Povertà e poveri, prima e dopo la crisi

Di Giovanni Battista Sgritta Mercoledì 14 Maggio 2014 15:51 Stampa

Il modello italiano di povertà non è altro che la conseguenza di un sistema di welfare che ha scaricato sulle famiglie compiti e responsabilità che nei paesi del Nord e Centro Europa sono invece condivisi dalla collettività e almeno parzialmente a carico dello Stato. Nel 2012, con il protrarsi della difficile situazione economica e del mercato del lavoro, si è modificato questo modello, aggiungendo ai “poveri tradizionali” i cosiddetti “poveri della crisi”, quelle persone “normali”, operai e impiegati, lavoratori autonomi e professionisti, che a causa del perdurare della crisi si sono improvvisamente ritrovate esposte a un rischio da cui si ritenevano al riparo, quello di cadere in povertà.

Con la crisi, la povertà in Italia cambia volto, e il cambiamento è di sostanza. Prima della crisi, povertà e disuguaglianza, oltre a toccare livelli relativamente elevati, erano piuttosto stabili.1 Essere poveri in un dato anno aumentava la probabilità di esserlo anche negli anni immediatamente successivi. Dopo Romania, Grecia, Bulgaria e Portogallo, l’Italia aveva allora uno dei valori più alti di povertà persistente.2 Un’altra caratteristica del cosiddetto “modello italiano di povertà” era (ed è) la forte influenza delle condizioni di partenza sui punti di arrivo. Il coefficiente di elasticità intergenerazionale è nel nostro paese pari a 0,5, in altre parole, metà della differenza relativa dei redditi d’una generazione si trasmette mediamente alla successiva. Danimarca, Norvegia, Finlandia, ma anche un paese a welfare liberista come il Canada, fanno segnare valori ben più ridotti, intorno a 0,2 e anche meno.3 Con un’aggravante, a nostro svantaggio: che in Italia gli investimenti in capitale umano hanno scarsa redditività. Così, l’ineguaglianza dei redditi in un determinato momento e una forte correlazione dei redditi da lavoro da una generazione all’altra si rinforzano vicendevolmente tramite l’effetto della prima sulle opportunità di accesso ai livelli d’istruzione superiori.4 Facile immaginare le ripercussioni sulle generazioni future, destinate a ereditare un sistema nel quale la disuguaglianza e la povertà riducono gli investimenti in capitale umano (istruzione) che, riproducendo le disuguaglianze originarie, innescano a loro volta un circolo vizioso di condizioni abitative precarie, cattiva alimentazione e cattiva salute.

 

IL TERRITORIO E LA FAMIGLIA

Su questa “sindrome” insistono altri due aspetti importanti: il divario Nord-Sud e il ruolo strategico della famiglia. Nel 2012, su 3.232.000 famiglie povere relative (450.000 più del 2011) il 65,4% aveva la residenza nel Mezzogiorno. L’incidenza della povertà relativa registra al Sud nello stesso anno valori dell’ordine del 26,2% e del 30,2%, rispettivamente per le famiglie e le persone, contro percentuali ben più contenute al Centro (7,1% e 9,4%) e al Nord (6,2% e 7,8%). Le distanze restano pressoché immutate se invece della povertà relativa si prende quella assoluta; non più, dunque, la distanza da un valore medio convenzionale ma la spesa mensile necessaria per l’acquisto di un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali per condurre “uno standard di vita minimamente accettabile”. 5 Nel 2012, su 1.725.000 famiglie (400.000 in più rispetto al 2011) con un tenore di vita al di sotto di quello standard circa la metà, 792.000, stava al Sud. Nel Mezzogiorno l’incidenza della povertà assoluta è almeno due volte più elevata che nelle restanti ripartizioni: al Sud è povero in termini assoluti il 9,8% delle famiglie e l’11,3% delle persone, al Nord il 5,5% e il 6,4% e nel Centro-Italia il 5,1% delle famiglie e il 5,7% delle persone.6

Conta molto, infine, la famiglia. Date le caratteristiche del nostro sistema di welfare, che la famiglia abbia una parte importante nella determinazione dei livelli di povertà non sorprende. Fatto sta che la relazione tra ampiezza della famiglia e incidenza della povertà è ovunque statisticamente significativa e dipende ovviamente da questo, che sulla famiglia grava in buona sostanza l’onere del mantenimento dei suoi componenti, con scarsi o punti aiuti da parte dello Stato. Al Sud come al Nord e al Centro, l’incidenza della povertà, relativa o assoluta poco importa, aumenta al crescere del numero di componenti della famiglia. La funzione, come si dice, è monotona crescente. Nelle Regioni del Mezzogiorno, nel 2012, l’incidenza della povertà relativa praticamente raddoppia e triplica passando dai nuclei di una sola persona (15,6%) a quelli con quattro componenti (31,8%) e a quelli con cinque e più (42,9%). Anche in questo caso il Mezzogiorno “trascina” verso l’alto il dato nazionale, che per le stesse dimensioni familiari passa dal 6,8% al 18,1% e al 30,2%. Nord e Centro presentano valori (due o tre volte) inferiori, ma pur sempre crescenti in ragione delle dimensioni della famiglia. Idem, su scala più ridotta, per la povertà assoluta.

L’ampiezza della famiglia non è, tuttavia, che una delle caratteristiche che incidono sulla povertà. Altrettanto conta la sua composizione. In particolare, sono i nuclei familiari in cui sono presenti figli minorenni ad avere i livelli di povertà più elevati. E il Mezzogiorno, neanche a dirlo, alberga di nuovo le situazioni più disagiate. Nel 2012, l’incidenza della povertà relativa quando in famiglia c’è un solo figlio in età minore è pari al 32,7%, con due sale al 34,3%, con tre o più al 40,2%; e, sia pure con valori di parecchi punti percentuali più contenuti, la tendenza è la stessa anche nelle Regioni del Nord (7,6%, 10,9% e 17,4%).

Il combinato disposto di questi fattori, territorio e famiglia, dà luogo a due distinti profili di povertà, uno caratteristico delle Regioni meridionali, l’altro più presente al Nord. La principale causa di povertà è ovviamente l’insufficienza di reddito in entrambi i casi. Con la differenza che, mentre nel Mezzogiorno la scarsità di denaro si coniuga con una relativa abbondanza di “carichi familiari”, che concorrono ad aggravare la situazione economica dell’intero nucleo familiare, al Nord è particolarmente elevata la quota di poveri che si trovano nella condizione di pensionati, soprattutto donne anziane sole con livello d’istruzione basso e senza (o con una scarsa) storia contributiva sufficiente a garantire loro un trattamento di pensione dignitoso.7 Il reddito di una famiglia dipende di regola da quanti tra i suoi componenti hanno un’occupazione e, natu ralmente, dall’entità della retribuzione. A fine 2013, nelle Regioni del Nord il tasso di occupazione della popolazione in età 15-64 anni è pari al 63,3%, ma è sotto di oltre ventuno punti in quelle del Mezzogiorno (41,8%); un divario che si riduce per i maschi (72% contro 53,4%), ma si impenna per quanto riguarda i tassi di occupazione femminile (56,5% contro 30,4%) e soprattutto giovanile: nella fascia 15-24 anni, in Italia, il tasso di disoccupazione è in crescita costante e ormai sopra il 40%, con punte che, per la componente femminile, in alcuni paesi e città del Sud superano abbondantemente il 50%.

A completare il quadro, al Sud è particolarmente elevata la percentuale di famiglie con un solo percettore di reddito da lavoro o da trasferimento; oltre metà delle famiglie si trova in questa condizione. Anche per questo, il reddito delle famiglie che vivono nel Mezzogiorno è pressappoco i tre quarti di quello delle famiglie residenti al Nord. Al Sud, inoltre, è particolarmente elevata la percentuale di famiglie in cui non vi sono occupati. Nel 2011, erano 13,5% le famiglie meridionali che si trovavano in questa condizione, con punte relativamente più elevate in Campania (16,9%), Sicilia (15,6%) e Calabria (15,5%) rispetto al 3-4% delle Regioni del Nord e del Centro. Si spiega così anche perché in Italia, al Sud in particolare, la povertà colpisca prevalentemente i minori. In effetti, il nostro è il paese europeo con il più elevato “rischio di povertà” minorile,8 preceduto soltanto dalla Romania e dalla Bulgaria. Più di un quarto (26,2%) dei minori vive in famiglie a rischio di povertà. Idem per i minori in povertà assoluta, che nel corso della crisi passano dal 4,7% del 2007 al 7% del 2011.9

 

LE CAUSE

Le Regioni del Mezzogiorno si collocano ai margini in tutta la contabilità statistico-sociale.10 La povertà non è solo al Sud naturalmente, né i problemi del Mezzogiorno si attestano sul solo versante economico.11 Al Sud è certamente bassa, troppo bassa, rispetto al resto del paese e all’UE, sia la quota degli attivi sia quella degli occupati; e soprattutto è bassa, troppo bassa, la presenza di donne e giovani sul mercato del lavoro. Ed è un problema serio. Perché a minore occupazione corrisponde minor reddito e, in assenza di efficaci programmi di mantenimento delle risorse, un maggior rischio di povertà. Poi c’è la famiglia. Nel nostro sistema di welfare, al quale appartengono a buon diritto anche gli altri Stati del Sud Europa, vige la regola del tertium non datur, ovvero le politiche sociali operano sul presupposto che ai bisogni dei cittadini rispondano di regola il mercato privato (per chi se lo può permettere) e/o la famiglia (per chi ce l’ha). Le istituzioni pubbliche entrano in campo solo quando uno o entrambi questi canali non sono disponibili, e anche allora solo temporaneamente. Il limite di questa soluzione è che grava pressoché totalmente sul lavoro non remunerato e non contabilizzato della donna; con inevitabili trade-off con il tasso di fecondità, la partecipazione della donna al mercato del lavoro, la formazione delle famiglie, la permanenza dei giovani in famiglia e, naturalmente, la povertà. A conti fatti, i costi superano abbondantemente i benefici (meno spesa pubblica). In particolare, questi paesi spendono meno degli altri per quelle politiche volte a prevenire e combattere la povertà. Sommando tra loro le spese destinate alle voci “famiglia”, “abitazione”, “esclusione sociale” e “disoccupazione”, i paesi del Sud Europa spendono mediamente per esse il 3,9% del PIL; Francia e Germania poco più del 6% e le socialdemocrazie del Nord Europa quasi il 7%. Più in dettaglio, alla voce “famiglia e figli” la compagine meridionale destina in media solo l’1,52% del PIL, Francia e Germania il 2,9% e le tre nazioni del Nord Europa il 3,4%. L’Italia occupa, con un risicato 1,3% del PIL, l’ultimo posto in tutta la zona europea allargata, mentre per quanto riguarda gli interventi per la disoccupazione si colloca in coda al gruppo dei 15.12

Tirate le somme, l’Italia investe poco nel sociale, e investe poco in servizi: l’incidenza sul PIL dei trasferimenti in kind è circa tre punti percentuali al di sotto della media europea (7,7% contro 10,4%). Con Grecia e Ungheria, infine, è l’unico paese europeo in cui non esista una misura “non discrezionale e non contributiva” di contrasto alla povertà. Le difficoltà derivanti dalla mancanza di lavoro o dall’insufficienza di reddito sono assorbite, ammortizzate, per quanto possibile risolte, all’interno della famiglia, condivise in solidum da tutti i suoi componenti. Il che spiega l’elevata incidenza della povertà minorile e il livello di esclusione in cui precipitano giovani e donne (soprattutto, ma non solo) nel Mezzogiorno. In altre parole, il modello italiano di povertà non è che (l’ovvia) conseguenza di un sistema di welfare che ha scaricato da sempre sulle spalle delle famiglie compiti e responsabilità che nei paesi del Nord e Centro Europa sono di norma condivisi/partecipati dalla collettività e, quindi, almeno parzialmente a carico dello Stato. Di qui il paradosso che in queste condizioni la solidarietà familiare finisca a volte per funzionare da “moltiplicatore” della povertà.

LA SVOLTA: I POVERI DELLA CRISI

Se i caratteri essenziali del modello italiano di povertà sono quelli fin qui descritti, la crisi ha innestato sull’ossatura di quel modello esperienze inedite, figure nuove, nuove dinamiche. Il 2012 è l’anno della svolta. Fino al 2011 le famiglie erano riuscite a mantenere un certo tenore di vita. Con il protrarsi della difficile situazione dell’economia e del mercato del lavoro, aumenta il numero di famiglie costrette a mettere in atto strategie di contenimento della spesa.13 È avvenuto a livello nazionale come nelle singole ripartizioni, per i generi alimentari come per l’abbigliamento e le calzature, ma ciò che più importa è che è avvenuto per tutte le tipologie familiari e le condizioni economico-sociali: per le famiglie con figli, le coppie senza figli, gli anziani e i monogenitori, come per gli operai, i pensionati, i lavoratori autonomi e i dirigenti. L’impianto della povertà resta grosso modo lo stesso, ma si aggrava su tutta la linea. Tra il 2010 e il 2012 la percentuale di famiglie in condizioni di grave deprivazione materiale14 passa dal 6,9% al 14,3%. Tuttavia, nelle Regioni del Nord cresce dal 3,7% al 7,9%, in quelle del Centro dal 5,4% al 9,9%, mentre nel Mezzogiorno le cifre sono notevolmente più elevate: dal 12,1% del 2010 al 25,1% del 2012.

Il Rapporto Istat fornisce un altro dato interessante. Fino al 2011 era evidente la relazione tra gli aiuti prestati e il livello di difficoltà materiale degli individui o delle famiglie cui quegli aiuti erano rivolti. Nel 2012 quella relazione si allenta, segno di un’estensione delle situazioni di disagio che atrofizza, prosciuga in parte, le reti di solidarietà. È prudente prendere il dato, e la sua interpretazione, con una certa cautela. E, tuttavia, non è da escludere che finora le famiglie siano riuscite bene o male a smorzare l’impatto della crisi, attingendo al risparmio accantonato nel corso degli anni. Mentre con il perdurare della crisi questa capacità si sarebbe fortemente indebolita, parallelamente alla forte contrazione della propensione al risparmio da parte delle famiglie, calata di ben quattro punti percentuali dall’inizio della crisi, e alla crescita delle insolvenze bancarie.

L’impatto della crisi sui livelli e le forme della povertà è stato oggetto di una ricerca condotta nel 2010 a Torino, Roma e Napoli dalla Commissione d’indagine sull’esclusione sociale. I risultati confermano in buona sostanza gli elementi sui quali ci siamo soffermati nelle pagine precedenti, specie per quanto riguarda le differenza tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno; diverse sono anche le traiettorie di impoverimento nelle due realtà territoriali. Permane lo zoccolo duro delle povertà “tradizionali”, che hanno radici in eventi passati, nella biografia pregressa dei soggetti che ne sono colpiti. Non sono questi i “poveri della crisi”. Il dato inedito è che coloro che entrano nella schiera dei nuovi poveri sono persone “normali”, operai e impiegati, lavoratori autonomi e professionisti, fino ad allora stabilmente inseriti nel mercato del lavoro con contratti a tempo indeterminato, con un lavoro avviato, a tutti gli effetti stabile. Lavoratori che si ritenevano, dunque, protetti dal rischio di cadere in povertà, ma che con la crisi assistono a un cambiamento generale della loro situazione economica: perdono il lavoro, entrano in Cassa integrazione e subiscono una brusca e inaspettata riduzione delle loro entrate e del loro potere d’acquisto. Non a caso, una parte non piccola dei nuovi poveri sono poveri che lavoravano o continuano a lavorare (working poors), una condizione che un tempo non lontano sarebbe apparsa come un’inconcepibile contraddizione in termini. Si tratta di operai, impiegati, tecnici diplomati e laureati che fino allo scoppio della crisi si sentivano al riparo dal rischio di perdere il posto di lavoro e da un improvviso declino o tracollo economico. A peggiorare ancor più le cose c’è che di crisi come questa, di questa gravità, né gli uni né gli altri hanno mai avuto memoria diretta nella loro storia lavorativa.15

Di qui l’impreparazione ad affrontarne le conseguenze. Le testimonianze raccolte narrano d’individui impauriti e rassegnati, che hanno la sensazione di trovarsi a un punto di svolta e, forse, di non ritorno della loro vita. Molti di loro sono stati colpiti “in corsa”, in una fase positiva del loro ciclo di vita. Avevano acquistato casa, contavano sugli sviluppi di carriera e l’aumento retributivo che questi avrebbero comportato, contavano di investire sul futuro dei figli, sulla loro formazione, avevano insomma fatto progetti per il domani. Per giunta, questa povertà col pisce persone che non erano preparate ad affrontarla, perché né loro né i loro genitori l’avevano mai sperimentata. Insomma, non si tratta di persone che provengono dall’area della povertà e della emarginazione tradizionale, non sono persone in condizioni di estremo degrado, né sono sradicate dal loro tessuto sociale e familiare di riferimento. Sono semplicemente persone alle quali sono saltate le usuali funzioni di sicurezza e che rischiano pertanto di non riuscire più a risollevarsi.

 

NUOVI POVERI, VECCHIE POVERTÀ

Il quadro illustrato all’inizio non riflette, dunque, che in parte la nuova realtà. La crisi ha introdotto figure inconsuete nel campionario tradizionale dei poveri: al Nord come nel Mezzogiorno; nelle famiglie numerose come nei nuclei ristretti; tra quanti erano privi di un titolo di studio come tra coloro che con il diploma e la laurea in tasca si sentivano al sicuro; tra i figli del ceto medio come tra i meno abbienti; tra chi aveva un lavoro instabile e chi, invece, poteva contare su un contratto di lavoro a tempo indeterminato; e, infine, tra chi lavorava come operaio o impiegato presso una grande multinazionale e chi era occupato presso una piccolomedia impresa nazionale o locale. Sono saltate, nel complesso, le tutele che almeno apparentemente servivano in anni non lontani a tenere distante il fantasma della povertà. La crisi ha colpito anche coloro dai quali ci si aspettava una prima, emergenziale risposta, in particolare i servizi territoriali dell’assistenza. Anch’essi si sono trovati del tutto impreparati ad affrontare gli effetti della crisi. Abituati a fornire una risposta di pronto soccorso, di fronte a quella che la Caritas ha definito la “normalizzazione sociale” dell’utenza, questi servizi sono entrati in crisi.16 Più in generale, è entrato in crisi un pezzo importante del terzo settore, una parte del volontariato che aveva sin qui supplito alle inadempienze dello Stato, alle insufficienze della politica e dei servizi. Di più, la generalizzazione del disagio, la maggiore difficoltà di individuare le cause che lo generano e le figure che possono esserne colpite ha fatto aumentare la percezione della disuguaglianza, fino all’intolleranza verso le forme più eclatanti e ingiustificate di arricchimento, di spreco, di abuso. Il che spiega, almeno in parte, gli scossoni e le reazioni politiche che hanno interessato il paese nell’ultimo biennio.

 


 

[1] A. Brandolini, L’evoluzione recente della distribuzione del reddito in Italia, in A. Brandolini, C. Saraceno, A. Schizzerotto (a cura di), Dimensioni della diseguaglianza in Italia: povertà, salute, abitazione, il Mulino, Bologna 2009.

[2] Istat, Rapporto annuale 2013. La situazione del Paese, disponibile su www.istat.it/it/files/2013/05/Rapporto_annuale_2013.pdf

[3] M. Raitano, Di padre in figlio: l’Italia feudale, in “MicroMega”, 3/2013, pp. 66-77; OCSE, Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries, Parigi 2008.

[4] OCSE, op. cit.; M. Franzini, Disuguaglianze inaccettabili. L’immobilità economica in Italia, Laterza, Roma-Bari 2013.

[5] La soglia della povertà assoluta varia in base alla dimensione e composizione per età della famiglia, alla ripartizione geografica e all’ampiezza demografica del Comune di residenza. Nel 2012, per una famiglia di due componenti adulti (18-59 anni) residenti
in un piccolo Comune, la soglia della povertà assoluta è pari a 1013 euro se la famiglia è residente al Nord e a 779 se la famiglia risiede in una delle Regioni del Mezzogiorno (si veda Istat, La povertà in Italia. Anno 2012, in “Statistiche Report”, 17 luglio 2013).

[6] Istat, La povertà in Italia cit.

[7] G. B. Sgritta, Il ritorno della povertà: vecchi problemi, nuove sfide, in “La rivista delle politiche sociali”, 1/2009, pp. 61-77; G. B. Sgritta, Nuovi poveri, vecchie povertà, in “La rivista delle politiche sociali”, 2/2011, pp. 33-59.

[8] Il “rischio di povertà”, secondo la definizione comunitaria, misura la percentuale di persone che vivono in famiglie in cui il reddito disponibile equivalente (calcolato con la scala OCSE modificata) è sotto la “linea di povertà”, posta al 60% del valore mediano
del reddito disponibile equivalente nazionale.

[9] Istat, Rapporto annuale 2013 cit. 10 Istat, La povertà in Italia cit. 11 F. Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Laterza, Roma- Bari 2013; C. Trigilia, Non c’è Nord senza Sud. Perché la crescita dell’Italia si decide nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2012.

[10] Istat, La povertà in Italia cit.

[11] F. Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2013; C. Trigilia, Non c’è Nord senza Sud. Perché la crescita dell’Italia si decide nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2012.

[12] Istat, Rapporto annuale 2013 cit.

[13] Istat, La povertà in Italia cit.

[14] La deprivazione, cioè l’incapacità involontaria di sostenere spese per determinati beni e servizi, è definita grave quando in famiglia si registrano almeno quattro segnali di deprivazione materiale. Ad esempio “Essere in arretrato con i pagamenti”; “Non potersi permettere un pasto proteico almeno una volta ogni due giorni”; “Non riuscire a far fronte a spese impreviste” ecc. (si veda Istat, La povertà in Italia cit.).

[15] G. B. Sgritta (a cura di), Dentro la crisi. Povertà e processi di impoverimento in tre aree metropolitane, FrancoAngeli, Milano 2010.

[16] Caritas italiana, Rapporto 2012 sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia, disponibile su www.caritasitaliana.it/materiali/Pubblicazioni/libri_2012/rapporto2012/Rapporto_Povert_2012_Caritas_Italiana.pdf