Politica, religione, laicità dello Stato. Luci e ombre del caso italiano

Di Salvatore Prisco Martedì 13 Maggio 2008 19:03 Stampa

Si vuole qui ripercorrere il rapporto tra politica e religione e il ruolo di quest’ultima nello spazio pubblico della democrazia pluralista rivisitato attraverso Gauchet, Habermas e Rawls, per affermare un’idea di laicità dello Stato come arbitrato neutrale tra i conflitti nascenti anche dalle differenze di fede. L’attuale ordinamento italiano è caratterizzato dal moltiplicarsi delle intese tra Stato e confessioni non cattoliche, istanze di una legge generale sulla libertà religiosa, creazione bipartisan – da parte dei governi – di organismi e documenti di principio per la consultazione permanente coi credenti di fedi diverse, avendo sullo sfondo un ruolo sociale molto attivo della Chiesa cattolica, resistenze laiciste, pulsioni anti-islamiche.

Uno sguardo al dibattito teorico contemporaneo

È stata appena pubblicata in Italia una bella raccolta di saggi del celebre sociologo Marcel Gauchet,1 che aggiorna e prosegue le sue precedenti riflessioni sul tema del rapporto tra religione e politica, già oggetto in Francia di un ampio dibattito. Nella sintesi imposta dalla ristrettezza dello spazio di cui si dispone qui e facendo parlare il più possibile il testo: «(…) in origine, la religione non è nient’altro che l’organizzazione dell’eteronomia. Per contrasto, l’essenza del fenomeno democratico (…) consiste proprio nella rottura con questo ordine eteronomo e nell’emergere di una politica dell’autonomia – solo gli uomini, tra di loro in quanto individui, possono definire l’organizzazione del loro mondo comune. (…) se le religioni sono sopravvissute a questo cambiamento radicale lo hanno fatto modificando radicalmente il loro statuto (…): se prima strutturavano la comunità, ora sono sempre più religioni dell’individuo e appartengono alla sfera delle convinzioni personali». Poco oltre, si afferma che in tal modo, nella modernità attuale in cui questo processo sta com- piendosi, «la democrazia, in altri termini, ha metafisicamente vinto».2

Il taglio dell’analisi è – come si vede – comprensibilmente molto francese, ma su questo punto occorrerà tornare. Sarebbe infatti erroneo trarne, a seguire l’autore, una prognosi di automatico trionfo, in prospettiva, dell’irreligiosità come tale, secondo la linea di pensiero che ispira oltralpe altrettanto note riflessioni.3

Lo scrittore che qui si sta analizzando, infatti, elenca fenomeni come l’attuale «ritirarsi delle pratiche, l’indebolirsi del magistero, la marginalizzazione delle Chiese cristiane (di tutte le confessioni), (…), lo spezzettarsi delle credenze tra il bricolage di fedeli muniti della buona volontà di conformarsi ai precetti (ma indisponibili a lasciarsi facilmente convincere dagli apparati dell’ortodossia), l’adesione settaria o la ricerca spirituale senza confini», ma precisa altresì subito che la scissione del “religioso” dalla sua tradizionale e storica funzione legittimante dell’ordine politico (per riassumere qui con una formula breve un discorso complesso), «inaugura una nuova età della religione», manifestandosi insomma oggi pienamente le condizioni per le quali essa potrebbe divenire una ricerca più intima, perciò più libera e meno strumentale rispetto a cure mondane. In un altro saggio della medesima raccolta,4 egli muove dalla registrazione di un apparente paradosso: «Da un lato, siamo testimoni di un’accelerazione del processo di uscita dalla religione [ma nei termini sopra riassunti, n.d.a.]; dall’altro, assistiamo ad una nuova legittimazione del discorso religioso e della preoccupazione spirituale nello spazio pubblico».

Per Gauchet, i fondamentalismi – dei quali quello costituito da frazioni notevoli dell’universo spirituale musulmano non è certo l’unico, giacché l’integralismo è un modo di sentire che può nascondersi in ogni fede e in qualunque sistema di pensiero, ma è certamente oggi in quello specifico ambito molto evidente – esprimono in particolare una sorta di reazione alla modernità, che peraltro non esclude l’«appropriazione ostile» dei suoi strumenti (giustamente, egli osserva altrove5 come «tali movimenti siano spesso animati da tecnici, ingegneri o scienziati, ossia personalità formate dalla razionalità occidentale e che più di altri sentono il bisogno di riutilizzare gli strumenti di cui dispongono per fondare nella religione nuove comunità di senso»). La pretesa a un’intensa presenza pubblica di organizzazioni di una «fede sempre più privatizzata », che ritorna palese anche nell’Occidente secolarizzato e per altri sistemi di fedi e organizzazioni religiose, si alimenta comunque del «completo fallimento delle sue più recenti incarnazioni: le religioni secolari».6 Per Gauchet, al contrario che nel passato, «oggi (…) ci si definisce a partire dall’appropriazione soggettiva di appartenenze e identità private con l’obbiettivo di elevare queste ultime a parti integranti dell’insieme sociale».

Può osservarsi, per chiosare questo punto cruciale sul piano del diritto costituzionale, che l’asse del discorso si è dunque spostato dall’astratta rivendicazione liberale dell’uguaglianza senza distinzione (tra l’altro) di religione, di cui all’articolo 3 comma 1 della Carta fondamentale italiana, all’esaltazione delle differenze, condotta proprio in nome di una fede.

Basta in realtà spostare lo sguardo, per rileggere in questa chiave il principio di uguaglianza formale. Se invero, come insegna la giurisprudenza costituzionale, esso impone – innanzitutto, ma non solo, al legislatore – trattamenti uguali per situazioni uguali, constatare un’eventuale differenza sostanziale tra segmenti di rapporti sociali come si presentano nella realtà porta ad accettare, se non addirittura a imporre, la legittimità di regimi differenziati che li disciplinano. Non altrimenti, ad esempio, si è progressivamente – seppure con qualche fatica – venuto incorporando negli ordinamenti democratici il favore verso le azioni positive, di razza, etniche o di genere.7

Lo Stato democratico è tuttavia laico proprio perché resta neutrale rispetto a tali differenze (e perciò alle esigenze o alle etiche particolari che le sorreggono) e ne arbitra il confronto, impedendo che divenga scontro distruttivo dell’ordine sociopolitico. Secondo Gauchet, tuttavia, non v’è motivo di ritenere fondata la «preoccupazione dei laici più intransigenti », perché «le identità, comprese quelle religiose, non si battono per separarsi dall’insieme, ma per contarvi di più» e «le ‘comunità’ non ci fanno ripiombare in un’antica forma di olismo». Proprio il riconoscimento del pluralismo sociale che fonda la loro presenza pubblica, costringendole alla relazione con altre consimili, impedisce o comunque attenua insomma questo rischio. La con- clusione generalizzante e forse troppo ottimistica che egli trae dall’osservazione di tale processo è dunque che «l’inquietudine morale e spirituale che attraversa le nostre società, c’è da star tranquilli, non ci espone ad alcun pericolo clericale». Fin qui le riflessioni dell’autore francese, sul cui pensiero ci si è dilungati, anche attraverso le riportate citazioni letterali, perché egli è forse da noi meno noto di altri che affrontano la stessa tematica (e verranno comunque ricordati oltre) presso il pubblico più ampio delle persone di cultura, ma che non appartengono alla cerchia ristretta degli “addetti ai lavori”.

Come si diceva prima, si tratta di uno studioso molto “francese”. Egli lo è però in un senso particolare e infatti lui stesso si dice consapevole dell’eco minoritaria della sua voce entro quell’ambito. Intanto, la sua analisi ambisce a essere descrittiva, mentre altre che incrociano la sua stessa strada sono deliberatamente normative. In secondo luogo, proprio per effetto di siffatta ambizione di pura registrazione di eventi e di tendenze epocali, egli non trae dalla constatazione della «privatizzazione delle fedi» la conseguenza che così appunto deve essere, ponendosi dunque in disaccordo con la prevalente tendenza del dibattito del suo paese, nel quale ad esempio il rifiuto della presenza a scuola del velo islamico o di altri simboli identitari (quantomeno in forme non discrete) si accompagna all’apologia dello spirito repubblicano, che esso solo ha funzione integratrice. Di quest’ultimo, anzi, si rileva con freddezza analitica l’indebolimento, osservandosi come «nella morale dispensata dalla scuola il primo a sparire è stato proprio l’insegnamento dell’educazione civica» e interrogandosi, con una domanda in realtà retorica e perfino beffarda, sul se «possiamo oggi prendere sul serio il tono guerriero della Marsigliese» e sul se l’antico «‘morire per la patria’, (…) garanzia di una profonda dedizione alla cosa pubblica» possa oggi venire trasposto in un altrettanto mobilitante “morire per l’Europa”.8

In sostanza, cioè, Gauchet non è deliberatamente normativo, come lo sono invece Jürgen Habermas e John Rawls, tanto per richiamare studiosi che – dal filone del pensiero marxista critico o del liberalismo contemporaneo – ne incrociano la medesima problematica, affidando la neutralizzazione dei conflitti culturali, ideali e appunto di fedi rispet- tivamente alle virtù dell’«agire comunicativo orientato all’intesa» o al «consenso per intersezione» fra attori razionali. L’attitudine normativa del pensiero del filosofo di Francoforte, come di quello statunitense, sono in verità evidenti.

Nell’intervista con Bert van den Brink, oggi pubblicata nel volume che raccoglie in italiano una serie di dibattiti seguiti alla pubblicazione di “Faktizität und Geltung”, il primo è molto chiaro nel sostenere che «di fronte alla varietà degli interessi in contrasto e al pluralismo delle forme di vita, l’integrazione sociale non può più realizzarsi da sola, e comunque non abbastanza sulla base dei processi formali d’intesa, in quanto viene a mancare lo sfondo di un comune mondo di vita. Le società moderne devono integrarsi su un piano più astratto». Tale funzione, di «mediazione sociale tra la fattualità e la validità» è da lui assegnata al diritto, che così realizza l’auspicata «solidarietà tra estranei».9

Quanto al pensiero di Rawls, è illuminante quel passo di un suo celebre saggio che chiarisce come l’overlapping consensus sulla costruzione di un assetto istituzionale condiviso si colloca all’intersezione tra soggetti portatori di visioni ideali e pratiche diverse. «Entro un simile consenso, le dottrine ragionevoli fanno propria, ciascuna dal suo punto di vista, la concezione politica. L’unità sociale si basa su un consenso intorno alla concezione politica; la stabilità è possibile quando le dottrine che compongono questo consenso sono affermate dai cittadini politicamente attivi e il conflitto tra i requisiti della giustizia e gli interessi essenziali dei cittadini, creati e incoraggiati dai loro assetti sociali, non è troppo acuto».10

È ultroneo qui intrattenersi sulle differenze tra le due ricostruzioni. Si è notato come Habermas, in effetti, «concede a Dio più di quanto» non faccia lo studioso di Baltimora e cioè sia più aperto di lui a convenire sull’apporto che sensibilità fideisticamente orientate possono dare alla costruzione della democrazia, purché “traducano” i loro dogmi in un linguaggio che le comunichi all’esterno degli adepti, alla società più ampiamente considerata.11 Nondimeno, tanto l’azione orientata all’intesa, quanto il consenso tra attori ragionevoli come presupposto di un assetto istituzionale condiviso in un contesto multiculturale, manifestano – in un’ottica complessivamente liberale – il rifiuto netto di atteggiamenti pratici ispirati a condotte integralistiche, che evidentemente sarebbero incompatibili con tali premesse.

Un panorama dell’attuale situazione italiana

Tornando a Gauchet, è opportuno notare anzitutto che le sue osservazioni (benché ovviamente radicate nella sua cultura nazionale) hanno una portata nelle intenzioni non circoscritta a un unico paese. Diverso però è il modo di porsi del problema nell’originaria costruzione – di ispirazione puritana – e negli sviluppi successivi della democrazia statunitense, com’era ben chiaro già a Tocqueville e di cui lo stesso Gauchet è consapevole, al punto da scrivere di un’apparente «eccezione americana», pur concludendo sul punto che «nonostante tutto, e in particolare malgrado l’assenza di un’ostilità frontale tra politica e religione, il caso americano appartiene, anche se con percorsi diversi, alla stessa griglia di analisi della modernità europea: il sentimento vivo della propria fede da parte degli attori non esclude affatto il carattere rigorosamente profano della loro organizzazione politica».12

Quelle parole potrebbero quindi estendersi anche all’Italia, perché analoga (anche se forse più grave) è la crisi che ha investito lo spirito pubblico e la vita istituzionale italiani.

Gauchet infatti annota, in estrema sintesi, che lo Stato e la politica hanno dovunque perso il senso della propria missione di proiezione della comunità nazionale verso il futuro e sono perciò costretti – secondo alcuni – a mutuarlo da un ethos unificante esterno al dato giuridico, come può essere quello religioso.13 Questa è appunto la sostanza di una polemica che in Italia ha di recente contrapposto, com’è noto, Ernst Wolfgang Böckenförde, che ritiene inevitabile per l’ordinamento giuridico questo sovrappiù di apporto assiologico dall’esterno, e Gustavo Zagrebelsky, che gli ha replicato sottolineando il valore unificante della Costituzione pluralista come unico terreno comune possibile per la fondazione della convivenza collettiva.14 La tesi del costituzionalista torinese appare in teoria corretta, ma ci sembra che in concreto debba fare i conti con un «patriottismo costituzionale» italiano che resta tuttora meno intenso, nonostan- te la formale rilegittimazione che la Carta fondamentale ha indubbiamente ricevuto dall’esito del referendum costituzionale del 2006.15

In ogni caso, è quantomeno più confortante per la Francia affrontare questo nodo sulla scorta di una tradizione repubblicana più evocativa della nostra – avendo essa alla base gli immortali principi del 1789 – e di istituzioni governanti indubbiamente meno deboli di quelle italiane. Ancorché esse non siano oggi esenti da proposte riformatrici, accolte in commissioni istituite per iniziativa dello stesso presidente Sarkozy e frutto del vento dell’autocritica, che da noi invece spira forte – ma in modo finora inconcludente e comunque con esiti assai parziali e soprattutto non condivisi – da almeno vent’anni.

Un ulteriore elemento di debolezza per l’Italia è costituito a ben vedere dalla scomparsa della Democrazia Cristiana. Paradossalmente, infatti – quando il partito di riferimento dei cattolici era presente e saldamente attestato al centro dello schieramento politico, in modo tale da non poter essere pretermesso da nessuna coalizione di governo nazionale – questo assetto, di volta in volta, rassicurava la Chiesa o, in altri casi, ne arginava e ammortizzava le possibili esorbitanze istituzionali dagli argini scolpiti nell’articolo 7 della Costituzione, più di quanto non accada – visibilmente – oggi.16 La stessa nuova articolazione del sistema politico non appare sotto questo aspetto rassicurante. Essa prova a rifondarsi in prospettiva su due ampi contenitori prevalenti ma dall’identità ideale debole, perché alla fase delle coalizioni rissose e disomogenee possa succedere quella dei partiti-coalizione, attraversati questa volta ciascuno al suo interno da fratture sui valori apparentemente insanabili e non facilmente mediabili.

La tendenza, che per ora può solo intravedersi, consentirà infatti, presumibilmente, a quanti assumono atteggiamenti oltranzisti in seno alla variegata identità e temperie della comunità cattolica, ovvero fornendo loro un supporto a essi esterno nell’ambito della formazione e della rappresentanza dell’opinione pubblica (“atei devoti”, “teocon” e via elencando), di spalmare le opportune pressioni su larga parte di un arco politico-partitico, che diverrà giocoforza ancor più catch-all di quanto già in precedenza non fosse.

Sintomatici di questa atmosfera sono molti aspetti dell’attuale dibattito su fondamentali pro- blematiche bioetiche. Le posizioni ispirate (o comunque sensibili) alla morale cattolica sono vivacemente rappresentate nel dibattito politico – e aggressivamente praticate nel lobbying su Parlamento e governo – intorno a normative già introdotte e di cui esse auspicano rispettivamente la revisione in senso restrittivo (in tema di aborto) o il mantenimento nel testo attuale (in tema di fecondazione medicalmente assistita), ovvero rispetto a quelle norme che le Camere appena sciolte stavano elaborando a proposito di testamento biologico e di diritti delle persone all’interno di unioni di fatto. Da ultimo, si è levato da quest’area culturale l’invito all’obiezione di coscienza, che si suggerisce dovere essere sistematicamente praticata da quei cattolici che si trovino ad applicare (anche nell’esercizio di funzioni pubbliche o di servizi alla collettività, come quelli farmaceutici, con il possibile rifiuto a chi la richieda della cosiddetta “pillola del giorno dopo”) leggi dello Stato in assunto contrasto coi dettami della morale naturale. Da una forza politica a single issue, dotata di un profilo programmatico che si dichiara “a favore della vita” fin dal suo concepimento, è stato poi avanzato l’invito ad assimilare alla campagna internazionale per la moratoria sulla pena di morte – indirizzata alle Nazioni Unite e riuscita vittoriosa – un’analoga iniziativa, che mira appunto a bandire in ogni caso interruzioni di gravidanza.

Le conclusioni rasserenanti del sociologo francese che si sono sopra ricordate, a proposito del basso rischio di revanches clericali, non possono dunque essere automaticamente condivise da un osservatore italiano della realtà odierna e del suo prevedibile, immediato futuro. Il quadro che si viene tracciando va peraltro completato, ricordando sinteticamente (e giocoforza selezionando un altrimenti troppo esteso materiale di riflessione) quanto è intervenuto negli anni, sul piano dell’emersione giurisprudenziale di problematiche relative alla tutela dei diritti e su quello delle realizzazioni istituzionali (preparate senza finora avere esito o già concretizzatesi) sul fronte della convivenza tra etnie e culture diverse, che si palesano tali identificandosi anche e soprattutto per la differenza di radici religiose o comunque di atteggiamenti relativi alla fede.

Sotto questo profilo, è noto – almeno a grandi linee – anche al più largo pubblico di chi non col- tiva professionalmente il diritto e che ha potuto trarre informazioni dall’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa al riguardo, l’esito della battaglia ideale sull’esposizione dei simboli religiosi nelle scuole.

Dopo un’iniziale vittoria giudiziaria del ricorrente musulmano Adel Smith in sede cautelare, che ottenne perciò la defissione del crocefisso dalle aule dell’istituto statale comprensivo frequentato dai figli, in nome della loro e della propria libertà religiosa (e quanto a lui educativa), il Tribunale ordinario dell’Aquila declinò nel merito la propria giurisdizione. Approdata dunque la questione al giudice amministrativo, il TAR Veneto – adito da una genitrice agnostica originaria di un paese scandinavo – la rimise in via incidentale alla Corte costituzionale, che se ne liberò però in limine, essendo l’elencazione dei simboli opponibili nelle aule oggetto di un regolamento. Questo impose dunque all’organo di giustizia costituzionale una pronunzia di manifesta inammissibilità, limitandosi la propria competenza al sindacato sulle sole leggi e sugli atti aventi forza di legge.

Chiamato infine a pronunziarsi nel merito, quel giudice amministrativo ritenne che l’affermazione del principio di laicità dello Stato (che in Italia non è del resto testualmente costituzionalizzato in modo esplicito, al punto che in dottrina si era dubitato che esso fosse identificabile per altra via nell’ordinamento, ma è stato invece ed appunto estrapolato – dalla notissima sentenza 203/1989 della Consulta – attraverso un’interpretazione sistematica della Carta fondamentale) non collidesse con l’esposizione in aula del crocefisso, ma che addirittura da essa fosse esaltata e altrettanto fece il Consiglio di Stato, confermando in sede di appello la decisione.17

Questa vicenda ha innescato, lungo tutto il suo dipanarsi, un amplissimo e raffinato dibattito tra tecnici e opinionisti, che ha esibito tutta la varietà di scelte che in materia potessero escogitarsi. Ci si è mossi, in definitiva, tra la propensione di alcuni verso una soluzione ispirata alla “laicità per defissione” di tutti i simboli dalle pareti delle aule scolastiche (secondo il modello francese), l’opposta preferenza di altri verso una “laicità per affissione” e la ricerca – da parte di altri ancora – di un compromesso che valorizzasse la scelta spontanea, in merito, di qualsivoglia classe, in nome delle apertu- re all’autonomia scolastica desumibili dall’articolo 117 della Costituzione (riecheggiando pertanto il modello bavarese).

Allo stato, è il giudice amministrativo – nel senso di ciascun collegio nella propria garantita autonomia di giudizio, salvo l’eventuale e meno scomodo ossequio acritico al precedente – che si trova a dover decidere, per ogni caso futuro che si presentasse, su questa spinosa questione, in attesa di un possibile intervento del legislatore che faccia chiarezza in via generale.18

Il legislatore nazionale, in effetti, viene chiamato in causa su queste tematiche anche in ragione di sperati interventi di rilievo meno evidente sul piano simbolico, ma che investono profondamente l’ambito dell’intera materia della libertà religiosa. Va ricordata in premessa l’architettura complessiva della Costituzione al riguardo. La base della costruzione è certamente l’ampio riconoscimento della libertà religiosa in forma singola o associata, nonché della facoltà di proselitismo e di esercizio pubblico o privato del culto (articolo 19), salvo il limite del buon costume e l’immunità da speciali limitazioni legislative e oneri fiscali che s’intendesse imporre ad associazioni o istituzioni in ragione del loro carattere ecclesiastico o del fine di religione o culto (articolo 20). Si tratta invero della specificazione ad locum di dichiarazioni di principio circa il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona (articolo 2) e dell’eguaglianza dei cittadini senza distinzione – tra l’altro – di religione (articolo 3 comma 1).

L’assetto dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica riceve – in ragione della peculiare tradizione culturale e della storia politica e istituzionale del paese – una disciplina differenziata rispetto alle relazioni del primo con le altre confessioni religiose: Chiesa e Stato sono, ciascuno nel proprio ordine e quanto ai reciproci rapporti, indipendenti e sovrani (ex articolo 7 comma 1); le loro relazioni sono disciplinate dai Patti lateranensi e quindi essenzialmente da un Concordato, vale a dire da un trattato internazionale seguito dal relativo ordine di esecuzione nell’ordinamento interno e solo le eventuali modificazioni unilaterali da parte statale di questa disciplina implicano revisione costituzionale (ex articolo 7 comma 2).

Su un piano per così dire intermedio si pone la disciplina dei rapporti con le organizzazioni espo- nenziali dei culti diversi da quello cattolico. Tutte egualmente libere in linea di principio davanti alla legge (articolo 8 comma 1), esse sono titolari di un diritto all’autonomia statutaria e alla non ingerenza da parte dello Stato, fermo il non contrasto con l’ordinamento giuridico generale. Inoltre esse regolano ordinariamente i loro rapporti con lo Stato su base di intese (alle quali però né il primo, né esse stesse sono obbligate ad accedere), che sono atti di diritto interno, tradotti dalle Camere – per iniziativa del governo (competente a gestire detti rapporti ex articolo 2 comma 2 lettera e) della legge 400/1988) – in leggi rinforzate, in teoria vincolate a recepirne almeno la sostanza, ma in pratica consistite – salvo il caso iniziale dell’Intesa con la Tavola valdese (che impegna per loro patto federativo interno anche la Chiesa metodista) – nella mera riproduzione formale delle medesime nel testo della legge stessa.

Con l’evoluzione dei tempi rispetto all’epoca dell’entrata in vigore della Costituzione, lo strumento delle intese e quello concordatario (revisionato da un accordo del 1984, che ha modificato dopo un’attesa di quasi cinquant’anni l’originario testo del 1929, eliminandone le discrasie più stridenti con l’ordinamento democratico sopravvenuto) si sono venuti avvicinando nella sostanza, ferma la rispettiva diversità di natura giuridica. Le prime infatti – sei delle quali sono state tradotte dal 1984 in legge, mentre altre cinque sono già state stipulate e attendono il varo delle Camere – hanno visto il loro procedimento di adozione e di eventuale revisione, nonché il contenuto essenziale e la posizione particolare della legge che le recepisce nel rango delle fonti esemplarsi proprio sulla struttura e sul modello concordatario, il che «ha contribuito ad elevare le intese ad un livello molto vicino a quello del Concordato».19 In sostanza, fermo restando il doppio binario dei rapporti tra la confessione religiosa cattolica e quelle acattoliche, minimo comune denominatore ne è il tratto della bilateralità della disciplina.

Permane al momento rimessa alla disciplina di una legge generale – che taluna dottrina, ma anche alcuni politici giudicano peraltro ultronea, in presenza delle garanzie costituzionali di base prima rammentate – la condizione delle confessioni che non vogliano o non possano, per indisponibilità della controparte statale, accedere all’intesa. Rimane invece minoritaria, ancorché battagliera, la sopravvivenza di circoli di opinione pubblica che tuttora mantengono alta la bandiera dell’abrogazione proprio del Concordato, ovvero della legge che vi dà esecuzione. Tale obbiettivo viene periodicamente riproposto per reazione agli ormai continui interventi ecclesiastici negli affari civili e politici dei quali si diceva prima, ma resta allo stato del tutto fuori da un orizzonte realisticamente praticabile: la Chiesa cattolica non appare certo disposta a rinunciare alle garanzie concordatarie, ancorché questi strumenti siano stati storicamente rivendicati – e le vicende del nostro paese non fanno eccezione, ma danno conferma del giudizio – come possibili argini alle intrusioni dei regimi autoritari nell’organizzazione e nella vita delle organizzazioni ecclesiastiche, mentre si palesa problematica la loro sopravvivenza in un contesto caratterizzato da principi costituzionali saldamente liberali e dalla mancanza di ostacoli rilevanti all’effettivo esercizio concreto della libertà religiosa.

Il punto veramente dolente, comunque, è che resta tuttora in vigore la legge 1159/1929 sui “culti ammessi” (coeva quindi alla chiusura concordataria della “questione romana”), che – come già evidenzia la sua stessa denominazione – andrebbe invece rapidamente superata, perché esprime un assetto assiologico e organizzativo decisamente incoerente coi principi costituzionali, che vanno per di più non solo applicati, ma reinterpretati e in tal modo adattati alle esigenze odierne, anch’esse diverse da quelle che erano presenti nella società italiana alla metà del secolo scorso.

Ecco dunque che torna a farsi urgente l’istanza di una nuova e democratica legge di settore, pur considerando la riserva di cui appena sopra si diceva e secondo la quale basta all’uopo il diritto di libertà religiosa, come riconosciuto già oggi nella Carta fondamentale. Tesi alla quale si può peraltro replicare che ai giudici e alle amministrazioni occorre pur fornire una guida normativa ulteriore, per ridurre il rischio di contrasti interpretativi troppo laceranti.

Essa dovrebbe essere in realtà trasversale e leggera, cioè appunto di principi: le manifestazioni di fede religiosa non possono infatti essere, a rigore, circoscritte e confinate in una materia specifica e disciplinate in guisa troppo stringente, ma devono ragionevolmente rifluire al più in una sor- ta di materia allargata – sul tipo di quelle che la Corte costituzionale individua nel riparto di competenze tra Stato e Regioni – lasciando all’auto-organizzazione individuale e della specifica comunità intermedia interessata (titolare in quanto tale di diritti e obbligata all’osservanza di doveri, ex articolo 2 della Costituzione) la regolazione dettagliata delle fattispecie.

A questa legge lavora invero da tempo (ben tre legislature, ormai) il Parlamento italiano,20 ma – nonostante una lunga e fruttuosa elaborazione, passata nella commissione competente (la Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati) attraverso ripetute audizioni di esperti, nonché di personalità che esprimono gli interessi delle diverse confessioni e organizzazioni religiose – non si è ancora riusciti a vararla e riprendere questa fatica sarà ormai compito delle nuove Camere appena elette.

Le resistenze all’approvazione definitiva di un testo in materia sono venute tanto dalla Chiesa cattolica, restia ad abbandonare l’assetto privilegiato che il sistema attuale dei rapporti tra ordinamento giuridico e organizzazioni di fede continua ad assicurarle, quanto da forze politiche che si oppongono alla penetrazione specialmente islamica in Italia (giacché a questo fenomeno siamo in effetti e da tempo di fronte) in nome della necessità, da loro sottolineata con molto vigore e talora con clamore, di ribadire e difendere l’identità religiosa nazionale, come tradizionalmente ricevuta.

In ogni caso, il quadro che finora è stato tracciato non potrebbe dirsi completo (seppure nella consapevolezza di chi scrive che si è proceduto a indicarne solo i tratti generali), se non si ricordasse che – inceppatasi la mediazione legislativa anche su questo tema – i governi italiani hanno provveduto ad apprestare con loro atti organismi consultivi di concertazione di politiche pubbliche e di decisioni di indirizzo, configurati come sedi istituzionali di raccordo e discussione con le organizzazioni religiose.

Si tratta di una tendenza palesemente funzionale all’integrazione soprattutto dell’Islam (a permettere e favorire in sostanza l’emersione e il consolidamento di un “Islam italiano” dialogante, com’è stato detto), che specialmente dopo l’11 settembre 2001 si è variamente manifestata in molti ordinamenti occidentali. Da questo punto di vista, tanto il governo di centrodestra (ministro dell’Interno Pisanu, decreto ministeriale 10 settembre 2005), con la Consulta per l’Islam italiano, quanto quello di centrosinistra (ministro dell’Interno Amato, decreto ministeriale 23 aprile 2007), con la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, hanno perseguito un obbiettivo largamente comune e bipartisan. A fronte di riserve sulla legittimità costituzionale di simili strutture (giacché di emanazione governativa e quindi di maggioranza), va sottolineato come esse non sembrano dare luogo a dubbi di tale natura, sempre che risultino ovviamente accertate ed effettive la qualificazione e l’autorevolezza dei soggetti chiamati a comporle, rispetto alle comunità immigrate che li esprimono e se i loro compiti restino – come oggi in effetti sono – di studio, di consultazione, di parere, di proposta e di comunicazione interculturale e interreligiosa, senza espropriare delle loro competenze organi costituzionali e più in generale istituzionali dello Stato italiano.21

Tra la via dell’assimilazione assiologica, che non ha evitato alla Francia la rivolta delle banlieues parigine, e quella della valorizzazione delle sfere di autonomia organizzativa e di valori delle varie comunità etnico-religiose – anch’essa rilevatasi ormai non priva di criticità, per come applicata a Londra e ad Amsterdam – la possibile terza via italiana fa in sostanza centro sul rapporto tra riconoscimento dei diritti inviolabili delle comunità (e però anche dei singoli entro di esse, ove confliggessero con quelli delle prime) e richiesta di adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, come chiave per legittimare l’eguaglianza religiosa in un’ottica di differenze, secondo l’indicazione testualmente ricavabile dal combinato disposto dei principi fondamentali di cui agli articoli 2 e 3 comma 1, della Carta costituzionale.

 

[1] M. Gauchet, Un mondo disincantato? Tra laicismo e riflusso clericale, Dedalo, Bari 2008. Tutte le citazioni dell’autore che seguono si intendono riferite a questo testo. La sua opera più famosa e che ha appunto originato la discussione sulle tesi da lui esposte, è peraltro Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992.

[2] Gauchet, Religione, etica e democrazia, in Gauchet, Un mondo disincantato? cit., pp. 120 sgg.

[3] Si vedano, a mero titolo di esempio, G. Minois, Storia dell’ateismo, Editori Riuniti, Roma 2003, o M. Onfray, Trattato di ateologia, Fazi, Roma 2005. Nella più recente letteratura anglosassone ha avuto molto successo R. Dawkins, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2007. Tra gli attuali vessilliferi di tali posizioni in Italia, P. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Longanesi, Milano 2007 e P. Flores d’Arcais, in P. Flores d’Arcais, M. Onfray, G. Vattimo, Atei o credenti? Filosofia, politica, etica, scienza, Fazi, Roma 2007.

[4] Gauchet, Neutralità, pluralismo, identità. Le religioni nello spazio pubblico democratico, in Gauchet, Un mondo disincantato? cit., pp. 133-44.

[5] Gauchet, Il significato storico dei fondamentalismi, in Gauchet, Un mondo disincantato? cit., p. 111.

[6] Gauchet, Neutralità, pluralismo, identità cit., p. 136.

[7] Un’accurata e problematica analisi recente di posizioni (teoriche e giuridiche e sotto questo profilo tanto dottrinali, quanto giurisprudenziali) intorno a questo nodo teorico centrale, che ne riconnette giustamente la dimensione attuale all’«assalto del multiculturalismo» e approda all’identificazione di una più ricca «laicità pluralista come norma di riconoscimento » è svolta da N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 19-53.

[8] Gauchet, Religione civile, fede comune e morale civica, in Gauchet, Un mondo disincantato? cit., pp. 145-56.

[9] J. Habermas, Solidarietà tra estranei. Interventi su “Fatti e norme”, Guerini e Associati, Milano 1997, pp. 142 sgg.

[10] J. Rawls, Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 123.

[11] S. Prisco, Il valore della laicità e il senso della Storia, in Laicità. Un percorso di riflessione, Giappichelli, Torino 2007, pp. 39-50, e Laicità e convivenza: un ponte per un incontro, in F. Bilancia, F. M. Di Sciullo, F. Rimoli (a cura di), Paura dell’Altro. Identità occidentale e cittadinanza, Carocci editore, Roma 2008, pp. 253-62.

[12] Gauchet, La dinamica moderna, in Gauchet, Un mondo disincantato? cit., pp. 63-69.

[13] Ivi, p. 148.

[14] Per i documenti e per l’approfondimento di questo dibattito, si veda Prisco, Laicità e convivenza cit.

[15] Sull’effetto novativo del patto costituzionale, in senso giuridico e politico, seguito al referendum costituzionale del 2006 sulla Parte II della Costituzione, si legga G. Ferrara, Attuare la Costituzione, 5 luglio 2006, disponibile su www.costituzionalismo.it.

[16] Una valutazione conforme a questa è anche del costituzionalista cattolico L. Elia, Introduzione ai problemi della laicità, relazione generale presentata al convegno Problemi della laicità agli inizi del secolo XXI, Napoli, 26-27 ottobre 2007, disponibile su www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[17] Per la ricostruzione della quérelle, si veda Prisco, La laicità e i suoi contesti storici. Modelli socio-culturali e realtà istituzionali a confronto, in Laicità. Un percorso di riflessione cit., pp. 1-20.

[18] Ulteriori svolgimenti di chi scrive e richiami bibliografici in Prisco, Il valore della laicità cit. Si veda inoltre – tra i molti possibili – P. Cavana, I segni della discordia. Laicità e simboli religiosi in Francia, Giappichelli, Torino 2004.

[19] Si segue per questa ricostruzione la rapida – ma chiara, penetrante e aggiornata – sintesi di C. Cardia, Intese (dir. eccl.), in Il Diritto. Enciclopedia giuridica del “Sole 24 Ore”, vol. 8, Milano 2007, pp. 229-39.

[20] Si vedano, in merito, i saggi e la documentazione contenuti in G. Leziroli (a cura di), Dalla legge sui culti ammessi al progetto di legge sulla libertà religiosa (1 marzo 2002), Atti del convegno di Ferrara, 25-26 ottobre 2001, Jovene, Napoli 2004; C. Morandi (a cura di ), La libertà di religione in Italia, in “Quaderni del Circolo Rosselli”, 1/2002; e P. Naso (a cura di), Per una legge sulla libertà religiosa, in “Quaderni del Circolo Rosselli”, 1/2007.

[21] G. M. Salerno, Alla ricerca dell’identità tra legge e Costituzione, in Bilancia, Di Sciullo, Rimoli (a cura di) Paura dell’altro, cit., pp. 201-16. La Carta dei valori è stata pubblicata dal ministero dell’Interno in un apposito opuscolo plurilingue, da diffondere nelle comunità immigrate, che reca una prefazione di Giuliano Amato e l’introduzione e il commento di Carlo Cardia, già presidente del Comitato scientifico che l’ha redatta e oggi del Consiglio scientifico incaricato di proporre iniziative per la sua diffusione, anche attraverso la cooperazione con esponenti e organizzazioni del mondo dell’immigrazione che l’abbiano sottoscritta. Si segnala che, in ordine ai temi del presente scritto, si è tenuto il 29 febbraio e il 1 marzo 2008 a Gallipoli, per iniziativa dell’amministrazione cittadina e delle facoltà di Giurisprudenza delle Università di Bari e del Salento, un convegno su “Libertà religiosa e multiculturalismo”, con relazioni di Giuseppe Dalla Torre e Giuseppe Casuscelli, introdotti e moderati da Vincenzo Tondi della Mura e una tavola rotonda – moderata e conclusa da Raffaele Coppola – con interventi di Giuseppe Verde, Massimo Papa, Michele Lepri Gallerano e di chi scrive. I relativi atti sono in corso di pubblicazione.