Concertazione

Di Mimmo Carrieri Lunedì 14 Luglio 2014 10:50 Stampa

Ancora di recente parlare di “concertazione” ha significato evocare una scelta divisiva tra nostalgici e avversari. Ma cosa vuol dire esattamente questa parola e perché suscita in modo ripetuto questo ventaglio di controversie? Concertazione rinvia nel senso comune a un accordo tra diversi, che cercano – come in un’orchestra – di trovare una sincronia e una sintesi: non facili e che comunque non erano in precedenza scontate. Nel linguaggio sindacale e delle relazioni industriali la concertazione ha designato gli accordi tra i governi e le parti sociali.

Dunque, uno strumento ben preciso e nitidamente distinto da quello della contrattazione, che viene classicamente adottata nelle questioni di lavoro. In effetti, quest’ultima è di natura generalmente bilaterale, perché riguarda i sindacati e i datori di lavoro e ha come oggetto la regolazione delle condizioni di lavoro (salari, orari, turni ecc.). Quella invece – la concertazione – ha un impianto almeno trilaterale: essa, infatti, richiede che accanto alle parti sociali – le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro – intervengano attivamente anche i soggetti politico-istituzionali (che a livello nazionale sono in primo luogo i governi). E lo richiede di necessità, in quanto le materie di cui si occupa hanno una portata più ampia e generale: politiche dei redditi, politiche sociali, occupazione e mercato del lavoro, ma anche altre.

Possiamo, dunque, considerare la concertazione come un processo di decisioni congiunto su politiche pubbliche di varia natura, ma certamente rilevanti, che assegna un ruolo importante ad attori privati selezionati, quali sono in primo luogo le grandi organizzazioni di rappresentanza sociale. Ma perché appare necessario ricorrere al concorso decisionale di questi attori, invece di seguire la via classica – quella delle tradizionali democrazie liberali – imperniata solo sui soggetti che incarnano la volontà popolare (Parlamenti e governi)? Le ragioni che hanno spinto in passato in questa direzione sono almeno tre. La prima riguarda il peso rappresentativo crescente dei sindacati nel Novecento, che consigliava ai governi di venire a patti con loro (e con l’insieme delle parti sociali) con lo scopo di mantenere un adeguato consenso sociale. La seconda consiste nell’ipotesi – a lungo suffragata da verifiche empiriche, almeno in relazione ad alcuni paesi – che questo processo assicurasse non solo maggiore sostegno sociale alle decisioni, ma anche una loro efficacia pratica decisamente più elevata, così facilitando effetti positivi sulle principali grandezze economiche (crescita, occupazione, inflazione). La terza si traduce nella possibilità di dare vita per questa strada a un circuito decisionale specializzato nei suoi partecipanti (le grandi organizzazioni sociali) e nei suoi oggetti (nodi socioeconomici cruciali): un circuito che assicuri il raccordo con l’attività dei Parlamenti, a cui si affianca e che integra, garantendo una adeguata istruttoria in relazione a un ampio segmento di materie rilevanti.

È stata un’invenzione italiana, come qualcuno suggerisce? L’invenzione – se c’è – è di natura più lessicale che sostanziale. La parola “concertazione” non è usata in genere in altri paesi, dove si preferiscono altre formulazioni equivalenti: accordi trilaterali, patti sociali ecc. Ma queste intese tra governi e parti sociali hanno una lunga storia nei paesi dell’Europa centrale e settentrionale, ben prima che all’interno delle nostre relazioni industriali. Già almeno dagli anni Trenta del Novecento in Svezia e in altri paesi scandinavi sono stati elaborati – e spesso considerati “fondamentali” per la loro rilevanza regolativa – accordi ascrivibili a questa tipologia. La loro importanza è stata enfatizzata da molti studiosi – i quali parlavano di assetti “neo-corporativi” – negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo per sottolineare come essi abbiano contribuito in modo decisivo a migliorare le performance economiche e sociali dei paesi che li adottavano: i quali apparivano meglio corazzati di fronte alle sfide della bassa crescita e dell’alta inflazione emerse negli anni della crisi del fordismo e del keynesismo.

Nella realtà italiana l’aggancio a questo treno arriva solo negli anni Novanta, ma all’interno di un quadro in cui tendenze analoghe si manifestavano anche in altri paesi (si è infatti parlato di “patti sociali europei”). Il momento più alto della concertazione italiana è stato il Protocollo sulla politica dei redditi e sull’inflazione programmata promosso da Ciampi e Giugni nel luglio 1993. Un accordo sulle regole del gioco in materia di contrattazione e relazioni industriali che ha dato un contributo determinante al controllo dell’inflazione, ma che ha anche reso possibile il raddrizzamento dei conti pubblici italiani nella prospettiva dell’euro. Altri accordi sono stati realizzati negli anni successivi, producendo una vera e propria inflazione della parola, corrispondente a una sorta di ideologia in ordine alla centralità della concertazione nel nostro sistema pubblico. Ma, se questo eccesso ideologico è risultato sbagliato e alla lunga controproducente, negli ultimi anni si è assistito piuttosto a un deciso rovesciamento in senso opposto, che vede non solo l’oscuramento pratico della concertazione, ma anche la sua completa svalutazione come strumento plausibile. Il governo tecnico di Monti, a differenza del suo antico predecessore Ciampi, ha dichiarato con nettezza di non volersi avvalere dell’opportunità di decidere attraverso la concertazione con le parti sociali. Ma anche l’attuale premier Renzi ha ribadito con forza di non voler condividere le proprie decisioni insieme alle grandi organizzazioni di rappresentanza: anzi, ha esplicitamente operato per assumere decisioni (come il famoso bonus di 80 euro) che prescindessero dalla mediazione “di” queste e “con” queste .

Come è stato possibile questo così radicale mutamento di clima? Una spiegazione si trova nel diminuito potere di veto dei sindacati (e, in certa misura, anche delle associazioni datoriali) in ragione del loro generalmente decrescente peso rappresentativo nei paesi avanzati. Ma esiste anche un’altra dimensione che è divenuta via via più consistente: la convinzione che queste grandi organizzazioni, invece di aiutare il processo decisionale, tendano piuttosto a complicarlo, rendendolo più lento e meno produttivo. Questa vulgata si traduce nella convinzione che sia preferibile affidare al potere esecutivo – e qualche volta ancora meglio all’uomo solo al comando – la responsabilità di decidere in modo rapido, altamente realizzativo e senza tanti orpelli o lacciuoli. Questa tentazione è talmente diffusa da essere diventata una sorta di nuova ideologia, che manifesta la netta preferenza per le decisioni semplici e svelte, insieme al fastidio verso ogni mediazione e ogni passaggio: una immediatezza spesso mascherata da forte investitura popolare, ma certo insidiosamente insensibile a ogni istanza tipica delle democrazie rappresentative.

Le fortune della concertazione hanno registrato nel corso dei decenni un andamento ciclico, caratterizzato da impennate, cadute e ritorni. Forse diverrà possibile in prospettiva ricondurre questo strumento di regolazione dentro un alveo più razionale e più protetto dalle diverse e opposte deformazioni ideologiche. In questo senso possiamo immaginare che la concertazione dismetta tanto gli abiti salvifici, che ha indossato per alcuni, quanto quelli di uno stanco rito ripetitivo, che ha invece incarnato per altri. Per assumere, invece, i contorni più realistici di una ben precisa formula decisionale, valida solo rispetto ad alcune policy, e che ha il merito – se ben curata – di attivare processi meno verticali e socialmente più coinvolgenti.