La forza delle idee è la chiave del successo laburista

Di David Miliband Sabato 01 Giugno 2002 02:00 Stampa

È davvero un’ironia della politica moderna il fatto che il Labour Party, per tutto il XX secolo uno dei partiti socialdemocratici di minor successo dell’Europa occidentale, appaia all’inizio del XXI secolo come uno fra i partiti che vincono di più. Mentre i governi di centrosinistra d’Italia, Danimarca, Olanda e Francia sono stati sconfitti, e per quello tedesco la battaglia per la rielezione si presenta molto dura, il Labour sembra aver sconfitto le leggi della gravità in politica. Tuttavia, le cose non sono mai buone (o cattive) come sembrano, e questo non è certo tempo di trionfalismi. Ci sono miriadi di ragioni per affermare che la Gran Bretagna rimane un paese meno produttivo e meno giusto di quanto dovrebbe essere. Il nostro compito è affrontare questi problemi.

 

È davvero un’ironia della politica moderna il fatto che il Labour Party, per tutto il XX secolo uno dei partiti socialdemocratici di minor successo dell’Europa occidentale, appaia all’inizio del XXI secolo come uno fra i partiti che vincono di più. Mentre i governi di centrosinistra d’Italia, Danimarca, Olanda e Francia sono stati sconfitti, e per quello tedesco la battaglia per la rielezione si presenta molto dura, il Labour sembra aver sconfitto le leggi della gravità in politica. Tuttavia, le cose non sono mai buone (o cattive) come sembrano, e questo non è certo tempo di trionfalismi. Ci sono miriadi di ragioni per affermare che la Gran Bretagna rimane un paese meno produttivo e meno giusto di quanto dovrebbe essere. Il nostro compito è affrontare questi problemi. Il discorso di Tony Blair alla London School of Economics del marzo scorso, in cui furono illustrate le aspirazioni per una terza fase del New Labour, una fase più consapevole di sé, dovrebbe essere percepito come l’aprirsi, e non come il chiudersi, di un nuovo dibattito. Il compito del movimento laburista non è infatti quello di assegnare voti ai discorsi, ma quello di alzare il livello della sfida: contribuire al rinnovamento politico e intellettuale della politica progressista. Ma ora l’importante è comprendere le dinamiche dell’attuale successo politico del New Labour; individuare i suoi punti di forza e di debolezza e le sfide che lo attendono; discutere quali siano i prossimi passi del partito fra la fine dell’attuale legislatura e il principio della prossima. Le esigenze più impellenti, non meno di quelle emergenti, richiedono un pensiero semprenuovo. Dopo il 1992 ci chiedevamo se il mutamento nella struttura delle classi, le problematiche di genere e il sistema elettorale avrebbero prodotto un’egemonia conservatrice permanente.1 Dieci anni dopo si affermano cose simili sull’egemonia laburista, chiedendosi se i conservatori non siano sulla via di un declino irreversibile. Certo è che i risultati lettorali sono notevoli: abbiamo conseguito le due più grandi vittorie elettorali consecutive del secolo, che oscurano le prestazioni di Attlee, Baldwin e della Thatcher. Forse il solo, debole parallelo che possa essere tracciato è quello con il dominio conservatore dopo l’epoca di Gladstone.

Come si è giunti a questo punto? La questione posta dopo la morte di John Smith nel 1994 da Tony Blair, Gordon Brown e altri – fra cui non ultimo il gruppo di Renewal – era, nelle sue linee essenziali, alquanto semplice. Essi ritenevano che i mutamenti economici e sociali comportassero questo scenario: un governo laburista non sarebbe stato eletto e i problemi della Gran Bretagna non sarebbero stati efficacemente affrontati ricorrendo ai ben noti metodi della socialdemocrazia del dopoguerra, ovvero alla proposta di una felice sintesi del welfare State keynesiano. Era necessaria una nuova strategia, basata sulle esperienze europee, australiane, americane ma anche sulla specifica realtà britannica. Cinque furono gli obiettivi che furono individuati come centrali nella via verso il potere. Ognuno di essi possedeva una dimensione politica e un preciso riferimento ad una delle questioni fondamentali della Gran Bretagna degli anni Novanta. Il Labour aveva bisogno di tener fermi quei valori socialdemocratici che permettevano una reale alternativa al thatcherismo, ma anche di sviluppare mezzi innovativi affinché essi portassero dei risultati. Ciò significava, in sintesi, riconsiderare il ruolo dello Stato nelle politiche socialdemocratiche moderne. Il Labour aveva bisogno di volgersi alla storia del pensiero progressista britannico per sviluppare un «socialismo liberale»: ovvero un impegno socialdemocratico per la giustizia sociale attraverso l’azione collettiva arricchito dall’impegno per la libertà individuale nell’economia di mercato. Il Labour aveva bisogno di combinare le idee per la creazione di ricchezza, la «politica della produzione», con l’impegno per i giusti esiti, la «politica redistributiva». Il Labour aveva bisogno di invadere territori considerati sino ad allora come di esclusivo controllo dalla destra – per esempio i temi della sicurezza e della difesa – e di ridefinirli secondo finalità progressiste. Il Labour aveva bisogno di unire il proprio impegno a quello delle correnti dinamiche emergenti nel pensiero e nella società britannica: dal comunitarismo, alla riforma dello Stato, all’ambientalismo. Se si guarda al di là delle fortunate contingenze che hanno aiutato ad acquisire questi risultati, negli ultimi cinque anni il Labour ha avuto successo laddove è riuscito a collegare questi obiettivi in una prospettiva coerente. Laddove invece ha faticato di più è stato nel risolvere uno o più d’uno di questi problemi. In ogni fase successiva, dall’opposizione e poi dal governo, il Labour ha provato a ridefinire le scelte politiche poste dinanzi alla Gran Bretagna e le scelte politiche poste dinanzi agli elettori.

Questo non è il luogo per una sintesi complessiva dei mutamenti legati alla politica verificatisi in Gran Bretagna dal 1997. Basta notare che la maggior parte degli osservatori equilibrati concluderebbe che dopo cinque anni un semplice conto del dare e dell’avere spiegherebbe in parte notevole perché l’anno scorso l’elettorato abbia deciso di permettere al governo di continuare il suo lavoro. Ma questo è comunque il tempo di riaffermare o porre in questione la strategia gradualista adottata fin dal 1994 e volta a dare fiducia nei valori progressisti e in una politica attiva di governo. Si è sempre dibattuto, all’interno del Labour e in tutta la sinistra, se la relativa cautela delle promesse fatte nel 1997 rappresentasse il primo stadio di un impegno di più lungo termine per ricostruire la fiducia nei metodi e nelle finalità dei progressisti; oppure se nella sostanza si sia verificato un tradimento delle finalità profonde del partito. Il governo ha sempre sostenuto che sui sani fondamenti della capacità economica, dell’accorta redistribuzione, della riforma costituzionale potessero poi essere costruite ulteriori riforme. Fin dalla sua elezione il governo è stato pronto a spingere in direzione di un nuovo consenso su tasse e spesa, su certi aspetti di politica sociale e persino sull’Europa. Ciò è significativo perché la prova più dura per ogni partito non sta nel decidere se può risolvere dei problemi politici, ma se riesce a spostare il centro di gravità della politica nella sua direzione. In altri termini, il successo in quella specie di tiro alla fune che è la politica viene dal portare gli avversari sul proprio terreno. In tal senso il centro del terreno non è dato una volta per tutte, ma viene conteso e costruito dalla politica stessa. E soltanto ridefinendo questo centro un partito progressista può costruire il mutamento culturale necessario a un periodo di governo che sia prolungato ed efficace.

Se si giudicano le cose sotto questo aspetto vi sono alcuni motivi per nutrire un certo ottimismo. Di estrema importanza è che sia ripreso il dibattito sulle tasse e la spesa, che fu letale per i governi laburisti degli anni Settanta. Sulla base delle evidenze economiche relative alla erogazione dei servizi, oggi ha senso sostenere che in fin dei conti i cittadini avranno ciò per cui hanno pagato. Nel 1997 e nel 2001 il governo ha promesso di incrementare la quota di prodotto nazionale dedicata all’istruzione. Così come si è avviato un dibattito circa l’opportunità di aumenti fiscali finalizzati a sostenere la spesa sanitaria, nel contesto di quello che è già il maggiore incremento di investimenti in sanità ed istruzione in tutta Europa. Altri aspetti dell’agenda del Labour – per esempio la riforma costituzionale – stanno diventando una parte universalmente accettata del panorama politico. I Tories sentono ormai persino il bisogno di affermare di essere sensibili alla povertà. E su questioni controverse come razza e nazionalità i Conservatori sono inclini a prendere le distanze da quegli accenti xenofobi che hanno caratterizzato la loro ultima campagna elettorale.

Tuttavia permangono debolezze e sfide importanti da affrontare. La lezione chiave che viene dalla Gran Bretagna, ma anche da altri paesi, è che non è mai troppo presto per cominciare a progettare come inquadrare questi temi. Difendere ciò che il New Labour ha realizzato richiede assoluta chiarezza circa ciò che non è stato fatto e ciò che rimane da fare. Giudicando in base al test costituito dalle promesse elettorali del 1997 il New Labour ha più che raggiunto i traguardi inizialmente stabiliti. Ma la politica non è solo fatta di tempistica, e la diagnosi delle debolezze del New Labour deve andare oltre il (legittimo) dissenso sulle tasse o la regolazione del mercato del lavoro. Il governo negli ultimi quattro anni ha lavorato duramente per sviluppare una riflessione che definisca adeguatamente i valori e le ambizioni della socialdemocrazia moderna. La discussione politica più innovativa sviluppatasi in Gran Bretagna, così come in Germania, enfatizzava il valore etico dell’eguaglianza distinguendolo dal valore strumentale della proprietà pubblica. Ma un impegno per l’eguaglianza in sé fornisce una descrizione incompleta di un governo dedito allo sviluppo sostenibile, a comunità più sicure, alla democratizzazione e a una maggiore libertà individuale. È da qui che ha preso le mosse il dibattito sulla Terza Via della sinistra britannica. Questione in parte storica e in parte filosofica, e in parte elettorale, la Terza Via si è assicurata la posizione di punto di riferimento centrale del dibattito riguardo al futuro della sinistra, dall’Europa continentale, al Brasile alla Cina.2 Ma la Terza Via è finora stata definita in senso negativo anziché positivo: come qualcosa di diverso dalla nuova destra conservatrice e dalla socialdemocrazia tradizionale. Tutti i partiti socialisti e socialdemocratici pongono l’eguaglianza più o meno al centro dei propri valori. In Gran Bretagna si è svolto un intenso dibattito sull’equilibrio tra eguaglianza delle opportunità ed eguaglianza dei risultati – nonostante le due cose siano intimamente connesse. Sia l’eguaglianza che l’ineguaglianza sono temi fondamentali per la politica di oggi, e come scrisse brillantemente Tony Crosland quasi trent’anni fa: «Un politico attivo nella Gran Bretagna degli anni Settanta, che non mediti in una cella di monastero ma viva tutti i giorni in mezzo alla realtà, non deve rispondere alla domanda accademica: quanta eguaglianza occorrerà raggiungere alla fine? Egli ha una gran quantità di ineguaglianze sgradevoli e immeritate da combattere nei prossimi dieci anni.»3 Nonostante quasi quattro anni di governo laburista la Gran Bretagna rimane un paese deturpato dalle divisioni di classe – e tali divisioni si estendono fra le generazioni, non solo al loro interno. Quindi il grado di mobilità sociale – ovvero la possibilità per un figlio o figlia di un operaio di diventare un dottore rispetto a quella di un figlio o figlia di un dottore di diventare ragioniere – è rimasta immutata da cento anni. Nel South Tyneside solo il 17% dei diciottenni si è iscritto all’università. La sfida del Labour non è solo quella di essere il partito che si batte contro le ineguaglianze esistenti, ma anche quella di essere il partito della mobilità sociale.

Questa è una delle ragioni della fondamentale importanza della formazione per le finalità e le capacità di attrazione del Labour. Blair, come è ormai noto, disse nel 1996 che le sue tre principali priorità erano «la formazione, la formazione e ancora la formazione». In due diversi e successivi programmi elettorali la formazione è stata la priorità numero uno. È così che le cose devono restare: perché la formazione è il motore del progresso economico e sociale ed anche una questione chiave per la mobilitazione dell’elettorato. Sarebbe un esperimento sociale ricco di sfide concedere ad alcuni dei bambini più poveri le risorse spese nelle scuole private e vedere quali differenze ciò determinerebbe. Alcune ricerche americane sembrano suggerire che un notevole investimento straordinario nel campo della formazione è necessario per accrescere le aspettative salariali (come parametro delle opportunità di vita). La questione delle differenze razziali poi introduce ancora nuove dimensioni, ma è utile sapere che le spese per i bambini di colore dovrebbero essere almeno dieci volte quelle dei bianchi per pareggiare le loro opportunità.4 Nel futuro, nei campi della formazione, delle tasse e delle politiche sociali dovremo fornire più scale di opportunità alle persone per sviluppare le loro potenzialità. Un esempio mi viene da un progetto di welfare to work che mi è capitato di visitare nel mio collegio: per promuovere la mobilità occorre aiutare la gente non solo a trovare lavoro ma a fare carriera, il che significa estendere i servizi relativi al mercato del lavoro dai disoccupati ai lavoratori attivi.

Ma anche la politica economica rimane un punto critico del successo della politica del Labour. L’elemento di novità è che crescita e occupazione sono state sostenute nonostante una cornice internazionale sfavorevole. Ma c’è ancora un enorme lavoro da fare. La Gran Bretagna rimane testardamente al di sotto delle sue potenzialità produttive. Il pieno effetto di un regime macroeconomico ben avviato ed efficace deve ancora far sentire appieno i suoi effetti, ma i dati sulla produttività segnalano significative differenze rispetto a Francia e Germania, per non dire degli USA. La nostra economia ha squilibri regionali e settoriali che i dati statistici medi della crescita possono nascondere. La sfida del Labour è di aiutare ogni regione del paese a sviluppare una strategia industriale basata sui propri potenziali e i propri bisogni, e a sviluppare le proprie forze settoriali in modo tale che si riescano a mantenere e consolidare le nostre industrie di successo: quelle farmaceutiche e quelle dei media. È sempre più difficile parlare del «vantaggio competitivo delle nazioni»: la politica industriale deve ormai essere governata ad un livello regionale.5 Ogni intervento regolativo dovrebbe essere testato in modo da determinare se è più adeguato realizzarlo al livello locale o a quello regionale.

Infine, la sinistra in ogni sua componente deve avere alta coscienza delle questioni relative all’insicurezza. Non si tratta solo della questione occupazionale: questo è un aspetto molto ben evidenziato da Robert Reich nei primi anni dell’amministrazione Clinton. L’insicurezza non riguarda solo l’economia. Vi rientrano temi come la criminalità, i servizi pubblici, la finanza, l’identità nazionale e la politica estera. Se si ha paura di uscire da casa si è schiavi dell’insicurezza. E così se si teme che l’ospedale locale non funzioni bene, o che sia male amministrato il proprio fondo pensione, se si è preoccupati dall’immigrazione, o se si ritiene che le misure anti-terrorismo siano inadeguate. Si tratta di una potente miscela sfruttata dalla destra in Italia e in Francia, e che la sinistra deve ridefinire e affrontare in termini a lei consoni. La proposta progressista in tema di sicurezza dovrebbe affrontare con vigore i suoi aspetti economici, ripensando il ruolo dello stato sociale in una società in cui sono mutati i modelli familiari e lavorativi. Essa dovrebbe articolare una visione della Gran Bretagna come paese multinazionale e multiculturale, in cui i valori comuni vengono salvaguardati. E, come sosterrò più avanti, essa dovrebbe anche sviluppare una concezione moderna del ruolo della Gran Bretagna nel mondo.

È importante non nascondersi che queste sono le sfide del futuro. Fin da Bernstein il tratto distintivo dell’innovazione riformista è stato il suo non arrestarsi mai. Perché ci sono sempre nuove frontiere da conquistare. La sfida del New Labour è fondamentale, e il suo profilo politico va conservato e rinnovato insieme. Sarebbe facile affermare che la formula vincente adottata sulle rovine degli anni Ottanta ci è stata di grande utilità e che quindi non ci resta che continuare su questa strada. Ma il New Labour ha bisogno di definirsi in positivo, non in negativo: mettere a fuoco ciò di cui è in favore, non solo ciò a cui si oppone. Si tratta di un compito molto più arduo in un momento in cui la fisionomia del conservatorismo moderno è così confusa. Ma i governi in carica devono continuare a offrire una chiara visione di sé, altrimenti saranno i loro avversari o gli eventi a farlo in vece loro. Nel Regno Unito il bipolarismo è un risultato del nostro sistema elettorale. Nel resto d’Europa, dove sistemi elettorali più proporzionali rendono più sfaccettato il quadro politico, la dinamica sarà diversa. Tentando di definire un approccio a sfide comuni proporrei tre idee di fondo. La prima è che dobbiamo imparare che sono le issues, non le politiche, a far vincere le elezioni (come Al Gore ha imparato a proprie spese). Le issues senza le politiche mancano di sostanza, ma le politiche da sole risultano aride. Le persone che più ci premono e il modo di entrare in contatto con queste persone rappresentano le due questioni-chiave della strategia politica. Dobbiamo rendere chiaro il fatto che sono i valori a guidare la nostra politica e le nostre soluzioni politiche: così continueremo ad essere un governo e non solo un’amministrazione. È questa la differenza tra l’affidare il paese a dei funzionari o a dei politici eletti. I valori sono il suolo fertile su cui si basa la politica. E sulla base di valori chiari dobbiamo stabilire obiettivi chiari. Sono questi gli alberi d’alto fusto che riempiono il panorama. Solo a queste condizioni le politiche possono trovare il loro posto – poiché esse sono i rami, invisibili da lontano, ma ben evidenti fin nei particolari da vicino. I nostri valori, ad esempio, ci dicono che il diritto al lavoro è un fondamento dell’inclusione economica e sociale. Ma un obbiettivo associato a questo deve essere che chiunque lavora a tempo pieno dovrebbe essere in grado di mantenere la propria famiglia. Solo su questa base l’obiettivo di integrare il sistema di tasse e prestazioni per remunerare il lavoro diviene chiaro e comprensibile. Il Labour ha bisogno di chiarire questi passaggi, in modo che nel mezzo della più cruenta delle campagne politiche esso manterrà fermo il senso delle propria missione e della propria funzione.

La seconda idea è che il Labour deve rimanere sintonizzato con i cambiamenti in atto in Gran Bretagna. Per cui dobbiamo essere pronti ad un nuovo scenario politico, attraversato da un nuovo patrimonio di memorie e da una prospettiva di rapido cambiamento sociale. Sta a noi immetterci nelle nuove correnti ascensionali della vita britannica e trarne forza. In questa strategia vi sono anche dei rischi. È importante non perdere di vista il fatto che le persone più anziane, più abitudinarie negli atteggiamenti politici, partecipano al voto in misura molto maggiore delle generazioni più giovani. Ma le correnti dinamiche della società sono vitali per un partito progressista. Esse si mobilitano su questioni di fondo che combinano valori e ideali. Come ad esempio l’ambiente, un campo in cui il governo può vantare risultati sostanziali, anche se non è riuscito a suscitare molta attenzione intorno ad essi, e in cui le prossime decisioni all’ordine del giorno sono assai difficili, come quelle relative all’efficienza energetica. Lo stesso si dica della lotta alla povertà globale, in cui il contributo del Regno Unito viene più facilmente riconosciuto. Ma vi sono anche tendenze più banalmente quotidiane che potrebbero crescere d’importanza: la categoria sempre maggiore dei «pensionati attivi» è una risorsa per la nostra comunità, e tenderà sempre più all’impegno politico; le identità e le diversità locali devono avere un ruolo maggiore nei servizi pubblici e nel rinnovamento della società; e poiché abbiamo incrementato l’occupazione a livelli record per il Regno Unito il dibattito sulla qualità del lavoro e sulla gestione dei tempi ha tutte le potenzialità per occupare la scena, per esempio affrontando la questione di come mai un paese tre volte più ricco di cinquant’anni fa sembra meno soddisfatto.

La terza idea è che nell’offrire ai cittadini una prospettiva politica coerente che si rivolga alle loro priorità di vita i governi devono tenere insieme le priorità nazionali e le priorità internazionali. Nel Regno Unito il governo è impegnato al contempo nella riforma e nel rifinanziamento dei servizi pubblici e nell’assunzione di un ruolo guida nella costruzione dell’Unione europea e in tutti quei problemi che vanno al di là delle frontiere nazionali. Blair ha affermato che la sfera internazionale si ripercuote ormai nella nostra dimensione interna, come conseguenza della globalizzazione. Ciò ha implicazioni profonde per una politica socialdemocratica. Nei gironi sereni del welfare postbellico i fondamenti del potere socialdemocratico erano lo Stato nazionale, una base di classe relativamente omogenea e un panorama internazionale relativamente benevolo. Tutti questi fondamenti sono stati ora sradicati. Nell’ultimo decennio abbiamo cominciato a ricostruire la capacità dello Stato di agire come creatore di potenzialità individuali. Abbiamo fatto i conti con la mutata composizione sociale della nostra base elettorale. Ma la situazione internazionale e la necessità di leadership internazionale costituiscono una dimensione del tutto nuova. Dobbiamo sviluppare e difendere un robusto multilateralismo, abbastanza idealistico da rimanere fedele ai nostri valori e abbastanza credibile da influenzare gli USA. Le capacità dissuasive e sanzionatorie – sul piano giuridico, militare o economico – devono combinarsi con un impegno politico costruttivo, sia nell’offrire mediazioni ai conflitti regionali, sia nel promuovere relazioni economiche e commerciali, sia semplicemente costruendo un dialogo con il mondo musulmano. Non possiamo farlo da soli. La nostra partecipazione all’Unione europea come strumento di progresso è basilare. Non credo che ci troviamo alla vigilia della nascita di un paese chiamato Europa o di uno Stato chiamato Unione europea. Ma stiamo allargando e approfondendo quell’ibrido del tutto particolare, in parte intergovernativo e in parte sovranazionale, che è la UE. Troppi aspetti del nostro futuro dipendono da cosa faremo insieme, poiché la UE deve andare oltre l’autocompiacimento per la prevenzione dei conflitti, deve cooperare alla costruzione di una pace prospera. I socialdemocratici devono trovare un modo di fornire un contributo particolare al dibattito sul futuro dell’Europa, al fine di rafforzare la loro agenda riformista sul piano nazionale. La Convenzione per il futuro dell’Europa non deve perdersi in minuzie istituzionali, ma deve invece affrontare quel «deficit di risultati» che oggi indebolisce l’appoggio dell’opinione pubblica al progetto europeo.

La più grande lezione che ho appreso negli ultimi otto anni riguarda le dinamiche della politica. Entrai nella squadra del Labour quando eravamo all’opposizione, nel 1994. Oggi, dal governo, dobbiamo continuare a fare tesoro dello spirito dei tempi dell’opposizione, innovandoci instancabilmente e continuando ad avanzare per non perdere impeto politico. Non bisogna restar fermi a nessun costo, perché la politica teme il vuoto, e ciò è tanto più vero oggi, nell’epoca dei media onnipresenti e multiformi. Il giorno delle elezioni il problema sarà sempre quello: che le riforme sono state insufficienti. Non ci sentiremo mai dire che le riforme sono state troppo radicali o troppo drastiche. E se non saremo noi a riempire il vuoto lo farà l’opposizione. La conclusione sorprendente è che, una volta espresso il giusto plauso per la professionalità e l’organizzazione mediatica del New Labour, le idee sono più importanti che mai. Nonostante le difficoltà della politica moderna, la natura semplicistica dei media, gli slogan efficaci e la natura frammentaria del dibattito, le idee contano, perché senza di esse nessuna campagna politica avrà successo. Non ci sono mai certezze di vittoria, perché gli eventi possono cospirare ai danni delle idee. Ma senza idee semplicemente non c’è speranza.

 

 

Bibliografia

1 A. Heath, R. Jowell and J. Curtice, Labour’s Last Chance?, Brookfield, Dartmouth 1994.

2 A. Giddens si è assicurato una posizione chiave in tutto questo dibattito, con lavori come The Third way: The renewal of social democracy, Polity Press, Malden 1999 e The Third way and its critics, Polity Press, Malden 2000. Ma altri significativi contributi sono da vedersi nel volume curato da René Cuperus, Karl Duffek and Johannes Kandel, Multiple Third Ways, Friedrich Ebert Stiftung, Amsterdam/Berlin/Vienna 2001.

3 T. Crosland, Socialism Now, Sage, London 1974.

4 J. Roemer, Equality of opportunity, in (a cura di) K. Arrow, S. Bowles, S. Durlauf, Meritocracy and Economic Inequality, Princeton University Press, Princeton 2000.

5 Un nuovo libro (C. Crouch, P. Le Gales, C. Trigilia, H. Voelzkow, Local Production Systems in Europe: Rise or Demise? Oxford University Press, New York 2001), conclude che le pressioni della globalizzazione e lo sfruttamento di vantaggi relativi locali rimangono fattori assolutamente critici del successo economico.