Non solo unilateralismo. La nuova strategia di sicurezza e il senso della potenza americana

Di Federico Romero Venerdì 01 Novembre 2002 02:00 Stampa

Guerra preventiva? No, grazie: essa accrescerebbe enormemente i pericoli di destabilizzazione, distrarrebbe dalla lotta al terrorismo e darebbe vita a un neoimperialismo fondato sull’uso unilaterale della forza. Sono queste le tre critiche fondamentali mosse alla «dottrina Bush» dopo la pubblicazione – il 17 settembre 2002 – del documento che la incapsula: la National Security Strategy of the United States of America (NSS). Benché contengano fondate preoccupazioni ed evidenti elementi di verità, queste critiche rischiano di non cogliere la portata della NSS perché si focalizzano su un solo aspetto della dottrina, e neppure il più importante.

 

Guerra preventiva? No, grazie: essa accrescerebbe enormemente i pericoli di destabilizzazione, distrarrebbe dalla lotta al terrorismo e darebbe vita a un neoimperialismo fondato sull’uso unilaterale della forza. Sono queste le tre critiche fondamentali mosse alla «dottrina Bush» dopo la pubblicazione – il 17 settembre 2002 – del documento che la incapsula: la National Security Strategy of the United States of America (NSS). Benché contengano fondate preoccupazioni ed evidenti elementi di verità, queste critiche rischiano di non cogliere la portata della NSS perché si focalizzano su un solo aspetto della dottrina, e neppure il più importante. Di per sé, il passaggio dalla deterrenza alla possibilità di guerra preventiva, per quanto altisonante, è infatti solo l’ovvia conseguenza della fine della guerra fredda e del sorgere di una minaccia inedita, e tutti coloro che hanno sostenuto l’intervento in Afghanistan l’hanno sia pure implicitamente già fatto proprio. Non c’è più infatti una coppia di avversari che esercitano una deterrenza reciproca e vi sono invece nemici verso i quali la deterrenza risulta semplicemente inservibile. La NSS è invece un documento complesso ed enormemente più ambizioso, che suggerisce linee d’azione rischiose e a tratti visionarie, ma che non può essere ridotto a un semplicistico manifesto di bellicoso unilateralismo. Per molti aspetti si tratta della più vasta e radicale trasformazione della strategia internazionale americana dai tempi dell’elaborazione del contenimento, nel 1947.

Il documento si presta a diversi livelli di lettura e nessuno dei suoi molteplici piani (che originano anche dall’esigenza di riflettere i diversi punti di vista presenti nell’amministrazione Bush e di tenere aperte varie opzioni operative) ha una preminenza decisiva. Il nocciolo interpretativo sta invece proprio nelle intersezioni tra quei piani. Ad un primo livello – ribadito con forza in tutta l’ossatura del documento – la NSS è la riproposizione, nettamente ed orgogliosamente universalistica, dell’esigenza wilsoniana di ancorare la pace e la stabilità mondiale alla diffusione della democrazia e delle libertà di tipo occidentale: «Le grandi lotte del Ventesimo secolo tra libertà e totalitarismo sono terminate con una decisiva vittoria per le forze della libertà, e con un unico modello sostenibile di successo nazionale: libertà, democrazia e libera impresa (…). Questi valori di libertà sono giusti e veri per ogni persona, in ogni società (…). Noi cerchiamo di creare un equilibrio di potenza che favorisca la libertà umana (…). Combattendo terroristi e tiranni noi difenderemo la pace. Costruendo buone relazioni tra le grandi potenze noi manterremo la pace. Promuovendo società libere e aperte in ogni continente noi estenderemo la pace».

Di conseguenza, il documento è più esplicitamente multilateralista di quanto ci si potrebbe aspettare da questa amministrazione, e ribadisce a più riprese il valore e l’utilità della cooperazione internazionale e delle sue istituzioni (dall’ONU al WTO e alla NATO) purché queste operino non solo per la propagazione delle proprie idee ma per l’efficace affermazione dei propri scopi – una distinzione cruciale che rivela la natura funzionale e finalizzata del multilateralismo di Bush. Che si tratti di forme di cooperazione istituzionalizzata o di coalizioni erette ad hoc per uno scopo specifico, esse hanno valore non tanto perché incarnano un metodo – e tantomeno una filosofia – delle relazioni internazionali ma perché «possono moltiplicare la forza delle nazioni che amano la libertà». Il multilateralismo quindi se e in quanto fattore di influenza e potenza. Che quest’ultima sia la parola chiave risulta evidente dal costante intreccio tra il linguaggio dell’idealismo universalistico ed un altro, ben diverso vocabolario. In che senso ci si riferisce «all’equilibrio di potenza» e alla cooperazione tra «le grandi potenze», concetti agli antipodi del wilsonismo e che rimandano semmai a Bismarck, o forse più appropriatamente al Roosevelt dell’innaturale ma indispensabile alleanza con l’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale? Qui il mutamento di linguaggio – e quello concettuale che lo sottende – è radicale rispetto al passato sia recente che lontano.

Entriamo nel secondo piano della NSS. Quello visto da George W. Bush è un mondo segnato da pericoli e da una minaccia impellente, come vedremo. Ma è anche un mondo in cui i maggiori centri di potenza (indicati significativamente nell’Europa, il Giappone, la Russia, l’India e la Cina) condividono un comune interesse alla collaborazione contro il terrorismo, condividono o stanno rapidamente adottando una comune matrice di moltiplicazione degli scambi, e privilegiano decisamente la collaborazione bilaterale con gli USA rispetto ad ogni ipotesi di formare coalizioni che possano sfidarne o anche solo temperarne la supremazia strategica. La proclamazione della ferma intenzione di mantenere questa schiacciante supremazia in futuro – facendo in modo che nessuno possa ambire a «sorpassare o eguagliare la potenza degli Stati Uniti» – riflette sia un proposito strategico della NSS che una basilare considerazione analitica che caratterizza il modo di pensare di questa amministrazione. Da Dick Cheney a Paul Wolfowitz, da Donald Rumsfeld a Condoleeza Rice (e per molti aspetti anche Colin Powell) si tratta di persone la cui intera esperienza intellettuale e politica ruota intorno all’efficacia trasformatrice della potenza statunitense. Hanno letto (e gestito) la guerra fredda come un conflitto risolto dalla preponderanza e dalla determinazione statunitense, capaci di piegare il comunismo sovietico e indurlo ad abbandonare una contesa insostenibile. Hanno condotto e vinto la guerra nel Golfo usando la forza militare per ristabilire un equilibrio favorevole nell’area. Anche quando non erano d’accordo con l’intervento, come in Bosnia e in Kosovo, hanno visto la potenza americana come fattore determinante per chiudere quei conflitti. Ed hanno operato un rapido cambio di regime in Afghanistan con ricadute ben visibili in una vasta area, dal Pakistan all’Asia centrale ex sovietica. Per loro, l’attuale configurazione di potenza su scala mondiale – favorevole come non lo era stata per generazioni, visto che la supremazia statunitense si accompagna all’assenza di sfidanti e a relazioni collaborative con tutti gli altri poli di potenza – è il prodotto storico della garanzia che la forza americana ha saputo dare all’espansione globale della triade «democrazia-libertà-mercato». Ed è il punto di partenza. Accusarli di un pessimismo hobbesiano è analiticamente fuorviante, perché la cifra distintiva dei neoconservatori non è la semplice esaltazione della potenza come unica risorsa in un mondo disperatamente condannato al conflitto, bensì l’intreccio indissolubile tra il suo dispiegamento (simbolico o materiale) e il progredire dei fenomeni di integrazione globale, liberalizzazione, democratizzazione e pacificazione. Fenomeni che i neoconservatori ritengono storicamente vincenti, e al limite ineluttabili, quando non siano vincolati o soffocati da ostacoli posti sul loro cammino dai totalitarismi, dai radicalismi, dai terrorismi e dai tiranni.

Questo universo concettuale, questo possente immaginario storico del neoconservatorismo costituisce il terzo livello della NSS, il sub-testo che l’attraversa e la rende internamente coerente. Le considerazioni geopolitiche che ispirano il linguaggio da politica di potenza – così insolitamente esplicito nel documento – non stridono infatti con gli accenti più idealistici, a tratti messianici, sulla costruzione di un mondo «non solo più sicuro, ma migliore». In realtà (o perlomeno nella realtà della Washington di George W. Bush) sono codici che si completano reciprocamente. E questa loro complementarità spiega la decisione di muovere contro l’Iraq di Saddam Hussein. Nell’analisi della NSS, la minaccia a cui ci si trova di fronte promana da diverse dimensioni che si congiungono, almeno simbolicamente, a Baghdad (ma anche in altre capitali dell’area). Si tratta di un terrorismo di portata ed ambizione globale: esso non conosce restrizioni operative e non può quindi essere contenuto ma deve essere debellato. Le sue origini non stanno nella povertà ma nel radicalismo ideologico e religioso che scaturisce dall’assenza di democrazia, di istituzioni rappresentative e di diritti riconosciuti, di libertà di scelta, di prospettive di sviluppo civile oltre che economico. I regimi tirannici sono la materializzazione politica e simbolica di questo radicalismo, il suo miglior terreno di coltura e, in taluni casi, anche i possibili produttori di armi di distruzione di massa che il terrorismo aspira ad utilizzare. Tra «terroristi» e «tiranni» si stabilisce perciò un’identità che non poggia tanto su una loro (indimostrata) complicità nell’architettare attacchi nucleari o batteriologici – anche se quella è l’urgenza che rende impellente l’azione, e chiama quindi all’iniziativa preventiva – quanto nel loro essere sostanzialmente attigui e congiunti quali manifestazioni deteriori dello stesso fenomeno. «La guerra al terrorismo non è uno scontro di civiltà. Essa però mette in luce un conflitto all’interno di una civiltà, una battaglia per il futuro del mondo islamico. Questa è una lotta di idee, e questa è un’area in cui l’America deve eccellere», si legge ancora nella NSS.

Abbattere il regime di Saddam Hussein (un obbiettivo che la NSS non menziona esplicitamente, ma a cui essa fornisce una razionalizzazione e contestualizzazione) costituisce quindi la seconda tappa di una strategia che persegue l’ambizione di ristrutturare e ridefinire il Medio Oriente, eliminando i regimi ed alterando le condizioni che alimentano il radicalismo e quindi il terrorismo. La sostituzione dell’attuale regime iracheno con uno filo-occidentale avrebbe evidenti conseguenze per le configurazioni di potenza nella regione: oltre a eliminare le eventuali armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein, ciò darebbe agli USA una migliore base di controllo politico-militare sulla regione, chiuderebbe i regimi iraniano e siriano in spazi politici ben più angusti, contribuirebbe a isolare il radicalismo arabo, prosciugherebbe una delle fonti di sostegno materiale e ideale al terrorismo anti-israeliano. Ma questi obiettivi geopolitici vengono visti solo come l’inizio di una concatenazione di ricadute più portentose. Il pieno afflusso del petrolio iracheno sul mercato stabilizzerebbe i prezzi e, soprattutto, contribuirebbe ulteriormente a svalutare il peso internazionale del regime saudita, facilitando quindi la scelta americana di svincolarsi dal rapporto privilegiato con un regime che Washington ormai considera di scarso aiuto e sempre meno affidabile. Non sono casuali né puramente retoriche – ma viceversa largamente sintomatiche – le ripetute analogie proposte da Washington tra la «liberazione» del popolo iracheno e l’occupazione e ricostruzione della Germania e del Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Quando Paul Wolfowitz invita ad erigere a Baghdad «la prima democrazia araba» non fa solo un esercizio di propaganda, ma rivela quale sia l’aspirazione dei neoconservatori: innescare e guidare un processo di democratizzazione in Iraq (come fu fatto con gli sconfitti dopo il 1945) per entrare di forza – con un modello operante ed esemplare – nella battaglia interna al mondo islamico tra modernizzatori e tradizionalisti, tra secolarizzazione e fondamentalismo, al fine di determinarne il corso di lungo periodo.

Quella sull’immediato futuro dell’Iraq sarebbe cioè l’avvio, e l’archetipo, di una lotta di lunga durata per indebolire e rimuovere i regimi tradizionalisti, spalancare le porte del mondo islamico alla modernità, portare il Medio Oriente nel circolo della democrazia internazionale, creare anche in quell’area – nelle parole della NSS – «le condizioni in cui ogni nazione e ogni società possa scegliere per se stessa le sfide e le gratificazioni della libertà politica ed economica». (Tra gli altri compiti la NSS specifica che gli USA devono: «sostenere i governi moderati e moderni, in particolare nel mondo islamico, per fare in modo che le condizioni e le ideologie che promuovono il terrorismo non trovino terreno fertile in nessuna nazione», e «promuovere la libera circolazione dell’informazione e delle idee per alimentare le speranze e le ambizioni di libertà di chi vive in società governate dagli sponsor del terrorismo globale»). Per sconfiggere il terrorismo – dunque – bisogna eliminare i suoi adepti, smantellare le sue strutture, sconfiggere i suoi complici, intimorire i suoi sostenitori: ma in ultima analisi bisogna istigare e sospingere un mutamento storico che rimodelli le società che lo generano e alimentano. Alcuni tra i neoconservatori accentuano le valenze esemplari ed i compiti costruttivi di una questa concezione, e si riferiscono quindi a un modello di società aperta e democratica da rendere visibile, credibile e operante. Altri – perennemente scettici sui compiti di nation-building – confidano più semplicemente sugli effetti conformatori che discendono dal dispiegamento di potenza. Ma entrambi affidano un ruolo centrale alla funzione impositiva, egemonica e trasformatrice della forza americana; ed entrambi si muovono nell’orizzonte di impellenza psicologica sintetizzato dalle parole di Bush che introducono la NSS: «La guerra contro il terrorismo di portata globale è un’impresa globale di durata imprecisabile (…). La storia giudicherà severamente quelli che, pur vedendo il pericolo imminente, hanno mancato di agire. Nel mondo nuovo in cui siamo entrati l’unica via alla pace e alla sicurezza è la via dell’azione».

Siamo dunque di fronte ad una strategia di lungo periodo e di enorme ambizione. Può funzionare? E a quale prezzo? Con quale distribuzione dei vantaggi e delle perdite? Nessuno può far altro che avanzare pure ipotesi in merito, ma alcune contraddizioni balzano subito agli occhi. Quella di gran lunga fondamentale deriva da un giudizio sull’auspicabilità dei fini, e dal possibile attrito tra i fini ed i mezzi. Il successo di una simile strategia infatti si fonda interamente sulla disponibilità degli altri paesi, e in particolare delle società arabe e islamiche, ad accogliere questo dispiegamento della potenza americana come un’opportunità positiva per loro. Ma l’esperienza di egemonia consensuale esercitata dagli USA nell’Europa occidentale del dopoguerra, o in taluni paesi asiatici nei decenni successivi, può davvero valere come guida per ciò che la prospettiva di società democratiche, liberalizzatici ed aperte susciterebbe nel mondo islamico? Soprattutto, l’uso prolungato e ripetuto della forza americana – inteso ad aprire varchi a questa prospettiva ed eliminarne gli avversari – libererà energie modernizzatici e produrrà gradualmente nuovi equilibri o finirà invece per estendere la reazione radicale e islamista? Gli strateghi di Washington immaginano che la progressiva e molteplice applicazione di forza (intesa qui in senso non soltanto militare) condurrà comunque a soffocare gli spazi del radicalismo e quindi a sospingere le società arabe, volenti o nolenti, in altre direzioni. Da questo punto di vista, tuttavia, l’amministrazione Bush parte con una cospicua zavorra, che essa stessa si è creata: da un lato con il suo disprezzo unilateralista verso alleati, partner e possibili interlocutori; e dall’altro con il culto nazionalista, sparso a piene mani nell’opinione pubblica interna, di una orgogliosa autosufficienza americana. Sono elementi che hanno seminato scetticismo, risentimento o malcelata ostilità proprio tra quei protagonisti che, in Europa come nelle capitali mediorientali, dovrebbero invece fornire l’apporto indispensabile perché una simile strategia risulti non solo assertiva ma anche vincente. Può darsi che la riflessione sulle prospettive di lungo periodo che si è condensata nella NSS abbia reso l’amministrazione almeno parzialmente consapevole del problema. L’attenta regia con cui Bush ha voluto portare il Consiglio di sicurezza dell’ONU a sposare la sua tesi per una pressione ultimativa sull’Iraq è un indizio in tal senso. Ma gli spiriti unilateralisti e l’enorme fiducia nella propria potenza sono talmente radicati nel ceto politico conservatore da far dubitare che prevalga sempre il calcolo razionale delle risorse che si possono radunare o degli antagonismi che si possono suscitare (nel tanto discutere sulla fine della deterrenza si scorda spesso un aspetto invece assai rilevante: dopo la guerra fredda sono soprattutto i governanti statunitensi che non subiscono più – se non in maniera puramente virtuale – il vincolo della deterrenza altrui, e sono quindi portati a un calcolo inevitabilmente più ottimistico dei rischi e delle possibilità insite nelle loro azioni).

Il primo problema, in particolare per noi europei, riguarda dunque l’assunto di partenza. Durante la guerra fredda l’avversario, per quanto autoritario ed armato fino ai denti, poteva essere pazientemente contenuto perché esso non intendeva correre il rischio di una guerra. Tutto questo è mutato – sostiene Bush – perché «l’intersezione tra radicalismo e tecnologia» può portarci (e già ci ha portato) la guerra in casa con effetti devastanti. Ergo, non si attende che l’avversario avvizzisca e decada ma si va a far precipitare il suo collasso. In Europa questo assunto è meno chiaramente condiviso, ed il pericolo a cui esso rimanda meno sentito. Si tratta di una differente analisi o vi è anche una diversa percezione degli interessi in gioco? Dopo l’11 settembre si è a lungo dibattuto l’ipotesi di un pericolo comune, ma è ben difficile sostenere che gli europei si sentano minacciati dal fanatismo islamista quanto gli americani (per non parlare ovviamente degli israeliani), e la divaricazione è divenuta sempre più evidente mano a mano che la guerra israelo-palestinese si inaspriva. È da qui che scaturisce anche la ribadita preferenza per un dialogo con il mondo arabo e musulmano che sopisca o risolva gli elementi di confronto e scontro, a cominciare dalla questione palestinese? Oppure i distinguo e le insofferenze verso l’assertività di potenza della strategia americana presuppongono una differente strategia di risoluzione del problema? Questa, al momento, ancora non si è vista, ed è anche questa assenza concettuale, prima ancora dell’enorme disparità di mezzi, che rende la strategia statunitense incapsulata nella NSS capace di procedere a grandi passi. Certo l’aver incanalato la pressione americana verso l’Iraq entro l’alveo dell’ultimatum unanime emesso l’8 novembre 2002 dal Consiglio di sicurezza dell’ONU costituisce una parziale affermazione di un maggiore multilateralismo, e forse la premessa per una rinnovata rilevanza dei concetti stessi di comunità internazionale e sicurezza collettiva. Ma l’asse strategico lungo cui esso muove è pur sempre quello additato e delineato da Washington: premere per ridefinire i contorni del Medio Oriente e tracciarne nuovi percorsi di sviluppo. Se tale strategia è ad alto rischio, e può persino rovesciarsi in un’ancora più vasta destabilizzazione della regione, non sarà solo l’aspetto multilaterale del suo esplicarsi a prevenirne tali potenziali esiti negativi.

Il dibattito europeo dovrebbe dunque andare al di là dalla recriminazione contro l’unilateralismo e i rischi insiti nell’uso della forza americana. Ed affrontare invece apertamente quei nodi a cui la NSS offre una risoluzione: una risoluzione rischiosa, enormemente ambiziosa ed assertiva al punto da configurare una dinamica neoimperiale, ma nondimeno una risoluzione. Fin tanto che essa resta l’unica concettualizzazione che affronta i problemi in campo (sul lungo periodo: come depotenziare il radicalismo islamista; sul breve: come impedire che esso acquisisca armi di distruzione di massa), la NSS sarà inevitabilmente l’unico punto di riferimento e l’unico terreno intorno a cui si conformerà l’agenda internazionale. Gli altri – più o meno convinti, più o meno trascinati per la cavezza – dovranno adeguarsi e seguire. La parabola che la vicenda irachena ha avuto dal primo momento in cui Bush la sollevò, all’inizio del 2002, fino al voto del Consiglio di sicurezza ONU, è del resto istruttiva. Con notevole abilità tattica (che dovrebbe mettere a tacere gli auto-lesionistici sarcasmi sulla sua «rozzezza texana») l’amministrazione Bush ha imposto la questione Iraq nei termini che essa voleva, ha costruito un solido consenso interno alla propria politica pur lasciandosi mano libera sui termini della sua applicazione, ha portato l’ONU a riprendere le ispezioni in Iraq in termini così draconiani da mettere apertamente in discussione la natura e la permanenza del regime, ha vincolato indissolubilmente la futura rilevanza dell’ONU al successo di tale impresa, e si è conservata comunque la possibilità d’intervenire unilateralmente. Dietro a tutto questo non vi è solamente l’enorme potenza statunitense e l’energica determinazione ad usarla e farla valere, ma anche l’assenza di visioni alternative che affrontino i problemi del Medio Oriente, del terrorismo globale e della sicurezza internazionale in termini credibili.