Riforma previdenziale: completare la strada intrapresa

Di Elsa Fornero Venerdì 21 Marzo 2008 13:35 Stampa

Il «gradualismo» della riforma previdenziale: virtù o «furbizia»? Negli ultimi quindici anni, l’Italia ha approvato – non senza contrasti e lacerazioni – ben quattro importanti riforme previdenziali (le riforme: Amato del 1992, Dini del 1995, Prodi del 1997 e Berlusconi del 2004). Eppure si torna a parlare della necessità di una ulteriore riforma e l’incertezza pensionistica continua ad agitare i sonni degli italiani. Che si tratti della preferenza degli italiani per il gradualismo anziché per le «docce fredde», oppure dell’attitudine nostrana ad approvare le riforme sulla carta, per poi disattenderne, o rinviarne l’applicazione, non fa molta differenza: in entrambi i casi, le riforme rischiano di perdere di credibilità ancora prima di acquistare efficacia.

È questo il pericolo che corre oggi la riforma del 1995 e, con essa, il metodo contributivo di determinazione delle pensioni che ne rappresenta il cardine. Eppure si tratta della riforma più ambiziosa, quella maggiormente in grado di incidere alla radice non soltanto sugli squilibri finanziari, sulle iniquità e sulle distorsioni del sistema ma, più in generale, anche sul nostro modo di rapportarci con la previdenza pubblica.

Il metodo contributivo afferma in modo inequivocabile come le pensioni siano il frutto non già della «benevolenza» (spesso interessata) dei politici, ma al contrario del risparmio della vita lavorativa. Il finanziamento «a ripartizione» (cioè con destinazione, anno per anno, dei contributi versati dagli attivi al pagamento delle pensioni) maschera questo legame e rende il sistema simile a un programma di tax and transfer, in base al quale lo Stato, attraverso scelte politiche, «tassa» i lavoratori e tra- sferisce risorse ai pensionati. In realtà, in una ripartizione gestita nel rispetto dei vincoli finanziari vi è ben di più di un programma di risparmio personale per l’età anziana. Vi è un «contratto tra le generazioni», imperniato su parametri economici e demografici per la determinazione delle pensioni, in particolare sull’ammontare dei contributi versati durante tutta la vita lavorativa, sul tasso di crescita del Prodotto interno lordo e sull’età di uscita, dalla quale deriva la durata attesa del periodo di erogazione. Il «risparmio» (forzoso) dei lavoratori viene così remunerato – in modo uniforme tra gli appartenenti a una generazione – in base al tasso di variazione della massa contributiva (approssimato con il tasso di variazione del PIL: i due sono all’incirca corrispondenti nel lungo periodo), verificatosi tra il tempo del versamento e la successiva riscossione.

La politica può variare questa uniformità di trattamento a due condizioni: a) che rispetti il vincolo di bilancio intertemporale del sistema, presupposto per la sostenibilità dello stesso e per l’equità tra le generazioni; b) che introduca eccezioni rispondenti ad un criterio di giustizia, e non invece a vecchi e nuovi privilegi.

Alla prima condizione – che riflette la base «assicurativa» della previdenza – risponde proprio il metodo contributivo. Alla seconda – che adempie alla naturale e ineliminabile funzione redistributiva di un sistema pubblico – rispondono invece integrazioni di contributi e benefici a favore dei lavoratori meno fortunati e a carico della fiscalità generale. Lo scioglimento del legame pensioni-politica e la salvaguardia del sistema collettivo di risparmio per l’età anziana da calcoli di breve termine legati a interessi particolari sono stati i grandi obiettivi della riforma del 1995. Coraggiosa nell’ideazione del nuovo sistema, la politica è stata però molto più pavida nell’applicazione. Così, nelle secche di una lunghissima transizione (con le prime pensioni contributive in pagamento dopo il 2030), i buoni fondamenti su cui il metodo poggia appaiono oggi a rischio, sotto i colpi di interventi «dirigisti» del precedente governo (come la riforma del 2004) e del desiderio di una parte almeno dell’attuale maggioranza di ristabilire la supremazia della politica in materia previdenziale.

Si può fare meglio del contributivo? Eppure, il metodo contributivo – propriamente applicato – è l’unico compatibile con l’equilibrio pressoché automatico della ripartizione, e perciò con la sua sostenibilità di lungo termine, mentre non lo è la pretesa di distribuire sistematicamente più risorse di quante il sistema generi con i contributi.

Proprio perché le pensioni contributive costituiscono l’equivalente attuariale dei contributi versati, al metodo si imputa spesso di essere indebitamente «severo». Presa alla lettera, la critica implica che vi sia una più efficiente modalità di funzionamento del sistema previdenziale, in grado di corrispondere pensioni più elevate per lo stesso ammontare di contributi, o di richiedere minori contributi per lo stesso livello di benefici. Si tratta, a ben vedere, della vecchia disputa tra ripartizione e capitalizzazione.

Possono i mercati finanziari fare sistematicamente meglio del tasso di crescita del PIL, una volta che i rendimenti da essi offerti siano corretti per il maggiore rischio che vi è implicito? Franco Modigliani, ad esempio, ne era convinto, e invocava il passaggio a una capitalizzazione in mano pubblica, per godere dei benefici dei mercati finanziari a costi più bassi di quelli imposti dagli stessi mercati e con un rischio inferiore.

Una posizione forse più prudente considera però che nessuna delle due tipologie di finanziamento (ripartizione pubblica e capitalizzazione privata) è esente da incertezze. Quelle a cui è soggetto il sistema pubblico non si sovrappongono completamente a quelle tipiche di un sistema di mercato. Sul principio della non piena correlazione positiva tra i rendimenti attesi poggia il criterio della diversificazione del rischio, ossia del sistema misto, a più «pilastri», che ha ispirato tutte le riforme recenti. Un sistema strutturato, per l’appunto, in un primo pilastro pubblico a ripartizione equilibrato ed efficiente, in un secondo pilastro fatto di fondi pensione a carattere occupazionale, e in un terzo pilastro fatto di conti pensionistici individuali, acquistabili sul mercato, in una gamma di strumenti che procede da quelli collettivi, più rigidi ma meno costosi, a quelli individuali, più flessibili ma anche più onerosi. La visione del sistema misto è anche pragmaticamente dominante, nel senso che non prescinde dai problemi (proibitivi, nel caso italiano) della transizione dalla ripartizione alla capitalizzazione.

In ogni caso, è chiaro che gli attuali detrattori del metodo contributivo non hanno in mente soluzioni di mercato, ma si richiamano piuttosto a interventi politici in grado di «garantire», meglio del contributivo, l’adeguatezza delle future pensioni. Si torna così al dilemma precedente: la politica può intervenire a sostegno di lavoratori singoli, categorie o gruppi sfortunati, ma non può farlo a favore di tutta una generazione, se non trasferendone l’onere a quelle future, cioè ricorrendo al debito pensionistico. Una pratica del passato che proprio la riforma del 1995 aveva cercato di ostacolare.

Requisiti e vantaggi del pensionamento flessibile Grazie allo stretto collegamento tra contributi e prestazioni, il metodo contributivo riduce anche le inefficienze del precedente metodo retributivo, come gli incentivi all’evasione e la «tassa» sul proseguimento del lavoro, e assicura nel contempo spazi di libertà e di responsabilità individuali nelle decisioni di risparmio e di pensionamento.

Metodo contributivo e pensionamento flessibile sono, a ben vedere, due facce della stessa medaglia. Attribuire al lavoratore la facoltà di scegliere il momento del pensionamento – in base a elementi personali e familiari, che soltanto egli può conoscere – è cosa buona, ma la corretta applicazione di questo principio necessita di alcuni requisiti fondamentali, soltanto parzialmente presenti nella riforma del 1995. È necessario, anzitutto, che sia stabilita un’età minima di uscita, preferibilmente integrata da un livello minimo di pensione maturata: senza la prima, infatti, il sistema pubblico si snaturerebbe, finendo per trasformarsi in una semplice assicurazione privata; senza il secondo, si correrebbe il rischio di pensionamenti con vitalizi troppo bassi, bisognosi, prima o poi, di integrazioni a carico del bilancio pubblico.

Un secondo requisito consiste nell’adozione di una struttura di benefici che, a partire dall’età minima, faccia crescere la pensione secondo il principio della neutralità attuariale, di modo che alla continuazione dell’attività corrisponda un aumento della «ricchezza pensionistica » del soggetto, e non una sua diminuzione, come avviene con le pensioni di anzianità. È anche bene che l’aumento cessi a una certa età, oltre la quale la permanenza al lavoro dovrebbe cominciare a essere scoraggiata, in modo da facilitare il ricambio generazionale nelle imprese e, in ogni caso, al fine evitare la formazione di «gerontocrazie» nelle quali la continuazione dell’attività è motivata prevalentemente da ragioni di prestigio e di potere personale, e non dall’efficienza della produzione. L’individuazione di un limite superiore per la variazione dei benefici rappresenta perciò un terzo requisito del pensionamento flessibile.

La riforma del 1995 combinava questi requisiti stabilendo la fascia d’età 57-65 per la variazione attuarialmente equa dei coefficienti di trasformazione, di cui la legge prevede l’adeguamento ogni dieci anni, per tenere conto dei cambiamenti nella longevità. L’aggiornamento, previsto per il 2005, costituisce oggi materia di contenzioso tra governo e sindacati. La rigidità della fascia e la macchinosità della revisione dei coefficienti costituiscono due limiti della riforma del 1995. In particolare, se i 57 anni di età potevano considerarsi un minimo appropriato nel 1995, essi risultano oggi troppo bassi, e ancor più lo saranno in futuro con l’allungarsi della vita media. Non a caso i detrattori del metodo contributivo usano i «bassi» tassi di sostituzione (rapporto tra la prima pensione e l’ultima retribuzione) che risulteranno dalla sua applicazione, e li paragonano ai rassicuranti 70-80% risultanti dalla formula retributiva. Ciò che i detrattori non dicono è che quella certezza era ottenuta a prezzo di oneri impropri sulle generazioni future, mentre la formula contributiva svolge un importante ruolo segnaletico, mettendo in guardia il lavoratore dal rischio di uscire a età troppo giovani, con un vitalizio inadeguato. Anziché definire valori assoluti in un contesto demografico in continua evoluzione, sarebbe stato preferibile indicizzare i parametri alle variazioni della longevità (con revisioni – sia per la fascia, sia per i coefficienti – almeno ogni cinque anni), e una riforma in tal senso è sicuramente auspicabile.

Redistribuzioni buone e cattive Tra i vantaggi del metodo contributivo vi è la sostituzione della precedente differenziazione – che univa elementi di genuina solidarietà a una miriade di privilegi – con una parità di trattamento non incompatibile con la solidarietà, che anzi risulta incoraggiata dalla maggiore trasparenza del metodo.

La prima forma di parità è tra uomo e donna. L’opportunità di una diversa età di pensionamento per uomini e donne viene spesso sostenuta in base alle ragioni, culturali e sociali, che impongono alle donne un «doppio lavoro», aggiungendo all’occupazione retribuita (quando c’è) la maternità e le attività di cura dei familiari e della casa. Consentire alle donne un pensionamento anticipato potrebbe pertanto sembrare una naturale «compensazione». Così non è, però: la logica delle compensazioni a posteriori appare non soltanto obsoleta, ma anche potenzialmente dannosa, perché finisce per perpetuare le disuguaglianze, anziché ridurle. In particolare, se si tiene conto del peso crescente che il metodo contributivo avrà nella determinazione dei benefici, la fissazione di una più bassa età di uscita per le donne potrebbe addirittura portare ad uno svantaggio netto, visto che a carriere lavorative più brevi e discontinue corrispondono pensioni più basse. Tutto ciò non deve però indurre ad una ennesima critica del metodo, ma piuttosto al pieno riconoscimento, a fini pensionistici, delle attività di cura, così che queste non si riflettano negativamente sul reddito in età anziana. L’accredito di contributi figurativi per tali periodi è quin- di da preferirsi al differenziale nell’età di pensionamento, soprattutto se, essendo riconosciuto a entrambi i coniugi, non costringe donne e uomini entro ruoli di genere predefiniti (e, in ogni caso, le donne sono già avvantaggiate, per effetto della loro maggiore longevità, dall’utilizzo – a parità di età di uscita – di coefficienti di trasformazione unisex).

Il vero punto di attacco del problema non sono perciò le «compensazioni» ex post per gli svantaggi subiti, ma piuttosto le diverse condizioni di partecipazione femminile al mercato del lavoro: le donne presentano tassi di partecipazione più bassi di quelli maschili, remunerazioni mediamente inferiori, maggiori interruzioni di carriera. Il metodo contributivo mette giustamente l’accento sul lavoro come fonte di reddito anche nel periodo di pensionamento, ed è in questo ambito che vanno sanate le disparità. Per questo è criticabile il ripristino, operato dalla riforma del 2004, della differenza di età nel pensionamento di vecchiaia tra donne e uomini: 60 contro 65; invece di perseguire l’eguaglianza delle opportunità si torna all’ormai superata filosofia risarcitoria.

Queste considerazioni valgono anche per le carriere maschili povere, discontinue e peggio remunerate. L’individuazione a priori di fattispecie per le quali prevedere contribuzioni nozionali a carico del bilancio pubblico si può aggiungere ad altre misure, come il riconoscimento di maggiorazioni di anzianità per i lavori più faticosi, l’anticipazione dell’età di uscita per lavori particolarmente usuranti, la «totalizzazione» dei contributi affinché nessun euro vada perduto. Tutti questi aggiustamenti sono possibili e, se realizzati in modo trasparente, rappresentano un’importante ragion d’essere del sistema pubblico. Non costituiscono invece l’alibi per contrastare il metodo contributivo perché troppo poco generoso.

Completare la strada intrapresa, non abbandonarla Nonostante tutti i suoi meriti, il metodo contributivo non ha mai ottenuto un pieno riconoscimento. Non c’è però da stupirsi se una riforma che andrà «a regime» soltanto dopo il 2030 sia poco sentita. La riforma ha inoltre scontato una comunicazione riduttiva sui suoi contenuti, incluso il ricorso a «espedienti» tecnici per convincere che si sarebbe trattato di piccoli tagli. Così, dopo dieci anni, un fondamentale aspetto di trasparenza, l’invio ai lavoratori del loro «estratto pensionistico», continua a mancare. Ed è la timidezza della fase di attuazione che ha reso necessari gli interventi successivi: per quanto buono fosse il disegno a lungo termine, era chiaro che il paese non avrebbe potuto attendere oltre un cin- quantennio per vederlo realizzato. Di qui la riforma del 2004, che affronta il problema dell’età di pensionamento con maggior determinazione (ma anche con maggiore rozzezza) di quanta sia stata usata in passato.

In questa riforma, il proposito (buono) di aumentare l’età media di pensionamento è stato perseguito con un misto di strumenti poco efficaci (il bonus) oppure alquanto discutibili (lo «scalone»), e per di più mandando sostanzialmente in soffitta il principio della flessibilità nel pensionamento. Se l’inasprimento, tra il dicembre 2007 e il gennaio 2008, dei requisiti per la pensione di anzianità, con l’aumento di tre anni (da 57 a 60 per i lavoratori dipendenti o da 58 a 61 per gli autonomi) per l’età da abbinare ai 35 anni di contribuzione è troppo drastico per essere socialmente accettabile, meno clamore ha suscitato l’ancor più sensibile (e contemporaneo) aumento, per i lavoratori maschi, dell’età minima richiesta per la pensione contributiva: da 57 a 65 (la fascia è infatti mantenuta soltanto per un’anzianità contributiva di 40 anni). Il provvedimento non può certo dirsi in sintonia con il tanto sbandierato pensionamento flessibile.

Cancellare lo «scalone» è possibile ma oneroso, perché si perderebbero i sensibili risparmi di spesa che esso permette invece di realizzare (circa 9 miliardi di euro nei prossimi anni). Il rischio peggiore, però, è che si realizzi uno «scambio» tra l’attenuazione (invece della cancellazione) dello scalone e la mancata revisione dei coefficienti di trasformazione. Questo scambio va rifiutato, e anzi occorre recuperare il non fatto proprio in termini di applicazione del metodo contributivo. Ciò significa, anzitutto, l’applicazione pro rata del metodo per tutti i lavoratori, indipendentemente dal numero di anni residui di lavoro. A distanza di dieci anni, la misura è sicuramente blanda, e perciò stesso indolore. Il secondo «recupero» riguarda la revisione senza indugio dei coefficienti di trasformazione: l’adeguamento non è un optional, bensì un elemento fondante del nuovo metodo.

Un terzo elemento dovrebbe consistere nel rivedere la fascia dell’età di pensionamento, indicizzandola alla longevità. Questa revisione – ipotizzabile, come per i coefficienti, ogni 3-5 anni – dovrebbe servire anche per fissare l’età minima per il pensionamento di anzianità, com’era nello spirito della riforma del 1995, in cui il limite inferiore della fascia coincideva con l’età minima per la pensione di anzianità. Analogamente, e nella prospettiva di tassi di sostituzione più elevati, il limite superiore per la variazione degli stessi coefficienti non dovrebbe più fermarsi ai 65 anni, ma crescere anch’esso con la longevità. Tutto ciò consentirebbe di ridurre la disparità di trattamento implicita nella revisione soltanto decennale dei coefficienti; di superare lo «scalonissimo» (per il contributivo) da 57 a 65 anni, previsto dalla riforma del 2004; di ripristinare l’eguaglianza tra uomini e donne per quanto concerne l’età di uscita.

Un ultimo adempimento, finora disatteso, deve ancora aggiungersi: la comunicazione regolare e trasparente, da parte degli enti previdenziali (o magari dell’unico ente), di quanto accumulato dai lavoratori con i contributi versati fino a una certa data. Si darebbe così finalmente attuazione al principio della libertà di scelta dell’età di pensionamento, una scelta però responsabile e non determinata da incentivi perversi, né da regali impropri. Una revisione del nostro sistema previdenziale in tal senso è ancora possibile, e sicuramente auspicabile. Anzi, a ben vedere, l’unica «riforma» che abbia oggi veramente senso è dare attuazione a quella già fatta sulla carta più di dieci anni fa.

Una notazione a margine è che, in un momento in cui i privilegi della classe politica sono sotto accusa, non si può ignorare come, nell’affrontare la questione previdenziale, la classe politica dovrebbe anzitutto guardare proprio a se stessa. Fa un certo effetto che a decidere delle pensioni (degli altri) siano soggetti che in trenta mesi di lavoro parlamentare ottengono un trattamento che la generalità degli italiani non raggiunge in trent’anni. Ai parlamentari si stanno aggiungendo a ritmo impressionante i politici impegnati nelle amministrazioni locali, anch’essi trattati con particolare favore; e non sono poche le categorie che ancora godono di privilegi pensionistici non giustificabili (o giustificati con non meglio precisate ragioni di «prestigio dell’istituzione»). Di queste situazioni (che riguardano svariate centinaia di migliaia di italiani) occorrerebbe fare un censimento, preliminare alla presentazione di un programma graduale di riduzione delle pensioni privilegiate. Forse l’effetto sulla spesa (rapportato al disavanzo complessivo della finanza pubblica) non sarà di rilievo decisivo, ma gli esempi e i simboli hanno di per sé grande importanza, e diffondono, meglio di qualunque appello, il senso della necessità di una qualche rinuncia.