A cosa serve la politica - di Massimo D'Alema

Di Massimo D'Alema Martedì 17 Aprile 2012 11:52 Stampa

Pubblichiamo l'editoriale di Massimo D'Alema del numero 4/2012 di Italianieuropei, in edicola e in libreria dal 18 aprile.


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Con contributi di:  
Gianni Cuperlo
Nadia Urbinati
Giancarlo Bosetti
Stefano Fassina

In edicola e in libreria
dal 18 aprile

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Mai come in questa occasione le elezioni presidenziali francesi sembrano svolgersi in un clima di scetticismo e di distacco. E l’astensionismo si teme possa raggiungere dimensioni mai conosciute in una sfida per la conquista dell’Eliseo. Qualche giorno fa in Serbia, in un sondaggio pubblicato alla vigilia delle elezioni politiche, il 70% degli intervistati dichiarava sfiducia verso tutti i partiti, nessuno escluso. Persino nella robusta Germania le liste del Piratenpartei, un movimento di protesta nato sulla rete con una forte connotazione contro la politica e contro i partiti, dopo il successo di Berlino, viene oggi accreditato di un possibile 12% dei voti, come quarto partito e potenziale arbitro della governabilità di domani. In Belgio, dopo le ultime elezioni, c’è voluto ben più di un anno perché si potesse arrivare, grazie alla pazienza e alle capacità di Elio Di Rupo, a costituire un governo, che rappresenta tuttavia un difficile e fragile equilibrio in un paese profondamente diviso.

Quasi ovunque in Europa le forze politiche tradizionali appaiono in difficoltà. Cresce la disaffezione, si affermano movimenti in alcuni casi di protesta, in altri populisti, si manifestano spinte localiste e separatiste; il quadro politico appare sempre più frammentato e la governabilità più difficile.

Dunque non si tratta soltanto di un fenomeno italiano; anche se nel nostro paese la crisi dei partiti viene più da lontano e ha caratteri originali a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Non a caso noi abbiamo sperimentato il populismo mediatico di Berlusconi e il separatismo leghista con un certo anticipo rispetto al resto d’Europa. Ora l’esperimento italiano del cosiddetto governo dei tecnici ci ha collocato probabilmente un passo avanti rispetto alla crisi delle democrazie europee: non è un caso che i mercati finanziari guardino con particolare interesse a ciò che accade nel nostro paese.

Più che la politica è la democrazia a essere in questione: indebolita nelle sue basi di consenso, appare fastidiosa e lenta con le sue procedure e le sue discussioni di fronte alla necessità di fare – e presto – ciò che i mercati e il tempo dei mercati chiedono.

Non è una coincidenza che la crisi estrema della politica, la destrutturazione dei partiti e lo svuotamento delle istituzioni democratiche coincidano con la più grave crisi sociale che l’Europa abbia conosciuto in questo dopoguerra. Una crisi che non è solo blocco dello sviluppo, ma anche manifestazione di lacerazioni profonde e di acute diseguaglianze tra ceti sociali, individui e territori che allentano e mettono in discussione la coesione delle nostre società. Il fatto che il malessere della politica sia anche malessere della società sembrerebbe dimostrare – al contrario – che la politica serve. O almeno che ha svolto un ruolo fondamentale in tutto questo lungo dopoguerra per garantire quel compromesso tra capitalismo, democrazia e coesione sociale che Ralf Dahrendorf chiamò “quadratura del cerchio” e che ha rappresentato il cuore del modello politico e sociale europeo. Parlo dell’Europa perché l’epicentro della crisi sembra essere proprio il nostro continente.

La globalizzazione, la forza del capitalismo finanziario e l’enorme concentrazione del potere nelle mani di ristrette oligarchie economiche internazionali sfidano ovunque il ruolo della politica e delle istituzioni rimaste sostanzialmente prigioniere delle frontiere nazionali. Ma negli Stati Uniti la Presidenza e il Congresso rappresentano comunque la guida di una grande potenza globale che dispone della forza militare dominante nel mondo. E nei paesi che appaiono come le nuove potenze emergenti (o ri-emergenti, come si dovrebbe dire a proposito della Cina e dell’India) è comunque la politica che guida – in modo democratico o no – i grandi processi economici e sociali. Non mancano certo in Brasile o in India gli episodi di corruzione, ma il livello di partecipazione e di passione politica non sembra essere messo in forse da questo fenomeno. Allo stesso modo la forza e il ruolo esercitati in Cina – in forme autoritarie – dal Partito comunista sono, sia pure in una economia capitalistica di mercato, indiscutibili. Persino il professor Monti, che nel nostro paese giganteggia – e talora sembra compiacersene – rispetto ai partiti, sembrava uno studente emozionato alla Scuola dei quadri del Partito comunista cinese.

È in Europa dunque che la politica sembra, in modo particolarissimo, aver perduto rilevanza e peso sociale. Anzitutto perché è il modello europeo di una cittadinanza fondata sulla inclusione e sui diritti sociali a essere colpito nel mondo globale; ma anche perché la forza delle istituzioni, degli Stati europei e dei sistemi politici nazionali appare come svuotata per i caratteri che ha assunto il processo di integrazione del nostro continente. Il problema non è l’Unione in sé, che rappresenta, al contrario, una straordinaria possibile leva politica e istituzionale per cercare di regolare lo sviluppo e i mercati a livello sovranazionale. È la debolezza politica dell’Europa, il suo ridursi a uno spazio di vigilanza e sanzioni che rivela l’illusione che una moneta unica e un mercato unico possano di per sé garantire stabilità e crescita senza gli strumenti politico-istituzionali che hanno tradizionalmente bilanciato la forza dei mercati e dell’economia. Mi riferisco a una politica monetaria comune, a una Banca centrale prestatore di ultima istanza, a un effettivo coordinamento delle politiche economiche e di bilancio in grado di equilibrare le rilevanti differenze di competitività all’interno dell’area dell’euro; mi riferisco a un effettivo e adeguato meccanismo di solidarietà e a regole comuni per contrastare la speculazione finanziaria e monetaria. In questa condizione gli Stati europei paiono essersi privati di una parte rilevante dei loro poteri a favore di organismi che non sembrano essere democraticamente controllabili dai cittadini. Nessuno nega l’esigenza di rigore finanziario a fronte del peso dei debiti sovrani, peso accresciuto dal trasferimento di ingenti risorse pubbliche per il salvataggio delle banche private; ma gli Stati Uniti, con un debito di più del 120% del PIL, hanno investito enormi risorse per sostenere la crescita e l’occupazione, mentre l’Unione europea appare schiacciata da un debito, in percentuale sul PIL, molto inferiore e non sembra in grado di sprigionare il suo potenziale di crescita. Ciò accade malgrado le deliberazioni di un Parlamento eletto a suffragio universale, malgrado la spinta che viene da una larga opinione pubblica colpita da un livello mai raggiunto di disoccupazione e da un grave ed esteso malessere sociale.

A che serve allora la politica? Quale utilità ha un insieme pesante e costoso di sovrastrutture istituzionali che non sembrano in grado di incidere per nulla sulla realtà e di deliberare nel senso atteso e voluto dalla grande maggioranza dei cittadini? Se il compito dei governi consiste nell’eseguire i “compiti a casa” che i mercati finanziari, in sostanza, assegnano loro allora davvero non serve che siano organismi politici, basta, appunto, un governo tecnico. La politica ha senso solo quando esiste un margine ragionevole di libertà tra le scelte possibili, scelte che devono sempre avere come obiettivo il conseguimento del bene comune. Altrimenti diventa irrilevante e priva di significato.

Nel contesto descritto la rinascita della politica appare impegnativa e ardua. Non basta riaffermare ciò che è indiscutibilmente vero: non c’è democrazia senza i partiti. Questa verità non è riconosciuta come tale da un numero crescente di cittadini e non sembra davvero possibile riguadagnare la loro fiducia senza una radicale e coraggiosa riforma dall’alto e dal basso. Nel senso cioè che la politica deve da un lato riconquistare il potere reale di incidere sui processi sociali e dall’altro riallacciare un rapporto con le persone in carne e ossa. Occorre disvelare tutta l’ambiguità dell’affermazione secondo cui il problema di fondo sarebbe quello di aprire la politica alla “società civile”. In questi anni la destrutturazione dei sistemi politici ha aperto le porte della rappresentanza a un afflusso enorme di persone che non si sono formate nell’esperienza dei partiti. Questo non solo non ha migliorato la qualità del ceto politico, ma ne ha semmai accentuato i difetti. Anche perché la molla della partecipazione è stata assai di più una aspirazione alla promozione sociale e persino all’arricchimento personale che non la forza delle convinzioni e delle idealità. Il problema allora è far sì che la politica torni ad attrarre la parte migliore della società; ma per questo essa deve riproporsi attraverso progetti di lunga lena, “pensieri lunghi”, e mostrare di avere la forza per realizzarli. La retorica sulla fine delle ideologie, che pure aveva le sue ragioni, ha finito tuttavia per spazzare via idealità e speranze e lasciare campo solo all’ideologia dell’individualismo e al cinismo.

L’Europa rappresenta sia lo spazio politico e geografico necessario per un progetto di rinnovamento sia uno dei contenuti fondamentali di questo progetto. L’unità dell’Europa e i valori costitutivi di questa unità rappresentano un orizzonte ideale in grado di rimotivare la partecipazione e la passione di molti cittadini. La novità positiva sembra essere la crescente consapevolezza tra i progressisti del nostro continente, e in particolare per una forza di cambiamento che non voglia affidare i processi sociali al mero arbitrio del mercato, che occorre rilanciare l’ideale europeo. Non è una sfida semplice. Ma si può almeno dire che c’è una sinistra in Europa che finalmente appare consapevole della sua entità, dell’importanza di confrontarsi con questi temi e individuare quali siano gli obiettivi da raggiungere e le vie da seguire per delineare una nuova prospettiva.

 


Foto: Andrea Vergata