Il punto sull’UE

Di Giuliano Amato Mercoledì 03 Ottobre 2012 11:42 Stampa

Non sono sconvolgenti, ma sono ripetuti e continui i cambiamenti che intervengono nell’Unione europea e in particolare nell’eurozona. Per questo fare il punto su di essi è un’esigenza alla quale non è facile tener dietro e a stento riesce a farlo la nostra rivista, ora che da bimestrale è diventata mensile. È importante seguirli, registrarne i possibili effetti e soprattutto capire in quale direzione ci stanno portando.

Si tratta nell’insieme di innegabili passi avanti nel rafforzamento del governo economico e finanziario dell’eurozona e non meno innegabile è che il più lungo e il più efficace lo ha fatto da ultimo la BCE, con la sua decisione, fortemente voluta da Mario Draghi, di sostenere con mezzi “illimitati” gli Stati membri virtuosi, magari assoggettandoli a rigorose condizioni e controlli. È evidente che una tale decisione, ben più della costituzione del fondo salva-Stati con le sue risorse limitate, può arginare e calmare i nervosismi dei mercati e portare lo spread dei paesi sotto tiro a livelli più accettabili (come infatti è già accaduto). Altrettanto evidente è che la riduzione dello spread, oltre a giovare agli Stati debitori, proietta i suoi effetti positivi anche sulle loro economie, giacché riduce i costi bancari e assicurativi delle stesse imprese, gravate dal medesimo spread e tanto più handicappate rispetto ai loro concorrenti esteri, quanto più esso è elevato. Guai però a pensare che il “bazooka” della BCE basti da solo a risolvere i nostri problemi. La riduzione duratura del debito pubblico e la sorte dell’economia, come ben sappiamo, dipendono nel medio termine dalla ripresa della crescita. E la ripresa della crescita, oltre che da appropriate politiche nazionali delle quali non è il caso qui di parlare, dipende a sua volta da scelte e da politiche europee, che rimuovano o quanto meno correggano gli squilibri esistenti, operando una redistribuzione diversa da quella provocata dalle vicende recenti dell’euro, che tanto nell’allocazione delle risorse fi nanziarie quanto nel commercio dei beni favoriscono i paesi più forti, e in primo luogo la Germania. È questo il cuore della questione ed è qui che ci accorgiamo che essa è politico-istituzionale prima ancora che economica. Basti pensare a come la vedono le opinioni pubbliche nazionali e al divario che si è creato fra quelle dei paesi del Nord e quelle dei paesi del Sud, tra le quali si va perdendo ogni solidarietà e va anzi crescendo una inquietante ostilità reciproca. Nei paesi del Nord ci si sente costretti a pagare per gli sprechi dei paesi del Sud, nei paesi del Sud ci si sente assoggettati a vincoli voluti da quelli del Nord e fi nalizzati alla loro tutela. Non ha importanza che siano valutazioni giuste o sbagliate. Ha importanza che possano acquistare una forza suffi ciente a scardinare i meccanismi economici e fi nanziari sin qui messi a punto e a mettere a repentaglio lo stesso tessuto dell’unità europea, sulla base dell’unico punto su cui le diverse posizioni concordano, la comune ostilità verso l’Europa, o quanto meno verso l’Europa com’è. Un rischio, questo, che può solo essere avvicinato dal gran parlare che c’è in diversi paesi di un referendum sull’euro, sia pure con il nobile scopo di trovare la legittimazione democratica che si avverte carente. Vado sostenendo da tempo che c’è un unico modo di uscire da questa trappola e, allo stesso tempo, di aprire la strada alle politiche europee che all’interno di essa sono impossibili: riproporre non come visione utopica e lontana, ma come prospettiva conveniente già domani quella di un’Europa di stampo federale, che in quanto tale abbia un potere sovranazionale in grado di effettuare le politiche necessarie, e allo stesso tempo di non farci sentire prigionieri gli uni degli altri. Non dimentichiamo quello che decidemmo di fare con il Trattato di Maastricht e le ragioni per cui lo facemmo. Allora decidemmo che per garantire la solidità dell’euro non era necessario affi ancarlo con un potere “federale” in materia economica e fi scale, ma bastava il coordinamento delle politiche economiche e fi scali dei singoli Stati membri. Non so quanto ne fossimo realmente convinti, giacché gli argomenti in primo luogo tecnici che dimostravano il contrario erano già allora forti e fortemente sostenuti. So che la stragrande maggioranza dei governi fece questa scelta per salvaguardare le autonomie e le responsabilità nazionali. Su questa base inventammo complesse procedure di coordinamento, nutrite di analisi, documenti, ammonimenti e raccomandazioni, che gira gira lasciavano comunque la responsabilità delle decisioni ai governi. Certo è che appena le cose andarono per il verso storto, i primi a violare i criteri comuni furono proprio i paesi più forti, la Francia e la Germania. E quando poi è scoppiata la grande crisi, abbiamo trovato naturale e inevitabile rimanere sulla strada su cui eravamo, trasformando in vincoli e obblighi quelle raccomandazioni che prima erano rimesse alla attuazione degli Stati. È a questo punto che si è formato il bubbone delle ostilità e dei dissensi, perché i vincoli e gli obblighi, proprio in ragione della loro fonte intergovernativa, sono apparsi dovuti non a una superiore volontà europea, ma alla volontà degli uni nei confronti degli altri. Non a caso la ricerca di una loro legittimazione democratica si è rapidamente orientata, non verso il Parlamento europeo, ma verso i Parlamenti nazionali. Ed ecco la Corte costituzionale tedesca fare da capofi la di un indirizzo che arricchisce e complica il “labirinto decisionale” intergovernativo con cadenzate autorizzazioni di tali Parlamenti. Confrontiamo allora il punto di partenza con quello al quale stiamo approdando. Avevamo preferito il coordinamento intergovernativo alla soluzione di tipo federale, per lasciare più libertà e più scelte ai livelli nazionali. Ora quei livelli sono assai meno liberi di quanto lo siano nelle organizzazioni federali e meno libere sono le stesse autonomie territoriali esistenti al loro interno. Le opinioni pubbliche nazionali ne sono consapevoli e reagiscono con tensioni divaricanti e centrifughe. Ha senso tutto questo? Non è il caso di ripensarci e di mettere al sicuro il buono che pure si è fatto in questi anni, collocandolo in un contesto istituzionale e politico che lo possa fra l’altro accompagnare con le politiche di cui c’è bisogno? Mi limito a notare, citando un libro di Nicola Verola in via di pubblicazione, che una azione redistributiva effettuata su un bilancio federale è molto più accettata di un trasferimento diretto di risorse dall’uno all’altro degli Stati membri. E aggiungo che davanti a eventuali referendum europei una prospettiva del genere avrebbe ben più possibilità di essere condivisa di quanto non lo sia l’Europa com’è. Vedo crescenti consensi a questa impostazione. Di Europa federale ha preso a parlare con vigore il nostro Presidente della Repubblica e anche il Presidente della Commissione, José Manuel Barroso, l’ha additata come necessità nel suo recente discorso sullo stato dell’Unione davanti al Parlamento europeo. Possiamo solo augurarci che a questo punto entri nell’agenda, non necessariamente come primo passo. Ora tocca, giustamente, all’unione bancaria, che è di per sé un altro, essenziale tassello. E proprio perché l’Europa federale dovrà scaturire non da una decisione dei capi di Stato e di governo, ma da un ampio dibattito popolare, sarà bene che se ne parli nella prossima campagna elettorale europea, sulla base di impegni e di prime impostazioni progettuali delle forze politiche europeiste. Dopo le elezioni del 2014 – la proposta è già stata avanzata dal segretario del PD – una Convenzione costituente potrà mettersi all’opera.