza tra laburisti e liberaldemocratici e teme che «questa divisione tra i due partiti potrebbe costituire, prima o poi un’arma a disposizione dei conservatori».

A ben guardare però neppure lo spin doctor di Tony Blair, che pure è il meno riluttante a un grande cambiamento, è in sintonia con Amato e D’Alema. Mandelson crede necessario e giusto non «di abbandonare le nostre tradizioni ma, al contrario, di renderle più vitali» e, contemporaneamente, si dichiara convinto che bisogna rendere «ben chiaro anche ai nostri elettori che la sinistra è disponibile ad articolare nuove alleanze politiche allo scopo di insidiare l’arroganza e la mancanza di principi della destra».

Dunque, le risposte dei socialisti europei cui la proposta era indirizzata riconoscono la crisi ma non condividono la soluzione prospettata giudicandola «tutta italiana». In effetti, rileggendo le parole di Amato e D’Alema non è difficile cogliere i segni di un’inquietudine molto nazionale, non condivisa dai partiti socialisti europei, neppure da quelli reduci da recenti rovesci elettorali: «Il PSE (essi scrivono) deve aprire i propri confini ai riformismi non socialisti» – cristiano-democratici refrattari alla destra, liberali «avveduti», ambientalisti – perché «difendere la tradizionale ortodossia socialdemocratica rischia di essere un freno se non una minaccia al nostro futuro»; «siamo in un angolo» e quando si è in un angolo «non conta il nome» (da dare alla futura aggregazione) tanto più che «l’identità (socialista) può rivelarsi una trappola» se questa identità «preclude l’accordo con altri riformismi». L’intento dichiarato, dunque non è più il rinnovamento, anche drastico, di una tradizione, ma quello di «fuoriuscire dai suoi confini», dai confini «dell’ortodossia  socialdemocratica» (individuata, grosso modo, nella corrispondenza tra rappresentanza sociale e rappresentanza politica del lavoro dipendente, ormai superata dalla configurazione del «nuovo mondo del lavoro» e dalla sua crescente «individualizzazione») per dar vita ad un nuovo soggetto politico (l’integrazione tra riformismi diversi) sulla base dell’opposizione alla destra.

Più che le critiche dei compagni socialisti europei ciò che colpisce è la circostanza che questa proposta viene a coincidere con il progetto originario di Romano Prodi. Di più, essa proietta in Europa un’idea dell’Ulivo che – persino in Italia dove pure fiorì una sola stagione restando poi né seme né frutto, come un tronco ferito – gli autori della lettera, almeno finora, avevano respinto proprio perché priva di addentellati in Europa. Né può essere casuale la contestuale investitura di Prodi come futuro leader «naturale» del centrosinistra da parte dei vertici dei DS, il loro convergere sulla sua proposta politica e il simultaneo progetto di elezioni primarie per la scelta dei candidati dell’Ulivo.

Sennonché un nuovo soggetto politico, diverso e più largo del PSE, non nascerà, per così dire, in vitro in Europa, senza previa fecondazione naturale negli Stati nazione, nelle società e nei parlamenti nazionali e non nascerà in nessun posto, nemmeno in Italia, se non si va alle radici della questione socialista. Il socialismo costituisce materialmente ed esprime ideologicamente l’epoca industriale di un più antico e più duraturo progetto democratico di libertà e di giustizia per tutti, iscritto nella storia politica e sociale dell’umanità, ieri solo di quella europea ed ormai globale. Oggi, al tramonto della società industriale e della centralità del lavoro salariato per gran parte del mondo la parola «socialismo» evoca o la tragedia comunista o una specialità democratica dell’Europa occidentale. Dove il socialismo ha saputo conciliare tradizione e innovazione, essere il partito del demos, esprimere una vocazione maggioritaria, un’efficace capacità riformatrice, una leadership autorevole, ha continuato e continuerà ad alternarsi alla guida di società e di Stati sempre più complessi. Dove socialismo vuol dire dogmatismo, settarismo, astrattezza, si raccoglieranno solo divisioni e impotenza e crescerà – fino a farsi irresistibile – il bisogno di costruire altrove e altrimenti il partito democratico di cui ha bisogno ogni società aperta, ogni società che vuole un’alternativa alle politiche conservatrici elitarie e/o populiste ispirate agli egoismi vecchi e nuovi delle destre vecchie e nuove.

Per tante ragioni legate anche alla nostra storia antica e recente (le divisioni storiche tra PSI e PCI, la trasformazione del PCI in partito del socialismo europeo e le ulteriori lacerazioni, la liquidazione violenta e la dispersione del PSI), quest’ultimo sembra essere diventato il caso anche della sinistra italiana. C’è il rischio concreto che restando entro i confini non della socialdemocrazia europea – che in Italia non è mai assurta a dimensione di massa – ma nei confini della sinistra storica, dalla temperie attuale esca rafforzata la componente – vetero e neocomunista, no global, girotondista, giustizialista – meno interessata al progetto della casa comune dei riformisti. C’è il rischio che, anziché attenuarsi, si riproducano in forme nuove arcaici steccati tra centro e sinistra, tra laici e cattolici e che si assista all’ennesima rappresentazione, da teatro della crudeltà, tra i protagonisti di una vecchia sinistra che ha perso tante pelli ma non il vizio di sbranarsi. In conclusione, la lettera di Amato e di D’Alema con la proposta di rinnovamento e di conciliazione in un nuovo progetto del riformismo socialista, cristiano-democratico e liberale, dovrebbe avere come primi e naturali destinatari non i socialisti europei ma Prodi e la Margherita, ad un tempo fattori di novità per la proposta di un ideale partito democratico e garanzia di continuità di vitali tradizioni politiche, cattoliche, laiche e di sinistra. E, insieme con loro, i socialisti e i laici italiani con la loro esperienza sociale e le loro battaglie civili e il loro popolo disperso e emigrato, appartato o risentito. Non si tratta di un’invenzione senza radici: un’alternativa democratica, radicale e pragmatica, al partito socialista «ideologico» fu accarezzata più volte da Turati, ritorna con Carlo Rosselli, fu immaginata anche da Craxi che, sul finire degli anni Ottanta, propose di ribattezzare come «Internazionale Democratica» l’Internazionale Socialista.

Hic Rhodus hic salta. Per essere domani credibile in Europa, una prospettiva di natura e portata come quella annunciata nella lettera deve essere creduta e praticata almeno in Italia. In questo caso l’errore di indirizzo si rivelerebbe comunque fecondo. Fecondo come l’abbaglio di Colombo che pensando di buscar el Oriente para el Occidente scoprì l’America. Cercando una rotta europea emergerebbe una politica per l’Italia. Con generale beneficio: degli ex comunisti, dei socialisti italiani che smetterebbero di fare i cani da guardia di simboli e insegne di cui sono stati spogliati per investire in un progetto che è nel loro DNA; dei laici e dei cattolici di centro e di sinistra che possono condividere un orizzonte più ampio e più moderno non certo abiurare in nome di scadute ideologie per accomodarsi in qualche convenienza. E, soprattutto, di nuove generazioni incolpevolmente ignoranti di tanta storia politica, insensibili a ideologiche chiamate alle armi, ma interessatissimi a un nuovo progetto democratico.

Un partito della riforma, un ideale partito democratico, un partito coalizione ricco di fermenti nuovi e di tradizioni storiche autentiche, netto nelle scelte internazionali, plurale e tollerante nei riferimenti alle organizzazioni internazionali come nei radicamenti vitali nel sistema delle autonomie locali e nelle relazioni sociali ed economiche, unito nella leadership, nella cultura della riforma e dell’innovazione, nelle regole di partecipazione, nel programma di governo. Tutto ciò richiede non solo spirito inventivo ma grande chiarezza, energia, costanza e coerenza innanzitutto nel superare i muri partitici e di diffidenza culturale del passato che non passa, oltreché i muri di un’iniziale, prevedibile diffidenza europea. L’identità non è solo storia, l’identità è progetto, come sapeva il vecchio Turati che scriveva «il passato non torna: solo il futuro ha ragione».