Le primarie del fast food: kebab vs. Big Mac

Di Marino Niola Venerdì 30 Novembre 2012 12:11 Stampa

Il cibo ha anche una valenza politica, come dimostra la cosiddetta “guerra del kebab” condotta nella primavera del 2009 da un consigliere regionale della Lega Nord, campagna deprecabile sia per la sua carica xenofoba che per la sua mancanza di senso storico. Il cibo è infatti quanto di meno autoctono ci sia, frutto com’è di mescolanze e prestiti, e la cucina è per defi nizione etnica e meticcia. Di fronte all’alternativa secca “kebab vs. Big Mac” allora non sarebbe meglio andare oltre il ring digitale del villaggio globale e scegliere ad esempio la pizza napoletana, cibo che più di ogni altro riesce a coniugare i tempi del fast con il gusto dello slow?

Chi vincerebbe oggi le primarie tra kebab e Big Mac? Nel wrestling virtuale del web, tra i due fast food per eccellenza la sfida è aperta. Si accettano scommesse, si inventano tornei su YouTube, si gioca con l’ambiguità degli stereotipi alimentari. Ma il gioco è pericoloso. E la partita non è sempre gioiosa. Tanto che in certi casi lo scontro assume toni da guerra di civiltà. Si parla di “Big Mac Attack” per descrivere l’attrazione fatale esercitata dal panino con la “M”. Ma anche per indicare la forza di penetrazione di questo prodotto. Un misto di demonizzazione e di colonizzazione. Cosicché il panino di Poldo diventa oggetto di nuovi e antichi strali antiamericani, la testimonianza della vocazione imperialista degli yankees. Dall’altro lato, e per giunta proprio dall’Italia, si invocano crociate per liberare dal kebab i centri storici della Lombardia. I toni sono quelli parodistici, ma lugubri, della farsa che rievoca la tragedia.

Come si vede, l’esito di simili primarie non è scontato. Ma un dato è certo: in questa fantasiosa “cibomachia” forse il risultato del match ancora dipende dalla realtà dei luoghi, o dalla irrealtà dei non-luoghi, in cui il cibo si desidera, si offre o si consuma. In solitudine o in compagnia. Il cibo in sé conta, eccome. Ma forse ancora più importanti sono i significati che assume per noi, le relazioni che crea e i contesti in cui esso è prodotto, consumato, desiderato. Ridurre il cibo a merce e basta è da sempre un delitto. Esso dovrebbe essere offerto, scambiato, donato, barattato, garantito, redistribuito. Perché è il carburante della società umana. Che, al contrario di quel che continuano a pensare i thatcheriani di ieri e di oggi, esiste, eccome. Il cibo, la cucina e le pratiche alimentari sono lo specchio della vita sociale, la dimostrazione concreta della necessità di una interdipendenza solidale, pacifica, equa tra gli abitanti del pianeta. Purtroppo, non è ancora alle porte una razione “K”, un minimo comune alimentare garantito a tutti per il fatto stesso di essere umani. La lotta per la difesa dei beni comuni nasce per questo. E siamo, peraltro, ancora lontanissimi dalla definitiva rottamazione o dalla messa fuori legge del junk food.

È ormai lontana per noi l’epoca in cui carusi siciliani e scugnizzi napoletani se ne dicevano di tutti i colori usando un idioma culinario. Una contrapposizione a forza di stereotipi alimentari tra “mangiafoglia” e “mangiamaccheroni” di cui Emilio Sereni ricostruì mirabilmente la storia e le ragioni, inventando, di fatto, una nuova disciplina: la storia culturale dell’alimentazione. E dove “mangiamaccheroni” erano i siciliani, perché fino al Settecento non era la pasta il cibo prediletto dai partenopei. Affinché ciò accadesse, infatti, fu necessaria la nascita dell’industria dei maccheroni, strettamente connessa con il fenomeno dell’emigrazione. Con buona pace dell’americanismo, e insieme del politically correct, credo che il duello postmoderno fra kebab e Big Mac non possa neanche lontanamente rivaleggiare con quel mirabile contrasto fra isolani e vesuviani, fra mangiatori di “trie” tirate a mano e divoratori di minestre maritate. In questa impari lotta postmoderna fra il Davide e il Golia dei fast food, la scissura fra Oriente e Occidente è di pura fantasia. In realtà, ormai sappiamo che la globalizzazione ha solo fatto fi nta di mettere in contrasto il global con il local: le teorie del glocalismo lo hanno ampiamente mostrato. D’altronde, anche dal punto di vista alimentare la rivolta dei cibi local ha avuto spesso come obiettivo una forma alternativa di globalizzazione. In fondo, è giusto, più che ovvio, che ogni cibo subalterno punti a un successo, uno sviluppo che, prima o poi, lo trasformi in un mainstream food. Ormai anche le osterie local, le aziende agroalimentari a chilometro zero, i produttori di tipicità paesane si chiedono cosa diranno o faranno “i mercati”. E giustamente. Perché un altro fast food è possibile.

Ma come sempre la soglia di ciò che ci sembra accettabile ha un limite. Soprattutto alla luce del rapporto fra una sacrosanta libertà alimentare e le magnifiche sorti e progressive della convivenza democratica. Come giudicare, ad esempio, la crociata antikebab di alcuni amministratori leghisti? La veemenza di Daniele Belotti, consigliere della Lega Nord alla Regione Lombardia, che nella primavera del 2009 diede il via alla cosiddetta “guerra del kebab”, riuscendo a ottenere una legge regionale che andava in quella direzione, sarebbe stata degna di miglior causa. Ci sarebbe da ridere, se la risibile primavera antiaraba del consigliere leghista non fosse stata perfettamente in linea con una agenda xenofoba insieme furba e maldestra. In grado di suscitare paure antiche e nuove. Mescolando il mai dimenticato “mamma li turchi” con gli umori più torbidi del conservatorismo globale, neo e teo. Risultato: una epidemiologia della paura. Che resta sempre il più collaudato strumento di un consenso politico ombelicale, che bypassa la testa per rivolgersi direttamente alla pancia. In un articolo apparso su “Gastronomica. The Journal of Food and Culture”, Francesco Capello, italianista della University of Kent, uno dei nostri cervelli in fuga, ha parlato di tecniche di produzione della paura. Che fanno del kebab un pretesto da guerra di inciviltà. E, oltretutto, fanno dimenticare che per l’italian food il colosso del panino globale costituisce una minaccia molto più seria dei venditori di kebab.

Il made in Italy alimentare è fatto di differenze molteplici e di ricchezze regionali variabilissime, nate proprio dalla fusione di tradizioni etniche lontane e diverse, fra le quali quella mediorientale occupa uno spazio molto significativo. Furono gli arabi i primi a coltivare i limoni, a introdurre l’uso del “sale dolce”, ovvero dello zucchero, nel Mediterraneo, a invadere la Sicilia con sorbetti da mille e una notte, fatti con la neve immacolata dell’Etna. Questa memoria corta non tiene neanche conto del dibattito contemporaneo che attraversa teoria ed economia del cibo. Dove un posto d’onore spetta proprio a quella che gli studiosi hanno definito “kebab economy”: una filiera di grande successo nata, guarda caso, in Germania, la patria d’origine dell’hot dog, altrimenti detto “frankfurter”. Lo sapeva bene la cancelliera tedesca Angela Merkel, che proprio nel 2009 si fece sapientemente immortalare, in una foto apparsa sul “Wall Street Journal”, con in mano una specie di machete, intenta ad affettare un enorme döner kebab turco. Il titolo, vagamente allusivo, recitava: “There’s nothing more German than a big, fat, juicy döner kebab”.

In Germania (come anche in Finlandia), infatti, grazie alla storica immigrazione turca, la kebab economy si è conquistata una notevole fetta di mercato, senza entrare in competizione con i prodotti tipici locali. In questo senso, il business del montone che rotea come un derviscio diventa una sollecitazione a revocare in questione alcuni articoli di fede dell’economia occidentale. A ripensare l’homo oeconomicus su base sostantivista e non formalista. Alla Polanyi. Perché l’economia non è mai sola con se stessa e con le sue astrazioni. Al contrario, è sempre incarnata nella vita. Se si recide la radice umana e sociale dell’economico – che affiora nell’atto magico della cucina come in quello sacro della commensalità (la condivisione del pane, il cum-panis, da cui nasce la parola compagno) – non si può che avere uno sviluppo senza cuore. Con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti: isolamento, solitudine, sofferenza, impoverimento.

E, oltretutto, l’autoctonia è un mito, sul piano gastronomico come su quello sociale. Le nostre identità alimentari sono un variegato tessuto di differenze. Quando studiamo i cibi-bandiera, nostri e altrui, scopriamo quanto la loro denominazione di origine sia incontrollata. La storia dell’alimentazione è frutto di migrazioni, di mescolanze e di prestiti. Perché quel che lega un cibo a una terra – proprio come quel che lega un costume a un popolo – non è la nascita, ma l’adozione. La cucina è per definizione etnica e meticcia. Perfino il piatto più tradizionale e la più locale delle tipicità hanno dentro la traccia dell’altro. Sono il frutto di un matrimonio misto. La storia dei prodotti autoctoni è fatta di contaminazioni e migrazioni. Di seduzioni e di colonizzazioni. E, soprattutto, di integrazioni. Ogni ricetta non è altro che la mescolanza di ingredienti diversi, che diventano una sola cosa. Si integrano. La dieta mediterranea non sarebbe mai nata senza l’americanissimo tomato. È solo nell’Ottocento, infatti, che la salsa rossa trionfa grazie all’incontro con la pasta. Altra gloria nostrana che ci giunge dal mondo arabo. In realtà il cibo è il più universale dei linguaggi umani. Unisce gli individui, laddove le ideologie, le culture e le nazionalità li dividono. Indagando sui divieti culinari imposti da diverse religioni, ho provato a far sedere a tavola due miei studenti di culture che si stimano opposte. I due giovani si sono rivelati molto meno diversi attorno alla tavola e il loro rapporto col cibo si assomigliava quasi in tutto.

D’altronde, in Italia un discorso di democrazia alimentare parte in vantaggio. L’antagonismo culinario è ormai una realtà consolidata, una forza di governo delle nostre tavole quotidiane, ispirata a un riformismo radicale e ben temperato. Mi riferisco al movimento Slow Food di Carlo Petrini. Un movimento che nacque in controtendenza, cioè negli anni Ottanta del Novecento. Quelli di Reagan e Thatcher, di Chernobyl e dello scandalo del vino al meta nolo, quando si recitava il de profundis per la scomparsa dei sapori d’antan. E tutti sembravano rassegnati a subire ogni capriccio della modernità in nome della necessità del cambiamento. In quel contesto di globalizzazione incipiente e di mcdonaldizzazione trionfante, un’avanguardia di bastian contrari decise di remare contro l’onda yuppie e il cibo spazzatura, in nome del gusto e del mangiare genuino. A difesa delle biodiversità alimentari, dei saperi tradizionali e delle cucine locali.

Ironia a parte e pur con tutta la vicinanza alla giusta battaglia morale e salutista contro la dissacrante mcdonaldizzazione del nostro pane quotidiano, non si può tacere che i toni da crociata sono sempre controproducenti e sbagliati, quale che sia il loro obiettivo. Oltre al rischio di trasformarsi in forme di stigmatizzazione oggettivamente inique, al di là delle intenzioni. Coloro che soffrono di “attacchi da Big Mac” sono, infatti, gli outcasts del villaggio globale. Come gli obesi. Prima presi per la gola dal mercato planetario del junk food, di cui sono gli insaziabili finanziatori. E poi stigmatizzati da quanti li additano alla pubblica condanna come onnivori compulsivi, parassiti improduttivi, soggetti senza volontà, bombe a tempo per il sistema sanitario, insostenibile sovrappeso per il welfare. Come dire umiliati e obesi. E anche puniti. Tanto è vero che guadagnano mediamente il 18% in meno dei normopeso. Lo dimostra, cifre alla mano, una recentissima ricerca svedese.

La morale della storia è che di fronte all’alternativa secca, “kebab vs. Big Mac”, sceglierei la terza via. Mi verrebbe da chiedere che fine ha fatto l’hot dog? O forse è proprio il kebab l’incomodo che rischia di vincere la guerra di posizione fra Big Mac e frankfurter? Piuttosto, non sarebbe meglio andare oltre il ring digitale del villaggio globale, per vedere cosa bolle nella pentola verace della società italiana, europea, mondiale? E magari candidare anche la pizza napoletana, cibo che più di ogni altro riesce a coniugare i tempi del fast con il gusto dello slow? Perché è un hardware gastronomico compatibile con qualsiasi software. Infatti, ci si può mettere sopra di tutto, perfino il montone come a Ulan Bator o il curry come a Mumbai, ma sempre pizza rimane.

Ma, se è proprio inevitabile partecipare alle primarie del fast food, allora il mio candidato è il pesce fritto! Umile e prelibato, semplice e raffi nato, emblema di un mangiare democratico. Di una comunione evangelica, come quella degli psaria, i pescetti che Cristo moltiplica per sfamare le masse. Non a caso, il cartoccio di frittura mista è sempre presente dove la vita popolare esplode allo stato fusionale, e confusionale. Nelle piazze, nelle feste, nei mercati. Negli angiporti fumosi di Genova e nei vicoli concitati di Napoli, nella judería di Siviglia e nelle marisquerías di Cadice, nei fish and chips londinesi e nelle atmosfere anseatiche del Fischmarkt di Amburgo, con le sue friggitorie ambulanti che, a partire dalle sei del mattino, servono tonnellate di pesce fritto a un popolo da “Soul kitchen”. Non solo street, non solo fast, ma anche “fest food”. Sì, col pesce fritto alle primarie si può ancora sperare di vincere la partita.