Quale liberalismo?

Di Nadia Urbinati Mercoledì 29 Maggio 2013 11:52 Stampa

La crisi della sinistra e la fortuna dell’ideologia liberalista si riflettono nel trasferimento dell’universalismo dalla società politica alla società civile e nell’attuale situazione di vantaggio della libertà individuale sulla libertà politica. Ma è proprio nel solco di quello che è stato il suo nemico naturale che la sinistra deve cercare un rilancio e provare a vincere la sua battaglia, impostando una lettura del liberalismo diversa da quella egemone, per la quale lo Stato e le leggi costituiscono degli ostacoli al dispiegarsi delle libertà individuali, anche quando essi sono manifestazioni di un sistema democratico. Questa revisione liberista deve essere più attenta alle circostanze, interpretando la libertà come capacitazione degli individui di vivere il tipo di vita a cui danno valore, e dunque come occasione di sviluppo, e considerando le varie libertà non distintamente, ma come un tutto solidale.

La crisi della sinistra viene generalmente spiegata con il tramonto dell’ideologia egualitaria che ne ha contrassegnato l’identità fi n dalle sue origini settecentesche e rivoluzionarie. Crisi della sinistra, dunque, come un aspetto della crisi della modernità e dei suoi miti: l’universalismo della cittadinanza e l’impersonalità della legge. Al suo posto abbiamo visto sorgere recentemente due soluzioni alternative preoccupanti: la solidarietà comunitaria (appropriazione identitaria del benessere e dei diritti nel nome del “nostro territorio”, della “nostra cultura” e della “nostra ricchezza”) e la priorità dell’interesse particolare (sia esso economico o di classe o di territorio regionale) su quello generale. Il tempo della politica classica sembra essersi consumato; i suoi luoghi, il suo linguaggio e le sue finalità sembrano essersi rarefatti.

Tuttavia, l’universalismo non è scomparso. Esso è trasmigrato fuori della politica, ad esempio nel mercato e nell’economia. Si tratta, come si intuisce, di un diverso universalismo. Globalizzazione degli interessi economici e delle competenze finanziarie da un lato e, quasi per reazione, localismo delle appartenenze identitarie e collettive dall’altro. L’universalismo si è trasferito dalla società politica alla società civile, radicalizzando il dualismo tra libertà individuale e libertà politica. Leggendo le cronache italiane ed europee di questi mesi sembrerebbe che la sfida della società civile alla società politica sia destinata per ora a concludersi con la sconfitta della seconda: i “briganti” hanno espugnato lo Stato.

E che cosa ne sarà della giustizia sociale? Questa sarà dispensata (o così alcuni sperano che sia) dalla volontà benevola dei buoni cristiani e delle comunità di fede o assistenziali e caritatevoli, non più dal diritto e dagli organi dello Stato. Sembra che la giustizia sociale abbia preso la strada della misericordia o della benevolenza morale e religiosa (come si vede bene nel programma dei repubblicani americani) e che lo Stato non debba avere altro ruolo se non occuparsi della giustizia civile e penale per proteggere la sfera degli interessi privati. Crisi della sinistra e crisi dell’universo di valori e istituzioni che hanno nutrito la democrazia nei decenni passati stanno insieme, orchestrate dall’ideologia che elargisce il vangelo dei mercati che si autoregolano e sanno coordinare spontaneamente meriti e bisogni, senza che sia necessario l’intervento programmatore della legge. Imparziali perché automatici. La società civile rivendica la sua centralità sulla società politica: in questa trasformazione è la sorgente della crisi della sinistra. Ridistribuire risorse, disegnare strategie politiche di giustizia sociale – come si diceva alcuni lustri fa –, governare i processi sociali: tutto questo sembra oggi archeologia. Se ci sono valori universali, questi si sono trasferiti nella dimensione del privato. Questo scenario aiuta a capire perché il liberalismo sia oggi l’ideologia vincente, un’ideologia che è universalista proprio laddove l’universalismo si è rannicchiato.

Il liberalismo ha espresso fin dal suo apparire la doppia anima della modernità: celebrazione dell’individuo e limitazione della politica e dello Stato. Esso ha marciato insieme all’affermazione della priorità della sfera civile – che è sfera dei diritti individuali e degli interessi – e alla visione strumentale o di coordinamento delle istituzioni politiche. Il liberalismo è una dottrina universalistica che non è ostile al particolare. Qui sta la sua forza prometeica e la sua straordinaria capacità di adattamento, la sua trasversalità; infatti, l’antistatalismo può unire, e di fatto unisce, movimenti che sembrano tra loro molto distanti, come cattolici e federalisti etnocentrici, tanto per fare un esempio nostrano. L’idea trasversale che sia necessaria una devoluzione delle competenze dallo Stato alla società civile mette d’accordo liberal-liberisti e teologi cattolici. Il paradosso è solo apparente, perché mettere l’individuo al centro può anche voler dire promuovere le comunità e le appartenenze locali, luoghi nei quali la persona trova gli stimoli per perseguire lungo la strada della realizzazione personale, mondana o divina, ma vuol dire anche rete protettiva che interviene quando la “sfortuna” economica si abbatte sulle persone come una dea cieca.

Dunque, è la riflessione sull’identità del liberalismo che occorre riprendere in mano. Per comprenderne la complessità, per disarticolarne le interpretazioni canoniche, per recuperare infine quel respiro universalista e sociale al quale la sinistra non può rinunciare. Il liberalismo può dare nuova energia alle visioni emancipatrici. Un paradosso della modernità anche questo: la sinistra bussa alla porta di quello che i suoi padri fondatori marxisti consideravano il nemico naturale. Ma il paradosso è tale solo se si guarda alla storia della sinistra come se fosse una storia omogenea. Assegnare complessità al liberalismo implica, per la sinistra, recuperare la complessità delle sue stesse radici. E le radici della sinistra europea e italiana sono plurali e complesse.

 

AL DI QUA DELLA CORTINA DI FERRO

Recuperare l’identità complessa del liberalismo (e, di conseguenza, della sinistra) significa fare i conti con la codificazione che è stata data del liberalismo (e, di conseguenza, della sinistra) nel corso della seconda metà del Ventesimo secolo in Europa occidentale, al di qua della cortina di ferro. Il liberalismo è stato canonizzato come quello che nel 1958 Isaiah Berlin ha identificato con la “vera libertà”, la libertà come non interferenza e non impedimento da parte della legge, anche quando a votare la legge sono Parlamenti eletti democraticamente. Un liberalismo che ha fondato se stesso sull’idea che la libertà sia licenza e anarchia, fare quello che individualmente si vuole e sceglie e che, pertanto, ogni ostacolo esterno a questa libertà implichi assenza di libertà, limitazione della scelta individuale, anche se necessaria. La libertà è dove tace la legge, non attraverso la legge.

La logica che ha guidato e guida questo liberalismo è la stessa che muove le azioni dell’homo oeconomicus: un individuo che, come la bi- glia sul piano inclinato, procederebbe per forza di inerzia se altri o qualcosa di esterno al suo moto non ne ostruissero il corso. La libertà è qui pensata come movimento nello spazio e, soprattutto, in opposizione a un ostacolo: la legge, la politica, lo Stato. La società liberale così immaginata sarà tanto più realizzata quanto minore sarà lo spazio occupato dalla politica e dalla sfera pubblica. Meno Stato/più mercato: questa è la conseguenza pragmatica del liberalismo che si è contrapposto all’ideologia socialdemocratica a partire dagli anni della guerra fredda. Come si leggeva nel pamphlet di von Hayek, oppressione e servitù sono in proporzione all’interferenza della legge ed è irrilevante sapere se la legge goda di legittimazione costituzional-democratica o sia dominio dispotico; è irrilevante sapere se a interferire con le azioni degli individui sia un Parlamento democraticamente eletto o il Parlamento dei soviet.

Alla fine dell’età delle ideologie, questo è il nucleo teorico-politico egemone del liberalismo contemporaneo. Il quale ha vinto la competizione con l’idea dell’intervento regolatore dello Stato, anche quando lo Stato è una democrazia costituzionale. Un liberalismo che ha origini datate, ma non è datato: perché il suo vero bersaglio, dagli anni della guerra fredda in poi, non è stato tanto il comunismo sovietico quanto la socialdemocrazia occidentale: non Lenin, ma Thomas H. Marshall. L’ultima grande battaglia di questo liberalismo della non interferenza è, dunque, quella che sta combattendo in questi mesi contro la filosofia e la pratica dello Stato sociale, cioè contro quel residuo di universalismo distributivo e di giustizia sociale via Stato democratico che la modernità ha anche nutrito. Oggi la trincea della sinistra sembra essere questa.

Difficile dire se sarà la sua Caporetto. Ma è certo che la rinascita della sinistra, in Italia come in Europa, sembra dover passare attraverso la trasformazione del liberalismo. Con quel liberalismo della sovranità degli interessi privati la sinistra non può che perdere. Eppure, senza o contro il liberalismo la sinistra non può vincere e certamente è destinata a perdere e anche a scomparire. Il nodo da sciogliere è, dunque, qui, nell’interpretazione della libertà e del liberalismo. La sinistra potrà sperare di vincere la sfida lanciata dall’individuo privato al cittadino se saprà impostare un’interpretazione della libertà e del liberalismo che sia capace di sfidarne la lettura egemone, quella che vede la legge, il pubblico e lo Stato come ostacoli, limiti da contenere al massimo o da superare.

 

IL VALORE DELLE LIBERTÀ

Volgiamoci ai grandi teorici del liberalismo sociale del nostro tempo, ad esempio Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia (ma marginale nel trend contemporaneo governato dalle business schools) e teorico rappresentativo della revisione del liberalismo della non interferenza non per negarlo, ma per farlo interagire con altre libertà. La sua prospettiva ideale è la stessa di quella condivisa da altri grandi liberaldemocratici e socialdemocratici del nostro tempo, John Rawls e Jürgen Habermas. Ma Sen adotta una strategia metodologica diversa e che può essere politicamente vincente in questa fase di revisione liberista, perché costruita su una grammatica che è insieme normativa e utilitaristica, universalistica ma attenta al contesto e alle circostanze concrete nelle quali le persone operano. Il principio – la libertà individuale – è coniugato da Sen non semplicemente attraverso le istituzioni e le procedure distributive, bensì attraverso la conoscenza delle concrete e sostanziali «capacitazioni (capabilities) degli individui di vivere il tipo di vita al quale danno valore e hanno motivo di dare valore».

Lo «sviluppo può essere visto come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani». Le libertà sono dunque plurali, hanno costi e benefici, sono scelte politiche che hanno per obiettivo lo sviluppo dell’individuo in relazione alla società nella quale vive e opera. Un individuo che è un agente, che ha dei progetti e dei valori ideali e morali e che usa le risorse economiche come mezzi per realizzarli. Sen tenta un’operazione coraggiosa: combinare l’idea di felicità (Aristotele) con quella di interesse (Adam Smith), cioè assegnare all’economia un ruolo strumentale in vista di un “bene” qualitativo come il benessere, la felicità o la qualità della vita.

L’idea di “capacitazioni” si chiarisce qualora si mantenga un nesso tra il concetto di individualità come “fioritura” e “sviluppo” delle capacità individuali e l’analisi economica dei “beni necessari” e delle condizioni di vita che quelle capacità necessitano per esprimersi al meglio. Il bene individuale è una componente del bene generale: le libertà sono un guadagno per l’intera società. «L’utilità della ricchezza sta nelle cose che ci permette di fare, nelle libertà sostanziali che ci aiuta a conseguire», una correlazione tra mezzi e fini che non è né semplice, né uniforme, che è contestuale e varia in relazione alla struttura politica e sociale di un paese, che non rinuncia a pensare in termini di convenienza, crescita economica e vincoli allo sviluppo. Un’economia al servizio del benessere complessivo della persona.

La libertà è un bene per l’individuo perché è un bene per la società, diceva John Stuart Mill: accresce le capacità ed è vantaggiosa. All’opposto, l’ingiustizia è “privazione di libertà”: negare la libertà politica, violare i diritti civili, togliere i diritti sociali configura non soltanto una condizione di immoralità, ma è un oggettivo ostacolo alla crescita. Dove non c’è sicurezza nei diritti gli scambi sono a repentaglio, l’intraprendenza individuale è frustrata: è la società intera che ne subisce le conseguenze, non solo il singolo.

L’idea di libertà come “capacitazione” si contrappone da un lato a quella “più ristretta” che ci viene dal liberalismo economico, ovvero l’identificazione dello sviluppo con «l’aumento dei redditi individuali, o con l’industrializzazione, o con il progresso tecnologico, o con la modernizzazione della società», e dall’altro a una visione puramente negativa o come non interferenza da parte della legge. Invece, propone un’idea di libertà che è incentrata su una filosofia sociale che si preoccupa della “felicità” (come prometteva la democrazia americana nel Settecento, scrivendo la Dichiarazione di indipendenza). La filosofia della sinistra post socialista è, dunque, rintracciabile nel pensiero democratico, che è diverso sia dal liberismo economico che dal socialismo pianificatore, perché attento al contesto e all’opinione delle persone (al voto) invece che al dogma del mercato e della naturalità delle sue regole. L’obiettivo di questa teoria del benessere è negativo, cioè eliminare le illiberalità; per questo non cade nel difetto di promuovere uno Stato paternalista che ci dica in che cosa consiste la nostra felicità, un difetto dell’ideale di giustizia sociale che i liberali giustamente temono. I mezzi per attuarlo sono positivi, ossia rimuovere le condizioni che producono le illiberalità.

DEMOCRAZIA COME ATTENZIONE ALLE CIRCOSTANZE

La sinistra dovrebbe recuperare in pieno la dimensione progettuale della politica e farlo attraverso l’idea di “sviluppo come libertà”. È un’idea rivoluzionaria, in quanto costringe i liberali a dire esplicitamente quali libertà vogliono difendere, cioè quale visione dell’individuo hanno e a chi questa visione può essere estesa, quanti sono o quanti dovrebbero essere coloro che godono, effettivamente, della libertà. Il ruolo delle circostanze è importante, perché comporta riconoscere che non tutte le libertà hanno lo stesso peso ovunque e comunque. Dunque, le libertà sono plurali, eterogenee e, certamente, in conflitto. La funzione della politica è quella di prendere decisioni proprio perché c’è questo conflitto. Ed è qui che destra e sinistra mostrano le loro differenze. È qui che chi si dichiara “moderato” deve soffermarsi per chiarire che cosa significhi moderazione in una società che toglie ai molti le capacità di operare funzionalmente e di aspirare a una vita dignitosa.

Prendiamo, ad esempio, il modo di intendere alcune “libertà strumentali”, ovvero le infrastrutture economiche. Le infrastrutture economiche sono “possibilità” date agli individui di “utilizzare risorse economiche per consumare, produrre o scambiare”. Queste “possibilità” dipendono da varie circostanze: non soltanto da quanto una persona percepisce mensilmente, ma anche dalla generale ricchezza nazionale e dalla presenza di importanti risorse, come il funzionamento delle istituzioni pubbliche, la disponibilità di accesso alla cultura e alla formazione. Se per accedere a un finanziamento devo corrompere un funzionario, o appartenere a un partito, o sottostare al ricatto di un’organizzazione criminale, o essere membro di una comunità religiosa, o essere uomo anziché donna, allora l’avere un reddito decente non costituisce per me una garanzia di godimento effettivo di libertà.

Sostanzialmente, le mie “possibilità”, come persona che vive in una società altamente evoluta, non sono molto superiori a quelle di una persona che abiti in una società meno evoluta e che abbia un reddito inferiore al mio. Io donna italiana ho, da questo punto di vista, un’aspettativa di riconoscimento e di vita sociale soddisfacente inferiore o non superiore a quella di una donna che vive in un paese nordeuropeo, perché rispetto alle risorse e alle opportunità che la mia società offre io soffro una maggiore privazione di libertà della mia omologa nordeuropea. Inoltre, ho anche meno libertà rispetto a un uomo italiano. Sono, cioè, più “povera” tanto in senso assoluto quanto in senso relativo, perché la mia povertà non è solo economica o materiale, ma legata intrinsecamente a fattori sociali, culturali e politici. Sono più discriminata, ho meno riconoscimento sociale e politico, faccio più fatica a rendere effettivi i diritti che tuttavia la legge mi riconosce, sono umiliata nelle mie capacità. Tolgo tempo ed energia al mio benessere e a quello dell’intera società. Sono specchio dell’Italia: affannata, poco soddisfatta, depressa, paralizzata nel mettere a frutto le mie possibilità. La regola che si può ricavare da questo esempio è la seguente: considerare la libertà sia come fine che come mezzo comporta rendersi conto di come le varie libertà che abbiamo non possono essere prese una per una, singolarmente, perché gli esseri umani quando operano le mettono in azione tutte insieme. Dunque, è il fatto che le libertà creino un tutto solidale che è ragione di libertà, non il fatto che noi godiamo di una libertà in particolare, ad esempio quella di vendere e comprare. Così Sen può spiegare la povertà nelle zone più diseredate del mondo, ma anche quella che cresce all’interno di società ricche come quelle europee. Qualora si prendesse in esame soltanto il reddito pro capite o le istituzioni, questa reale ingiustizia resterebbe invisibile o non determinante. Ma, se si considerano altre forme di illiberalità – l’assenza effettiva di possibilità e “capacitazioni”, come la fatica che una donna italiana compie per essere rispettata nella sua dignità e riconosciuta nelle sue capacità ecc. –, allora la povertà emerge come una piaga delle stesse società liberali, di quelle occidentali non meno che di quelle che diciamo essere in via di sviluppo.

Avere scuole pessime, o distribuire la qualità dell’istruzione inegualmente e secondo le possibilità economiche, o l’allocazione geografica delle risorse rende le donne italiane o gli italiani meridionali o i giovani di famiglie non abbienti meno liberi dei loro concittadini maschi, nordici e benestanti. Mettere le donne nell’impossibilità di avere un’occupazione esterna alla famiglia rende le donne dei paesi occidentali meno libere dei loro concittadini maschi se alla loro libertà non è dato il sostegno di infrastrutture sociali. E, soprattutto, rende il paese meno ricco, perché impedisce a molti dei suoi abitanti di fare cose che potrebbero ritenere loro diritto fare e, insieme, impoverisce la società nel suo complesso, perché la priva di importanti risorse.

 

UNA SFIDA SUL TERRENO DELLA COERENZA LIBERALE

Questa visione di “società giusta perché libera” mette sotto accusa lo strabismo di quei liberali che fanno della modernizzazione e dell’espansione della rendita l’unico fattore che misuri la libertà. In questo caso, a essere ignorate sono le libertà politiche e civili. Ma queste libertà non immediatamente materiali ed economiche sono “convenienti”, perché senza di loro la società sarebbe non solo meno libera per molti, ma anche più povera, in quanto molti dei suoi cittadini incontrerebbero più ostacoli per operare liberamente e il loro ambito di azione sarebbe più ristretto. È lo “sviluppo diffuso” o la “libertà diffusa” che la sinistra deve considerare, un concetto che Carlo Rosselli aveva espresso con queste parole: «Tra una libertà media estesa all’universale, e una libertà sconfinata assicurata ai pochi a spese dei molti, meglio, cento volte meglio, una libertà media».

Insistere sulle possibilità effettive di libertà ci induce a correggere la teoria classica della socialdemocrazia, perché ci insegna che il problema non è semplicemente quello di difendere la libertà nelle norme e nelle istituzioni distributive, ma di far sì che la libertà abbia un valore per le persone che la vivono e un significato per noi che concretamente la usiamo. «La libertà – così Rosselli – non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma». In questo senso, quando si parla di libertà al plurale, la distinzione tra libertà come mezzo e come fine è sempre relativa, mai assoluta.

Queste sono le premesse che devono convincere la sinistra a sfidare il tabù delle politiche antinflazionistiche e a dare centralità all’occupazione e ai servizi sociali, a considerare le infrastrutture un volano di ricchezza e di libertà. I critici liberisti o di destra oppongono al welfare State classico una interpretazione dello Stato sociale dal punto di vista dei bisogni dei clienti. Sen ci insegna a mettere in dubbio l’efficacia e la governabilità di un’erogazione dell’assistenza sanitaria o dell’istruzione basata su una verifica dei bisogni ovvero dei mezzi economici dei clienti (ci insegna a contestare l’efficacia della politica dei voucher, che tanto piace a diversi cattolici-liberali nostrani e che ha guidato la ristrutturazione dello Stato sociale in Lombardia).

Lo scetticismo di Sen è dettato da ragioni realistiche e pragmatiche: l’informazione sulle “incapacitazioni” di una persona, ovvero sulle sue condizioni economiche in relazione al bene salute o istruzione (per il quale si propone il voucher), è tutt’altro che oggettiva ed economicamente agevole da fare. Inoltre, molto più facilmente dell’universalismo welfarista, questa strategia può generare corruzione, pesantezza burocratica e discriminazione. Infatti, erogare un servizio in forma di voucher, ovvero monetarizzarlo in relazione all’effettiva disponibilità economica di chi ne ha bisogno, implica che il pubblico debba monitorare direttamente e costantemente le reali disponibilità economiche dei potenziali fruitori dei voucher (con un’ingerenza nella privacy che è pesante e davvero lesiva delle libertà individuali); infine, presume una condizione che come sanno gli italiani è tutt’altro che scontata, ovvero che non ci sia evasione fi scale, occultamento delle informazioni sulle effettive risorse economiche e abusi clientelari. Personalizzare l’erogazione dei servizi – come fa la politica dei voucher – comporta aumentare i rischi di disfunzione, di abuso, di corruzione e di discriminazione, mentre deve forzatamente essere più intrusiva nella vita delle persone.

La forma dello Stato sociale può fare, dunque, la differenza, scrive Sen: «quando l’aiuto sociale viene concesso in base alla diagnosi diretta di un bisogno specifico (ad esempio dopo aver verificato che una persona è affetta da una determinata malattia) ed è erogato direttamente, sotto forma di servizi specifici e non trasferibili (come una terapia per quella particolare infermità), si riduce in misura significativa la possibilità di una distorsione dell’informazione (…). Succede invece l’esatto contrario quando si finanziano cure mediche concedendo denaro liberamente utilizzabile, il che richiede un monitoraggio più diretto. Da questo punto di vista, l’erogazione diretta di servizi come l’assistenza sanitaria e l’istruzione è meno esposta ad abusi» e meno dispendiosa.

Lo Stato sociale che si regge sulle convenzioni tra il pubblico e gli erogatori privati di servizi può essere allora la strada verso nuove diseguaglianze, mentre, come ben sappiamo, non aiuta affatto ad alleggerire la spesa pubblica e, soprattutto, appesantisce il potere regolatore dello Stato e l’eventualità di corsie preferenziali pagate come favori (corruzione). Il controllo delle condizioni economiche effettive della persona che dovrà ricevere sovvenzioni e, poi, della qualità del servizio erogato dai privati convenzionati è generatore di burocrazia e di costi di gestione, come il sistema sanitario e scolastico americano stanno a dimostrare (per riformare il quale il presidente Obama ha mobilitato l’idea dell’eguaglianza delle condizioni di libertà).

La sinistra deve sfidare i teorici della monetarizzazione dei servizi proprio nel nome dell’efficienza del mercato e della libertà delle persone: questo può renderla attuale, ragionata e persuasiva. I diritti sociali che istituisce l’universalismo del welfare di base sono strutture non di mercato, che aiutano il mercato perché generano “capacitazioni” e creano possibilità di libertà; sono, cioè, occasioni di crescita economica e sicurezza sociale. I diritti sono investimenti, dunque, e le politiche che mirano a creare un’equa distribuzione delle risorse non sono solo moralmente giuste, ma anche economicamente vantaggiose. Questo è il messaggio che una sinistra democratica europea dovrebbe metabolizzare e proporre: un messaggio che ha i suoi fondamenti nel liberalismo e nell’economia del mercato. Qui sta la sua forza e la ragione del suo valore. Forza e valore di una sinistra che non si rassegna a soccombere all’ideologia del liberalismo liberista e non rinuncia a dare alla politica il proprio ruolo direttivo e la propria dignità, nel nome della libertà eguale.