Atene e la sua battaglia per l’anima dell’Europa

Di Gustavo Piga Mercoledì 13 Maggio 2015 15:59 Stampa

Nei negoziati in corso a Bruxelles tra i rappresentanti dell’Unione europea e quelli del governo greco è in gioco una posta molto più alta di quella che i freddi numeri lasciano trasparire: l’anima stessa dell’Europa. Alla Grecia va il merito di aver ingaggiato una battaglia per spingere l’UE ad abbandonare il cieco perseguimento della stabilità e dell’austerità incarnato dal Fiscal Compact per costruire un paradigma nuovo che si richiami ai principi ispiratori del progetto di integrazione del continente: libertà e solidarietà.

Difficile in questi giorni scrivere un articolo sulla crisi della Grecia, a meno che non sia per un quotidiano: troppo rapido il susseguirsi degli eventi, degli scontri quotidiani tra politici e sherpa coinvolti nei negoziati, dei cambiamenti di strategia negoziale tra le controparti. Come ad esempio quelli appena annunciati nel momento in cui finalizzo questo pezzo. In primis, la proposta di Tsipras, primo ministro greco, di ricorrere al referendum per decidere se accettare o meno accordi con l’Europa che divergano sensibilmente da quanto promesso in campagna elettorale dalla coalizione attualmente al governo. In secundis, l’allontanamento – parziale – dal tavolo dei negoziati del ministro dell’Economia Varoufakis per incompatibilità manifesta con i suoi colleghi dell’Unione, esasperati dal suo atteggiamento a quanto è dato capire “poco costruttivo”. Purtuttavia, o forse anche per questa frenesia tattica, è chiaro a tutti come questo sia un momento decisivo per l’Europa. Come ha avuto modo di scrivere in un recente e a tratti commovente articolo sul “Financial Times” Peter Aspden, in passato editor della sezione Arts del quotidiano rosa londinese, la battaglia (tra Germania e Grecia) «è materia di importanza cosmica. Primo, perché l’eurozona conta nell’economia del mondo (…). Ma vi è un dibattito filosofico più profondo sotto la superficie di queste acque tempestose, un dilemma esistenziale che si cela dietro la contabilità dei numeri. Che popolo vogliamo essere? Ordinato, rigoroso, parsimonioso? Oppure spontaneo, amante della vita, festaiolo? Ovviamente questi sono stereotipi e, ovviamente, sono assurdi: le statistiche mostrano come i greci siano un popolo laborioso e l’esperienza personale mi dice che i tedeschi certamente sanno come divertirsi. Ma (…) non riusciamo a smuoverci dagli stereotipi: spuntano nel sottotesto di praticamente qualsiasi discussione sui problemi attuali. Grecia contro Germania è divenuta una battaglia per la conquista dell’anima dell’Europa».1

Ed era tempo che questa battaglia avesse luogo. Prima di essa l’Europa sembrava da tempo anestetizzata e ammuffita, rimasta come paralizzata, forse schiacciata dal peso della responsabilità del vano auspicio della Strategia di Lisbona, che le chiedeva di divenire in pochi anni lo «spazio economico più dinamico e più competitivo del pianeta fondato sulla conoscenza». Parole che a rileggerle fanno sorridere, ma che riecheggiano un celebre passaggio dell’“Uomo senza qualità” di Robert Musil che così ironicamente descrive lo Stato della Cacania, metafora di un’Europa già allora, nel primo Novecento, impotente: «era lo Stato più progredito del mondo, benché il mondo non lo sapesse ancora; era lo Stato che ormai si limitava a seguire se stesso, vi si viveva in una libertà negativa, sempre con la sensazione che la propria esistenza non ha ragioni sufficienti». Alla Grecia va il merito di questo risveglio, di aver forzato il dibattito a un punto tale da aver esposto la pochezza dell’ultimo, più recente, paradigma assurto a difesa della costruzione europea, la cosiddetta “austerità flessibile”, teorema anche “renziano” volto a far digerire la pillola dell’austerità ottenendo alcuni sconti di qualche decimale di PIL nel rientro rapido dei deficit. Tsipras ha rifiutato anche questa logica e le sue richieste hanno già portato l’avanzo primario greco (differenza tra entrate totali e spese al netto di quelle per interessi) dal 4% di PIL preteso dalla Troika solo qualche mese fa a un ben più realistico 1 o 2%: altro che decimali! Immaginate un Renzi che, invece dell’attuale riduzione del deficit su PIL dal 3% allo 0% entro il 2018 come previsto dal DEF (manovre, se tutto va bene, di circa 10 miliardi l’anno di maggiori tasse e minori spese a casaccio), riesca a portare a casa dalle negoziazioni con Bruxelles di rimanere per quegli stessi anni sempre al 3% di PIL, utilizzando le risorse addizionali, un vero (questo sì) “tesoro”, per maggiori investimenti pubblici e calo effettivo della pressione fiscale. Se tutto ciò vi pare utopistico, ecco, avrete la misura completa dello straordinario sforzo negoziale e politico in cui si è imbarcato con coraggio e una qualche disperazione il nuovo governo greco, sospinto dal voto e dalla testardaggine del suo popolo.

Ma non è utopia quella di rinnegare l’austerità rimanendo tuttavia ancorati a un quadro di stabilità geopolitica ed economica tramite la pervicace convinzione di non voler lasciare l’euro (in fondo, la prova più evidente del fatto che l’Unione dei popoli europei, se ben congegnata, è un qualcosa che affonda ormai le sue radici in ognuno dei paesi membri). È piuttosto analisi realistica dei fallimenti più recenti del dogma europeo, specie per i paesi della moneta unica legati da un accordo che vieta oggi tassativamente di risolvere i propri squilibri con aggiustamenti di cambio, nella convinzione che solo con l’euro si potrà trovare rimedio ai fallimenti delle politiche congiunte della fine del precedente secolo, quando ogni Stato membro poteva alzarsi dal tavolo e unilateralmente dichiarare la propria indifferenza alle sorti comuni del continente (l’ultimo esempio in ordine di tempo, l’ingenerosa pressione tedesca a finanziare con denaro altrui la ricostruzione dell’Est, senza accettare di riallineare il marco tedesco ma forzando l’uscita della lira dall’accordo monetario di cambio). Non che oggi questi interessi comuni siano ben rappresentati. Ma non c’è dubbio che la discussione su di essi sia viva quanto mai, a dimostrazione appunto del ruolo dirompente che gioca la moneta unica nel non lasciare alternative se non quella di trovare una soluzione di compromesso. Ma torniamo a noi. Che rinnegare l’austerità sia analisi realistica lo dice una fonte al di sopra di ogni sospetto, il Centro studi di Confindustria, divenuto forse inconsciamente il più convinto sostenitore della bontà delle posizioni greche, quando paragona l’andamento del PIL statunitense con quello europeo dall’avvio della crisi finanziaria in poi, valore che nel 2014 «ha superato del 10,1% il livello pre-crisi, (mentre) quello dell’area euro è dello 0,9% inferiore». I due analisti, Fontana e Pignatti, mostrano come la ragione di questa ripresa differenziata stia nel forte «contributo alla crescita del PIL (USA) della spesa pubblica, soprattutto nella fase iniziale della crisi: +53,1% (…) nel 2010 rispetto al 2006, ultimo anno pre-crisi (…). La spesa per investimenti pubblici è aumentata, in sette anni, del 24,9% negli Stati Uniti (…) e solo del 2,2% nell’area euro (…). Il parziale rientro del deficit (USA), invece, è stato ottenuto mantenendo ferma la spesa reale e incassando maggiori entrate grazie alla ripresa dell’attività economica (…). Nell’eurozona, con l’esplodere della crisi dei debiti sovrani nel 2010, la scelta è stata di imporre l’aggiustamento dei conti pubblici: in questo modo i paesi della periferia euro, con i disavanzi e i debiti più cospicui, sono stati costretti a rientrare in modo repentino, contestuale e con enormi manovre correttive. Gelando quei germogli della ripresa che gli USA hanno saputo proteggere».2

Oggi ci ritroviamo in una situazione analoga a quella conosciuta nel 2010: la ripresa mondiale, il calo del prezzo del petrolio, i bassi tassi d’interesse, il deprezzamento dell’euro congiurano positivamente e paiono permettere all’economia europea di far finalmente capolino dopo l’inverno, sostenendo la tanto attesa primavera della ripresa. Ma il rischio che corriamo è analogo a quello del 2010: far naufragare tutto chiedendo alla politica fiscale l’opposto di quello che ha fatto negli Stati Uniti sia ieri, come sottolinea Confindustria, che tanto tempo addietro, con Franklin Delano Roosevelt, durante la Grande depressione, ovverosia di venire a sostegno dell’economia privata nel momento in cui a questa manca il coraggio per investire e consumare. Un Franklin Delano Roosevelt che non a caso il ministro dell’Economia greca invoca spesso, assieme a un nuovo New Deal per l’intera Europa.

A esso si oppone, inesorabile, il Fiscal Compact, la costituzione austera che si è data dal 2011 l’Unione europea senza un sano dibattito democratico che le desse radici solide nel continente. La richiesta di Tsipras di a) fermare l’austerità in recessione, b) rinegoziare il debito pubblico ancorandolo non più ai tassi e ai loro spread ma all’andamento dell’economia greca, così che i creditori possano sì essere rimborsati, ma solo quando si sarà dimostrato che quanto richiesto all’economia ellenica effettivamente genera crescita e benessere, e c) arrestare il calo della spesa pubblica e venire incontro alle sofferenze di un popolo alle prese con un tasso di disoccupazione del 28% (51,5% tra i giovani) è effettivamente la richiesta all’Europa di abbandonare un’anima, quella della stabilità e austerità incarnata dal Fiscal Compact, per indossarne un’al tra, quella incarnata da due parole ben diverse, menzionate così tanto tempo addietro da uno dei padri fondatori dell’Europa, Jean Monnet: “libertà” e “solidarietà”.

Per capire la possibilità di successo di un tale tentativo è essenziale chiedersi perché esista il Fiscal Compact. Ovverosia, perché esiste questa macchina infernale senza pause, che obbliga lo Stato a dimagrire, senza se e senza ma, con pochissima attenzione da parte del decisore Europa a se questa consunzione sia all’interno di un processo di sana spending review o invece di recessivi tagli lineari, di cessione per mere esigenze di cassa di controllo pubblico o di intelligenti e mirate liberalizzazioni? Sono due le risposte immediate a questa domanda, che sollevano ulteriori questioni, più dirimenti, sulla natura del progetto europeo e sulla necessità di una nuova visione politica che sostenga il cambiamento nelle scelte pubbliche del Vecchio continente.

La prima risposta ha a che fare con quella che io chiamo la “questione ideologica”. La mia generazione di cinquantenni, oggi al potere in tutti i gangli delle amministrazioni nazionali e sovranazionali, si è formata nelle università al tempo in cui il verbo neoclassico aveva preso il sopravvento. Partito in sordina alla fine degli anni Sessanta presso la scuola di Chicago, fu sospinto dai fallimenti evidenti negli anni Settanta del modello keynesiano, applicato dalla classe dirigente di allora senza interrogarsi se l’intervento statale che Keynes perorava durante la Grande depressione da crisi di domanda degli anni Trenta fosse necessario in economie alle prese invece con problemi strutturali di offerta che cominciavano ad affliggere il benestante Occidente.

Thatcher e Reagan si fecero forti di quel modello (contano le idee, eccome se contano!) per adottarlo con convinzione e poca attenzione ai dettagli, generando prima disoccupazione e poi ripresa, modificando per sempre la struttura produttiva e finanziaria di Gran Bretagna e Stati Uniti. Ma anche, per quello che conta di più per noi, dando vita – più o meno volontariamente – a una nuova ideologia che, come spesso accade, pervase i corridoi delle migliori università del mondo: il fallimento del pubblico (meno interventismo) e il liberismo (più mercato) divennero i due pilastri del messaggio economico con il quale siamo stati cresciuti sui banchi degli atenei negli anni Novanta. Oggi, come è avvenuto spesso nel corso della storia, il pendolo ritorna indietro e una crisi da domanda simile a quella degli anni Trenta richiede soluzioni simili a quelle persuasivamente argomentate da Keynes allora. Ma questa classe dirigente al potere oggi non riesce ad accettarle, troppo imbevuta di quello che allora era sapere e oggi è mera ideologia.

La questione ideologica in Europa avrebbe comunque le gambe corte se a essa non si accompagnasse una questione di superiore importanza: quella democratica. Il potere decisionale in quest’ultimo decennio è rapidamente salito verso il centro, verso Bruxelles, senza che appropriati meccanismi di rappresentanza effettiva consentissero di sensibilizzare la politica sulla situazione di disagio e – talvolta – di vera sofferenza dei cittadini, specie quelli colpiti dalla recessione. In fondo, meccanismi oliati di rappresentanza avrebbero consentito facilmente alla politica di ordinare alla burocrazia di abbandonare rapidamente la sua dannosa ideologia. Così non è stato, così non è, a meno di un crescente e conseguenziale consenso per nazionalismi di sinistra e di destra per ora sterili – incapaci cioè di influenzare le politiche economiche – ma certamente più attenti alle sofferenze dei singoli territori, delle località. È un’Europa, quella che abbiamo costruito, dal “liberismo standardizzato”, che chiede cioè, senza se e senza ma, meno presenza del pubblico e più mercato nell’economia e riforme uguali per tutti, confermando la sua lontananza dalla specificità dei problemi che ogni paese, e spesso ogni regione, vorrebbero affrontare e risolvere. Questa è l’Europa che si sta lacerando e dividendo sempre più, basti vedere la crescita galoppante degli anti-euro in Germania.

Che Europa contrapporre a questa fallimentare per sperare che il disegno europeo possa sopravvivere, permettendo al continente di crescere unito e dunque capace finalmente di affrontare con efficacia e determinazione le più spinose questioni geopolitiche di questo difficilissimo scenario mondiale, ragione per cui in fondo era nata l’idea di Unione? Al “liberismo standardizzato” dovremmo sostituire un “liberalismo democratico”: dove la questione centrale di quest’ultimo sarebbe quella del pieno conseguimento delle libertà individuali, senza le catene che derivano dalla sofferenza, dalla disoccupazione, dal fallimento che questa recessione in primis genera; dove le riforme sono quelle, diverse per ogni paese, più utili alla causa della libertà d’impresa e del diritto-dovere di lavorare, nel pieno riconoscimento della diversità come valore fondante dell’Unione europea (come argomentava appunto Jean Monnet); dove la politica rappresenta con coraggio le volontà dei cittadini-elettori di ogni singolo paese e vede le proprie richieste destinatarie di pari dignità al tavolo delle decisioni europee.

Non mi stupirei se molti riconoscessero nell’attuale tentativo greco l’azzardo coraggioso di risvegliare il continente europeo e portarlo appunto verso una nuova Europa, più democratica e più liberale e – dunque – più solidale, dove ci sentiremmo maggiormente a casa (peggio di così, scontentando tutti, è difficile fare). Non a caso la battaglia si combatte oggi in Europa sul fronte della “quantità di solidarietà” per chi soffre in Grecia e sulla lista di riforme che la Grecia dovrà adottare. Non una lista “prestampata” ma elaborata sulla base di richieste dal basso di un popolo che vuole fortemente rimanere in Europa e migliorarsi, ma decidendo insieme agli altri Stati membri la strada da percorrere, senza imposizioni. Come finirà lo diranno gli storici. Come potrebbe finire lo possiamo decidere noi, esercitando coraggio e saggezza, rimuovendo il Fiscal Compact e ascoltando finalmente gli europei.


[1] P. Aspden, Germany and Greece: A Twisted Love Affair, in “Financial Times”, 24 aprile2015, disponibile su www.ft.com/intl/cms/s/2/7922943e-e8e0-11e4-b7e8-00144feab7de.html

[2] A. Fontana, M. Pignatti, Gli USA battono l’Eurozona con politiche di bilanciopubblico più espansive, Nota dal CSC, 8/2015, disponibile su www.confindustria.it/wps/wcm/connect/www.confindustria.it5266/d68f5cdc-8eb5-4967-94a4-2d149884cb54/Nota+CSC+n.15-8_Politiche+di+bilancio+USA+UE.pdf?MOD=AJPERES&CONVERT_TO=url&CACHEID=d68f5cdc-8eb5-4967-94a4-2d149884cb54