Spettri di democrazia

Di Geminello Preterossi Mercoledì 03 Ottobre 2012 14:42 Stampa

Quella che si sta espandendo nel web è vera democrazia? Oppure è solo una sua illusione, che si esaurisce in una sorta di “democrazia emotiva virtuale”, che alla prova dei fatti risulta ininfluente sulla reale agenda politica e che è soggetta più di quanto si creda a manipolazioni di stampo populistico? La stessa mediatizzazione della politica rischia, più che approdare a una vera partecipazione, di degenerare in demagogia, come è avvenuto negli ultimi vent’anni in Italia. Per porvi rimedio bisogna che la politica più solida lanci dei segnali forti, sostanziali e simbolici, evitando di ripiegarsi su se stessa.


Uno spettro si aggira per l’Occidente (e, in modo rilevante, anche in Italia): la web-democrazia. Che a detta di molti rappresenterebbe il pieno compimento di una società trasparente, orizzontale, libera dalla delega. È davvero così? E sarebbe un’ipotesi auspicabile, senza controindicazioni? Oppure si tratta della rappresentazione ideologica di un fenomeno cospicuo ma ambivalente – la dimensione sociale dei nuovi media –, da indagare criticamente, senza pregiudizi né adesioni fideistiche? La web-democrazia è la risposta alla crisi delle istituzioni rappresentative (cui sistematicamente si associa, fatto che dovrebbe suscitare qualche preoccupazione e cautela) o non piuttosto una tendenza che accompagna la generale deriva postdemocratica delle società occidentali? Ovviamente, non ha senso negare le grandi opportunità che il web offre. È evidente che si tratta di strumenti utilissimi e dalle notevoli potenzialità. Ma è anche puerile vedervi la rivoluzione tecnologica che determina una nuova antropologia politica democratica. Forse è più saggio coltivare qualche igienico dubbio. Primo: a cosa serve internet? E a chi serve? Certamente all’autopromozione individuale, all’acquisizione di informazioni, al contatto virtuale tra un gran numero di utenti. Internet consente tutto ciò a costi bassi e senza significative barriere all’ingresso (almeno per ora). Ma quanta informazione seria, quanta conoscenza fondata e quanta paccottiglia troviamo nel mare magnum del web? E come distinguere tra esse? I criteri non li fornisce internet, ma sono ovviamente formati all’esterno, attraverso il processo educativo e l’acquisizione di sapere critico. Non solo: internet offre un surrogato di vita sociale, dando la sensazione di un flusso di comunicazione sempre aperta, basica, poco onerosa, potenzialmente illimitata (che è altra cosa, però, da una relazione incarnata e da una comunità sociale reale); appare anche come uno spazio virtuale sconfinato, che tende ad azzerare, almeno sul piano delle immagini e delle narrazioni di sé e degli altri, la distinzione privato-pubblico, favorendo esibizionismo e voyeurismo di massa. Infine, serve moltissimo a vendere e consumare. Ergo: serba una logica fondamentalmente privatistica e impolitica.1

Il web è il regno della libertà? Intanto, com’è noto, i tentativi di imbrigliare la rete sono già significativi. Ma soprattutto i “giganti” che operano sul web (Google e Facebook) sono potenze private chiaramente volte all’appropriazione e alla monopolizzazione dello spazio virtuale al fine del suo sfruttamento. Ciò produce inevitabilmente un rischio di controllo e condizionamento e, soprattutto, distribuisce potere reale in modo ineguale. Lo fa spesso in modo smart: ma sempre di una forma di potenza si tratta. Una potenza economico-tecnologica globale, monopolizzata da pochi grandi soggetti privati (quindi politicamente irresponsabili), che mira a una sorta di “pop-egemonia”.

Ma chiediamoci anche quali siano le conseguenze per la politica di questa ennesima bolla ideologica globale (che è altra cosa, lo ribadisco, dalla comprensione razionale e dall’uso reale del web). La prima è quella di doversi confrontare con una sorta di “democrazia emotiva virtuale”, in cui il consenso rischia di essere sempre più condizionato da suggestioni immediate e mutevoli, ininfluenti sull’effettiva agenda politica, la cui gestione non a caso viene sempre più rimessa a “tecnici”: della serie, emozionatevi, appassionatevi pure a personaggi, a icone virtuali, a vicende particolari e secondarie in grado di catalizzare l’attenzione pubblica, ma non pretendete di orientare la politica economica e sociale, di contribuire effettivamente a decisioni di medio-lungo termine, perché qui vige lo stato di necessità. Al limite, appassionatevi e dividetevi su questioni identitarie, emotivamente cariche, come quelle bioetiche, religiose ecc. Ora, non sarò certo io a negare il peso delle passioni in politica: il problema è capire se l’effervescenza della società della comunicazione, che attraverso il web dovrebbe travasarsi direttamente nelle istituzioni, consenta un’espressione non frammentaria, duratura, organizzata e perciò incisiva e razionale delle passioni oppure se si tratti solo di sfoghi impolitici. E se l’apparente movimento dal basso e orizzontale, spontaneo come un’emozione, che sembra caratterizzare strutturalmente il web sia effettivamente immune da manipolazioni (ad esempio, attraverso le tecniche del marketing virale applicato alla politica).

Un altro aspetto su cui riflettere riguarda la mediatizzazione della politica: posto che si tratta di un dato ineliminabile, va in qualche modo limitato con opportuni anticorpi (innanzitutto, tornando a occupare stabilmente spazi sociali, ma anche regolando il complesso dei media con molta attenzione agli equilibri democratici) oppure va cavalcato in direzione di un’americanizzazione estrema, con il suo carico di personalizzazione, strapotere del denaro, banalizzazione del discorso pubblico? Siamo sicuri che il web sia l’unico o il principale argine contro le grandi concentrazioni dei media della comunicazione, soprattutto televisiva? E il discorso pubblico in rete, oltre a consentire in certi casi l’espressione di posizioni critiche alternative e la diffusione di notizie altrimenti occultate o sottovalutate, non ha in sé anche una carica di personalizzazione, semplificazione, demagogia, che può saldarsi con una politica svuotata, supportando leadership mediatiche che non esprimono una cultura precisamente democratica, ma mirano a costruire fedeltà gregarie? Il costituzionalista ex consigliere di Obama Cass Sunstein ha sostenuto di recente che «le nuove tecnologie, compreso internet, rendono più facile alla gente ascoltare le opinioni di quelli che la pensano come noi, ma isolano quelle di coloro che la pensano diversamente». Ciò può favorire pregiudizi autoconfermativi e polarizzazione. Quindi, pur senza esagerare nel sottolineare questi rischi, e valorizzando l’indubbia funzione di denuncia del potere arbitrario che il web consente (assai rilevante soprattutto laddove i diritti civili non sono garantiti), possiamo dare per scontato che il web “costitutivamente” – come ritengono gli entusiasti – renda il discorso pubblico più aperto, informato e critico? È più che ragionevole avere delle perplessità. E, poiché questa apertura critica del discorso pubblico, che assicura un certo standard di qualità del consenso, è una precondizione fondamentale di una democrazia ben funzionante, ormai minacciata da vari fronti, occorre stare attenti alle identificazioni facili tra internet e democratizzazione. Del resto, anche nelle primavere arabe, internet, oltre che i cellulari, sono stati mezzi essenziali, non le fonti contenutistiche dell’energia politica che lì si è espressa. La quale, infatti, si è poi travasata in piazze reali e ha successivamente incontrato gli ostacoli e le difficoltà proprie di ogni processo di transizione, nel quale si confrontano poteri reali e non virtuali e si manifesta la volontà di larghe masse, che durante la fase “movimentistica” e tumultuosa del cambiamento non avevano avuto modo di esprimersi. Insomma, indubbiamente ci sono movimenti politici significativi nati nel web o che comunque se ne sono assai giovati (la prima campagna elettorale di Obama, i Pirati in Germania, gli Indignados e il movimento Occupy Wall Street, i vari gruppi di dissidenza nei tanti regimi autoritari sparsi nel mondo ecc.). Web che si è dimostrato particolarmente permeabile al bisogno diffuso di dare voce a istanze e ideali che non trovano espressione nei canali politici tradizionali. Ma questi movimenti devono poi essere in grado di uscire dal web, di tradursi in un’azione reale e propositiva, di imporre un’agenda diversa ma concreta. E poi si pone anche per loro un problema di rappresentanza, di organizzazione interna, di regole di funzionamento democratico e di rapporto con le istituzioni. Infine, non tutti i movimenti “virtuali” sono progressivi, per il solo fatto che nascono nel web e sembrano “nuovi”. Guardando all’Italia, sarà bene non dimenticare che nell’ultimo ventennio, paradossalmente, la cultura del rifiuto della delega, della rappresentanza, ha portato alla delega in bianco, alla consegna all’Uomo della Provvidenza, al trionfo della “rappresentazione”. Questa dinamica, non casuale, non può essere nuovamente rimossa. Come invece tende a fare quella parte di classe dirigente – giornali, TV, poteri finanziari ed economici – che è tentata gattopardescamente di cavalcare il nuovismo politico per canalizzare lo scontento verso soluzioni quietiste, al fine di evitare lo spauracchio di opzioni politico-sociali chiare, ad esempio quella di una rinnovata via socialdemocratica (peraltro da delineare ed esplicitare meglio, con più forza e nitidezza) per fronteggiare la crisi. È ovvio che la politica (più) “solida” deve anche aiutarsi da sola, dando segnali forti, sostanziali e simbolici e non ripiegandosi su se stessa. Che i partiti tradizionali abbiano un problema di credibilità, di rapporto con la società, di apertura all’esterno, di selezione e qualità della classe dirigente e della rappresentanza è infatti indubitabile. Per evitare che questa crisi di legittimazione diventi il terreno di coltura di nuovi populismi, di nuove fughe nell’irresponsabilità e nella semplificazione, sarà bene porsi il problema di recuperare il “popolo” su contenuti sociali e ideali netti e simbolicamente carichi.

 

 


[1] A tale proposito si veda C. Formenti, Se questa è una democrazia. Paradossi politicoculturali dell’era digitale, Manni, San Cesario di Lecce 2009.