Le tappe della costruzione di un nuovo autoritarismo nazionalista

Di Lea Nocera Giovedì 23 Marzo 2017 12:09 Stampa

Il prossimo 16 aprile si svolgerà in Turchia il referendum che, se approvato, sancirà il passaggio da un sistema parlamentare a un regime presidenziale che attribuisce pieni poteri al presidente della Repubblica e di fatto segna il superamento, nel paese, della separazione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. La consultazione referendaria arriva al termine di un lungo processo che ha visto il tentativo di colpo di Stato dello scorso luglio sommarsi alla lunga serie di attentati che hanno colpito il paese, favorendo di conseguenza l’affermazione di una retorica della stabilità di cui l’AKP e il presidente Erdogan si fanno paladini.

 

IL REFERENDUM COSTITUZIONALE

Il 16 aprile in Turchia si apriranno nuovamente le urne. Dopo set­te anni la popolazione è chiamata a esprimere il proprio parere in merito a modifiche costituzionali e questa volta la posta in gioco è molto alta. Barrando sulla casella del sì o del no si decreterà, in­fatti, se la Turchia debba passare da un sistema parlamentare a un regime presidenziale che attribuisce pieni poteri al presidente della Repubblica. Le modifiche costituzionali prevedono che il presidente della Repubblica, che potrà continuare a ricoprire la carica di leader del proprio partito, nomini direttamente i ministri, possa scioglie­re il Parlamento ed emanare decreti legislativi, definire le politiche di sicurezza e l’indirizzo economico della nazione, decretare lo stato di emergenza senza passare per il Consiglio di sicurezza nazionale, di cui comunque nomina la metà dei membri, così come dodici dei quindici giudici che compongono la Corte costituzionale. Il man­dato presidenziale, della durata di cinque anni, può inoltre essere rinnovato per due volte, ma non è esclusa la possibilità di un terzo mandato in caso di elezioni anticipate. Di fatto, viene sancita la fine della separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario e il Parlamento diventa un organo consultivo.

Per giungere al voto referendario, il progetto di riforma costituzio­nale è stato dapprima approvato in Parlamento, con discussioni dai toni violenti e aggressivi arrivate a trasformarsi anche in grosse risse. Il dibattito è avvenuto in un clima politico molto aspro e in una quo­tidianità oramai scandita da arresti e processi che non hanno rispar­miato neanche i parlamentari. Undici deputati del partito HDP, tra cui i suoi due leader, Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, erano già in stato di arresto durante il voto per la riforma costituzionale e, impossibilitati a prendervi parte, hanno assistito alle manifestazioni di solidarietà del loro partito, che ha scelto di boicottare lo scrutinio. Un’azione simbolica che non è valsa a influire sul risultato, nonostan­te anche il maggior partito d’opposizione, il CHP, storica formazione kemalista, si sia schierato compatto per il no. La riforma è infatti passata con 348 voti a favore e 141 contrari – ne occorrevano 330 su 550, pari a 3/5 dell’assemblea – e determinante è stato l’appoggio dei deputati del partito ultranazionalista MHP che per numero di seggi costituisce il quarto e minore partito in assemblea. L’alleanza tra quest’ultimo e il partito di Erdogan, l’AKP, oltre a essere motiva­ta da ragioni di opportunità politica, riflette bene la situazione e la cornice politica che si è delineata in seguito al fallito colpo di Stato dello scorso 15 luglio.

La necessaria unità nazionale invocata immediatamente da tutte le forze politiche, e suggellata dalla dichiarazione congiunta siglata nel­la seduta straordinaria della grande assemblea nazionale all’indomani del tentato golpe, ha mostrato in un brevissimo lasso di tempo che non poteva tenere in una compattezza forzata dagli eventi.

STRASCICHI ELETTORALI

Il tentativo di golpe del 15 luglio ha colto tutti di sorpresa, ma è intervenuto in un paese già duramente messo alla prova da un anno difficile, costellato di eventi tragici, attentati che si susseguono al punto da perderne il conto. Nove se si contano soltanto quelli nel­la capitale Ankara e nella più grande metropoli del paese, Istanbul, dove l’ultimo ha trasformato il veglione di Capodanno in un incubo. Dal luglio del 2015, più di quattrocento persone sono morte in at­ tentati in parte rivendicati o attribuiti all’ISIS, in parte ai curdi del TAK o al PKK. Un bilancio tragico che rimane permanentemente provvisorio, non solo perché il numero dei feriti è sempre molto alto ma perché il rischio di nuovi attentati continua a essere all’ordine del giorno, tanto più che nel­la regione del Sud-Est, soprattutto a ridosso del confine con la Siria, il conflitto tra le forze mili­tari e la guerriglia curda è da mesi violentissimo, con villaggi in stato d’assedio e enormi ripercus­sioni sulla popolazione.

Giusto un anno prima del golpe la Turchia era appena uscita dalle elezioni politiche. Il voto si era svolto a inizio giugno 2015 e aveva deter­minato un risultato sorprendente. L’AKP per la prima volta aveva perso la maggioranza dei seg­gi incassando una sostanziale perdita in termini percentuali. L’esito, che imponeva di trovare un accordo per formare un governo di coalizione, aveva fatto sfumare di colpo il progetto di riforma costituzionale che aveva cominciato a definirsi dopo la vittoria delle politiche nel 2011 e si era consolidato dopo la vittoria di Erdogan alle presidenziali. Una riforma che sin dall’inizio aveva però suscitato numerosi dubbi e incontrato opposizioni in tutta la compagine politica fuori dall’AKP.

L’altra grande novità di quel voto era stato l’ingresso in Parlamento del partito HDP, una formazione progressista che era stata capace di intercettare la voglia radicale di cambiamento in senso democratico e pluralista di una parte trasversale della popolazione, in cui confluivano la componente curda, la società civile progressista, la classe media urbana, il ceto intellettuale e una buona parte del mondo culturale. Adoperando un lessico politico nuovo che in parte era an­dato formulandosi nei discorsi e nelle pratiche elaborate durante o a margine delle proteste di Gezi dell’estate 2013, l’HDP era riuscito a superare il grosso ostacolo dello sbarramento al 10%, affermandosi come terzo partito e soprattutto dimostrando che in Turchia c’era margine per una politica che potesse avere legami con il territorio e al contempo, per la prima volta nel paese, rendere le frammentazioni della società un fattore di forza per elaborare un nuovo discorso de­mocratico, non autoritario. Non è sbagliato dire che uno degli aspetti di maggiore novità era rap­presentato dalla capacità di superare quella che da sempre era stata la linea di frattura più profonda del paese al punto da sembrare incol­mabile: la spaccatura tra turchi e curdi. L’HDP – che erroneamen­te da noi sin dall’inizio viene semplicisticamente definito il partito filo-curdo – aveva colto il maggiore risultato delle proteste di Gezi, quando fu evidente che le battaglie per i diritti dei curdi, come quelle di altre minoranze (aleviti, armeni, LGBTQ ecc.) potevano confluire in un’unica battaglia politica a favore di diritti e libertà fondamen­tali universali e contro un conservatorismo crescente. La scelta del plurale come riferimento ideologico e concetto identitario – il nome, Partito democratico dei popoli; la scelta di una leadership doppia – caratterizza questo partito sin dai suoi esordi e si contrappone in modo netto all’idea di nazione monolitica, rigidamente omogenea e uniforme imposta dal nazionalismo, tradizionalmente presente, sen­za distinzioni, nella politica turca.

Due attentati che sconvolgono la società turca e che possono essere considerati momenti cruciali dell’escalation di violenza dell’ultimo anno e mezzo colpiscono in modo mirato due manifestazioni in cui l’opposizione ha anche il volto di questa alleanza trasversale tra curdi e turchi. Il primo avviene a Suruc, il 20 luglio, dove l’esplosione di un kamikaze provoca la morte di 34 ragazzi appartenenti a un picco­lo gruppo, la federazione giovanile socialista, in missione per portare aiuti alla popolazione di Kobane. L’altro colpisce il cuore del paese, la capitale, il 20 ottobre, causando la morte di 103 persone riunite in una grande manifestazione per la pace. Entrambi avvengono nei mesi che intercorrono tra il voto di giugno e le elezioni di novembre, quando la popolazione turca ritorna a votare per la mancata forma­zione di una coalizione di governo.

Gli attentati, in un contesto molto preoccupante dovuto alla guerra in Siria, alle porte, alla presenza oramai irrefutabile di cellule dell’ISIS nel paese, al nuovo slancio della guerriglia curda rinvigorita dalla vittoria di Kobane, si ergono come un minaccioso monito per il futuro del paese. La stabilità diventa la parola chiave della campagna elettorale dell’AKP. Gli elettori ritornano evidentemente sulle loro decisioni, confidando in un potere forte che possa far indietreggiare i pericoli. Nel novembre 2015 l’AKP non riesce ancora a ottenere la maggioranza assoluta che gli permetterebbe di condurre in autono­ mia la riforma costituzionale, ma ha recuperato un gran numero di seggi e una rinnovata legittimità ad agire come partito di maggioran­za. Nel frattempo il paese non sembra recuperare stabilità. Da più parti si denuncia una rapida e drastica polarizzazione della società. Il paese torna a mostrare tutte le sue spaccature. Il conflitto nel Sud- Est riporta la questione curda in una fase cupa, e la prima vittima politica è l’HDP, che comincia a perdere parte del suo consenso e viene risucchiato nell’associazione con il PKK, da cui si era sottratto abilmente fino alle elezioni di giugno ma che poi i suoi dirigenti gestiscono con difficoltà.

1997-2017. DAL GOLPE POSTMODERNO AL TENTATO GOLPE

Il 2016 è un anno terribile per la Turchia. Vecchi fantasmi hanno smesso di essere spettri in agguato e sono diventati reali. Così il PKK e il conflitto con i curdi che sembrava solo qualche anno fa destinato a una storica riconciliazione. E poi i militari con i loro carri armati che scendono in strada e tentano di rovesciare il governo. Sarà anche stata una infima parte dell’esercito a essere coinvolta nel tentato golpe ma i colpi di Stato, con il vecchio repertorio di carri armati e assalto alla televisione di Stato, sembravano oramai appartenere al Novecento. Il secolo si era del resto chiuso con un golpe postmoderno, sancito con il memorandum del Consiglio nazionale di sicurezza il 28 febbraio 1997, con il quale oltre a imporre alcune decisioni al governo, veniva costretto alle dimissioni Necmettin Erbakan, anticipando la chiusura del Refah Partisi, con cui Recep Tayyip Erdogan era diventato qual­che anno prima sindaco di Istanbul. Non molto tempo dopo lo stesso Erdogan era stato arrestato per incitamento all’odio.

Venti anni sono trascorsi dalle decisioni del 28 febbraio. In questo lasso di tempo la scena politica è stata dominata dall’AKP che, fon­dato nel 2001, mai ha trascurato l’eredità politica di quell’evento. L’insistenza con cui il presidente della Repubblica ribadisce la pro­pria legittimità, di cui è garante il “voto del popolo”, può essere letta in questo senso, una rivalsa contro il sopruso del golpe postmoder­no, con cui i militari, e la classe dirigente kemalista, inficiarono un governo a sua volta legittimo. Un tema sensibile se si pensa che già allora in molti si erano rivelati stanchi di un’ingerenza dell’esercito che si voleva difensore della democrazia, e questo era valso anche un certo consenso all’AKP delle prime ore. In modo analogo, come strascichi di quegli eventi possono anche essere considerate l’enorme macchina giudiziaria e l’attenzione mediatica innescate con le maxi inchieste Ergenekon e Balyoz con cui quadri dell’esercito sono stati accusati di tentato golpe, processati e arrestati. Il 28 febbraio non ha mai smesso di rappresentare un momento chiave per l’AKP e per Erdogan: rievocato in modo frequente come una pagina nera della democrazia turca, definisce per contrasto l’AKP sin dai suoi esordi come esperienza realmente democratica che incontra la volontà del popolo e non quella di un establishment politico tradizionale. Eppu­re, oggi, si scontra con una realtà diversa e non a caso viene richia­mato in causa dall’opposizione, che legge nella situazione attuale un ribaltamento di ruoli.

LA RIELABORAZIONE DEL GOLPE FALLITO

Dopo il tentato golpe di ribaltamenti, in realtà, ce ne sono stati di­versi. Per cominciare il 15 luglio, giorno del fallito colpo di Stato, un giorno tragico per la storia turca, è diventato un giorno di festa, in cui si celebra la democrazia e si commemorano i martiri. Da quel momento ogni occasione è stata utile per affermare l’unità naziona­le. L’imponente manifestazione di Yenikapi a inizio agosto, con la partecipazione di milioni di persone e un tripudio di bandiere rosse, è sembrato poter rinsaldare di colpo le polarizzazioni della società. Con l’esclusione dell’HDP dalle riunioni dei partiti presenti in Parla­mento era però già evidente il contrario. Inoltre, nonostante la popolazione tutta si fosse schierata contro il golpe, gli arresti di massa, i numerosi e ripetuti attacchi contro i mezzi di informazione, le università, gli apparati statali hanno in realtà suscitato più sconforto che fiducia nello Stato. Una grande cupezza pesa oggi sul paese. La ne­cessità di difendere la democrazia si è tradotta nella repressione di qualsiasi forma di opposizione. Con grandi sforzi si cerca di mantenere in piedi un’informazione indipendente, che però ha spazi di giorno in giorno più ridotti. L’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica è il capo di imputazione che colpisce intellettuali, giornalisti, scrittori. E lo spettro delle persone che pos­sono essere trascinate in tribunale, private del passaporto, finire agli arresti è sempre più ampio.

Il paese sembra essere improvvisamente precipitato all’indietro. Gli anni Novanta, periodo più buio del conflitto tra lo Stato e la guerri­glia curda, che in campagna elettorale venivano in modo inquietante rievocati come minaccia dall’AKP in caso di una loro sconfitta, ri­affiorano in modo insistente nella memoria. Così come la fuga dal paese di intellettuali, studenti, militanti e attivisti che generata dal golpe militare del 1980 non è molto diversa dalle partenze di quanti oggi lasciano la Turchia per l’Europa o altri paesi. Senza parlare poi delle ricadute economiche per un paese che stava cavalcando l’onda di uno sviluppo consistente, che era arrivato a rappresentare un polo di attrazione tanto per investimenti massicci quanto per piccoli im­prenditori – tra cui molti italiani – proprio per il suo dinamismo e di sicuro, in parte, anche per la vivacità culturale.

NUOVA PELLE PER UN VECCHIO NAZIONALISMO

Il ritorno al passato si può però leggere anche su un altro piano. Nell’affermazione di un nazionalismo esasperato, di una centra­lizzazione del potere e nel riuso di simboli politici tradizionali. Le manifestazioni, le azioni intraprese, i discorsi seguiti al tentativo di golpe hanno reso evidente e accelerato una trasformazione politica già in corso. Lo testimonia la macchina commemorativa messa in piedi all’indomani del golpe, sorprendente nelle sue dimensioni e per la rapidità con cui si è attivata. In realtà l’AKP già da anni stava costruendo un proprio discorso celebrativo, enfatizzando eventi sto­rici – come la presa di Costantinopoli, oramai oggetto di una enor­me manifestazione in pompa magna a Istanbul – che servissero alla costruzione di una nuova narrativa nazionale in cui combinare con elementi ottomani quelli turchi repubblicani, vecchi costumi tradi­zionali e l’uso di nuove tecnologie: una sintesi della Nuova Turchia, il progetto politico dell’AKP da diversi anni.

L’affermazione della democrazia dopo il tentato golpe è stata così ce­lebrata come una seconda guerra di indipendenza, in una ripresa del mito fondativo della Repubblica kemalista, la guerra che ebbe il suo culmine nella battaglia di Canakkale. Ed è qui, a Canakkale, del resto, che negli ultimi anni si organizzano grosse celebrazioni, in cui si riba­disce la capacità della Turchia di resistere e scon­figgere il nemico esterno, oggi come ieri pronto a tramare contro l’integrità del paese. Un nemico che per l’AKP assume svariate forme: dal movi­mento capeggiato da Fethullah Gulen, mandante del golpe, alla finanza internazionale. È così che Recep Tayyip Erdogan è stato celebrato come baskomutan, comandante supremo, in modo non dissimile dal gazi Mustafa Kemal Ataturk, alla cui immagine – fino a poco fa unica e inimitabile – si affianca oramai il ritratto del presidente della Repubblica. E analoga­mente, nella retorica dei discorsi politici dal marcato tono paternali­stico, la popolazione turca ha oggi un nuovo padre.

È interessante come il tentativo di golpe abbia favorito la messa in pratica di un apparato di simboli che per certi versi ricalca il vecchio kemalismo. L’operazione toponomastica con cui luoghi pubblici come strade, piazze e ponti sono stati intestati alle vittime del 15 luglio, i cosiddetti “martiri per la democrazia”; ricorda l’intervento dei primi anni repubblicani, almeno quanto l’enorme programma di trasformazione urbana che sta cambiando il volto di Istanbul, di cui di continuo si rispolverano i fasti imperiali, fa molto pensare al pro­getto di un nuovo trasferimento della capitale. Il décor ottomano su cui si pone grande enfasi è una caratterizzazione univoca del riuso di simboli e della ripresa dei vecchi miti kemalisti nell’elaborazione di un discorso nazionalista che oggi non appare più un’alternativa ma un’elaborazione ulteriore, aggiornata, per certi aspetti nuova, come lo stesso carattere neo-ottomanista o i richiami alla religione.

Per l’AKP il pluralismo della Turchia si fonde oggi nell’espressione “una bandiera, una nazione, una patria, uno Stato”, in una unità in cui le differenze scompaiono e invece di essere valorizzate si appiat­tiscono. La diversità è sinonimo di dissenso, e quindi di sovversione, di terrorismo. In alcuni spot elettorali del partito i curdi non scom­paiono mentre si ripropone una contrapposizione netta, anch’essa già vista, tra curdi buoni e cattivi, dove i primi decidono di omolo­garsi al progetto nazionale dell’AKP e tutti gli altri sono terroristi. È evidente la direzione completamente opposta alla proposta politica della parte progressista della società.

Infine, alla guida di questo nuovo paese, la Nuova Turchia, non ci può che essere un solo uomo, come ribadisce uno degli slogan per il referendum costituzionale. L’ideologia del Tek Adam, l’uomo unico al comando, appellativo con cui è stato definito Mustafa Kemal, che ha dominato tutta la prima era repubblicana, almeno fino alla fine del regime del partito unico con le elezioni del 1950, non è più sol­tanto un ricordo.

E il centenario della Repubblica, il 2023, in realtà è alle porte. L’anno in cui, con le celebrazioni, si potrà, secondo i programmi dell’AKP, consacrare l’inizio della Nuova Turchia è vicino. Così vicino da poter essere celebrato da Recep Tayyip Erdogan sempre nelle vesti di presi­dente della Repubblica in caso di una vittoria del sì.