Il tempo di diventare grandi

Di Fausta Ongaro Lunedì 12 Marzo 2012 16:58 Stampa

Con l’avvio della discussione sulle misure per rivitalizzare il mercato del lavoro e promuovere l’occupazione tra i giovani è di nuovo di attualità un tema che periodicamente ricorre nei discorsi dei media e dei politici: quello del persistente ritardo con cui i giovani italiani si affacciano alla vita adulta rispetto ai coetanei di altri paesi industrializzati. L’argomento, di questi tempi, è incentrato sull’ingresso nel mondo del lavoro e sull’uscita dalla formazione scolastica, ma in realtà il fenomeno è più ampio e riguarda anche alcuni eventi familiari che sono collegati all’avvio delle carriere sociali: l’uscita dalla famiglia dei genitori, la formazione di una coppia stabile, la messa al mondo del primo figlio.

Da quando ragazzi e ragazze hanno iniziato a investire in istruzione e lavoro e a non avere più come unico orizzonte della vita personale la formazione di una propria famiglia, la transizione allo stato adulto (TSA) è diventata più lunga e gli eventi più assorbenti e irreversibili come il matrimonio e la nascita del primo figlio, quando accadono, sono stati progressivamente spostati a ridosso del trentesimo compleanno. Il fenomeno, che è iniziato con i nati negli anni Cinquanta e che è andato accentuandosi con le generazioni successive, ha interessato tutti i paesi del mondo occidentale. In Italia, però, esso ha assunto una dimensione e una persistenza nel corso del tempo che fanno ritenere che i giovani italiani (come quelli di altri paesi mediterranei) tendano a ritardare l’ingresso nella vita adulta più dei loro coetanei del Centro-Nord Europa. In realtà, se si guarda bene, ciò che differenzia l’Italia dai paesi d’oltralpe è solo in parte la cadenza degli eventi di inizio e fine del processo di TSA. I maschi italiani nati nella seconda metà degli anni Sessanta, ad esempio, hanno esperienza del primo lavoro a un’età mediana di 20,3 anni, più o meno la stessa dei coevi francesi. Sull’altro estremo del processo, le donne italiane della stessa generazione hanno il primo figlio a un’età (29,5 anni) che è nettamente più alta di quella delle francesi (25,8) ma più bassa di quella delle coeve olandesi.1 La differenza principale sta in ciò che avviene tra i primi e gli ultimi eventi della transizione. Nel Centro e Nord Europa il processo è diluito in fasi intermedie di semiautonomia: i giovani escono abbastanza presto dalla famiglia di origine per motivi vari (studio, indipendenza, convivenza giovanile ecc.) salvo poi rientrarvi in caso di difficoltà economica (sono i boomerang kids, con un’espressione statunitense). In Italia, invece, questa fase intermedia manca: se non si è obbligati a uscire per studio o lavoro, si resta a casa dei genitori finché si è pronti a un’uscita definitiva, che nella maggior parte dei casi è per matrimonio. Il modello di TSA che ha dominato da noi è quindi polarizzato e con poche tappe: dopo la fine degli studi e l’inizio di un lavoro si resta in famiglia e, quando si esce, si sperimenta un unico evento che ingloba ben tre passaggi familiari (autonomia abitativa, prima unione e matrimonio) e apre alla possibilità di assumere responsabilità genitoriali. È ovvio che, con la progressiva posticipazione dell’età al primo matrimonio (che a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso interessa tutto il mondo industrializzato), una sincronizzazione di questo tipo trascina con sé anche la posticipazione della prima autonomia residenziale, con effetti non trascurabili sulla velocizzazione della TSA dei giovani italiani. Alla fine degli anni Novanta, ad esempio, nel nostro paese, vivevano con i genitori il 68% degli uomini e il 46% delle donne in età venticinqueventinove anni; le stesse proporzioni in Francia erano del 18% e 9%, nel Regno Unito del 13% e 6%, in Danimarca addirittura del 5% e 3%. Si tratta di differenze significative e non stupisce che in tempi più recenti – a fronte di pochi cambiamenti di queste statistiche – qualcuno abbia potuto parlare di “bamboccioni”.

Ma come spiegare che dalla fine degli anni Sessanta ad oggi il modello di TSA italiano non sia sostanzialmente cambiato se non per accentuarsi, allargando semmai il divario con i comportamenti osservati a nord delle Alpi? In realtà, è possibile che, per una serie di contingenze storiche e sociali, questo risultato, nel tempo, sia frutto di circostanze diverse: fattori diversi che si sono succeduti nel tempo hanno alimentato effetti simili. Se si considera il contesto in cui si sono calati i valori individualistici del secondo Novecento, almeno in una prima fase (più o meno fino alle generazioni nate all’inizio degli anni Settanta), la TSA italiana può essere solo quella descritta. Il loro inserimento in una società regolata da modelli familiari tradizionali che non prevede come regola uscite dalla famiglia alternative al matrimonio (vivere da soli, con altri giovani, in convivenza giovanile) non può che portare a un prolungamento della permanenza dei giovani in famiglia. Questo spiega, tra l’altro, perché in Italia – diversamente da altri paesi industrializzati – restare a lungo con i genitori sia anche un fenomeno socialmente accettato. Peraltro, gli stessi governi che si sono succeduti per tutta la seconda metà del secolo scorso non hanno fatto nulla per promuovere l’autonomia residenziale dei giovani: le abitazioni in affitto sono poche e costose e gli aiuti sono indirizzati all’acquisto della casa, i posti in residenze universitarie sono scarsi, il sostegno al reddito giovanile è inesistente. D’altra parte, dati il sistema di welfare e l’organizzazione della società, il modello di TSA italiano è stato per alcune generazioni di giovani e per le loro famiglie una scelta razionale.2 In un paese che delegava alla famiglia il traghettamento dei giovani verso la condizione adulta, la prolungata permanenza nella casa dei genitori è stata per molte famiglie di estrazione piccolo borghese e operaia una strategia per non disperdere risorse familiari e individuali in vista di progetti di mobilità sociale ascendente dei figli e, più in generale, di miglioramenti dello stile di vita dei figli rispetto ai genitori. Almeno fino ai primi anni Novanta del secolo scorso, restare con i genitori fino al momento del matrimonio significava utilizzare al meglio la relativa sicurezza economica dei genitori (garantita da un welfare pensato per proteggere il capofamiglia occupato) e l’offerta di cure informali della famiglia italiana (resa disponibile da madri per gran parte ancora casalinghe) per consentire ai figli di accumulare capitale umano e risparmi in attesa di una loro più robusta uscita definitiva. La distribuzione delle sedi universitarie sul territorio nazionale iniziata in quegli anni (e peraltro dispendiosa e inefficiente sotto altri punti di vista) ha favorito questo processo, permettendo a molte famiglie di mandare un figlio all’università senza sostenerne le spese di alloggio.

Prolungare la permanenza nella casa dei genitori comporta però dei rischi e ciò che in un primo momento è solo un mezzo per ottimizzare l’uso delle risorse e migliorare le condizioni di vita dei figli può diventare esso stesso un fattore di rallentamento del cammino dei giovani verso la condizione adulta. Considerando la relativamente alta età al matrimonio dei nati nei primi decenni del Novecento, anche in passato i figli restavano a lungo nella famiglia dei genitori come giovani-adulti ma, allora, le norme sociali e i rapporti di forza tra le generazioni imponevano al figlio condizioni di dipendenza dall’autorità del genitore e una partecipazione attiva al funzionamento della famiglia. Con la democratizzazione dei rapporti familiari iniziata negli anni Sessanta, i figli che vivono in famiglia godono di una serie di benefici materiali che sono preclusi a quelli che escono presto per sperimentare condizioni di semiautonomia. Indagini condotte nel decennio a cavallo dei due secoli documentano che i genitori italiani lasciano molta libertà ai figli coresidenti e chiedono veramente poco in cambio dei servizi resi dalla famiglia.3 Tra i maggiorenni occupati, quelli che partecipano al bilancio familiare per oltre un quarto dello stipendio oscillano, ad esempio, tra il 9% e il 17% a seconda dell’età. C’è quindi una quota di giovani italiani che ha condizioni di vita molto diverse da quelle dei coetanei di altri paesi europei, abituati a vivere da soli e a gestire il quotidiano con propri redditi. Non stupisce che negli anni Novanta, tra i paesi europei, l’Italia abbia uno dei più bassi indici di squilibrio del reddito familiare tra le generazioni venti-ventinove/ quarantacinque-sessantaquattro anni.4 Alcuni studi hanno mostrato che famiglie che dispongono di importanti risorse materiali non trasferibili tendono a rallentare l’uscita dei figli dalla famiglia d’origine. Non si può escludere pertanto che, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del secolo, condizioni di vita familiare particolarmente favorevoli, protratte nel tempo, abbiano affievolito il desiderio di autonomia e di mettersi in gioco dei giovani italiani, ritardando ulteriormente l’esperienza sia dell’autonomia residenziale che dei successivi, più impegnativi, eventi familiari.

Proprio quando il modello di TSA italiano comincia a mostrare segni di criticità, emergono alcuni timidi segnali di cambiamento. Con il nuovo secolo si registra per la prima volta una debole flessione della quota di quindici-trentaquattrenni che vivono in famiglia e un aumento di venticinque-ventinovenni che vivono da soli o in convivenze giovanili. Il cambiamento non tocca ancora gli eventi familiari più impegnativi (matrimonio e primo figlio) che continuano a essere sperimentati in età elevate se non crescenti; tuttavia, la polarizzazione degli eventi si allenta. Il periodo è ancora troppo vicino e poco studiato per avanzare giudizi sui fattori che sono alla base di tali dinamiche. È difficile dire se l’aumento dell’offerta (benché precaria) di lavoro a tempo determinato che ha caratterizzato il primo decennio del secolo abbia incentivato l’uscita dei giovani dalla famiglia di origine con il miraggio di una certa autonomia economica. Più probabilmente, è arrivato a maturazione nella società italiana un cambiamento culturale che era nell’aria da tempo ma non ancora abbastanza sedimentato da trovare espressione in comportamenti concreti. Già negli anni Novanta la società italiana mostrava, ad esempio, una crescente propensione ad accettare almeno in via teorica forme sfumate di autonomia residenziale giovanile. Verso la fine del primo decennio del nuovo secolo queste idee cominciano a produrre i loro effetti: giovani e genitori si convincono che l’autonomia abitativa in quanto tale sia un’esperienza da perseguire appena possibile, anche con pochi mezzi economici, e che la prima unione non debba coincidere necessariamente con il matrimonio. Purtroppo, la recrudescenza della crisi economica che stiamo sperimentando in questi tempi rischia di mettere un freno all’avvio di nuovi comportamenti.

Il reddito da lavoro è un fattore importante per promuovere l’uscita dei giovani dalla famiglia di origine, ma solo in paesi come il nostro, con un welfare che non prevede politiche di incentivazione dell’autonomia giovanile; dove i giovani hanno sussidi per studio o disoccupazione, il lavoro diventa meno significativo ai fini dell’autonomia abitativa.5 Va da sé che l’attuale crisi economica, in combinazione con disoccupazione e precarietà occupazionale giovanile, rischia di vanificare i potenziali effetti del cambiamento culturale in atto e di far restare (o tornare) i giovani in famiglia, spostando a tempi indefiniti anche gli altri più impegnativi eventi familiari. L’incertezza sulla possibilità di accedere a un reddito autonomo impedisce infatti di fare progetti familiari di lungo periodo. Disoccupazione e precarietà occupazionale rendono, ad esempio, la situazione molto difficile per le giovani donne che hanno investito in istruzione. Se tra le donne delle generazioni precedenti il primo figlio arrivava tardi, dopo che avevano raggiunto altri obiettivi di realizzazione personale, ma comunque arrivava, ora c’è il rischio che il progetto di maternità sia rinviato a tempi indefiniti. Cresciute con l’idea di dover avere una propria autonomia economica, e consapevoli che un figlio finirebbe per farle uscire e/o precludere loro l’accesso al mercato del lavoro, le donne con titolo medio-alto che sono disoccupate o hanno un’occupazione a tempo determinato finiscono per congelare i progetti riproduttivi in attesa di tempi migliori, anche nel caso in cui il partner abbia un lavoro più stabile. Se la situazione dovesse persistere per tempi lunghi, c’è la possibilità di arrivare tardi a decidere di avere il primogenito.

La crisi occupazionale e i cambiamenti in atto nel mercato del lavoro costringono le nuove generazioni a rivedere la strategia di TSA adottata dai loro coetanei per tutta la seconda metà del secolo scorso e che prevedeva una rigida sequenza delle carriere sociali e familiari. Premesso che una certa sequenzialità delle carriere resta comunque una strategia vincente se non si vuole disperdere le risorse individuali dei giovani in corsi di vita frammentati, è prevedibile che agli italiani si dovrà chiedere di fare ancora qualche sforzo per accettare ulteriori forme di de-standardizzazione del processo di TSA (ad esempio, iniziare a lavorare a ridosso della fine degli studi o iniziare a formare una propria famiglia prima che entrambi i componenti della coppia abbiano un impiego stabile). Lo Stato, però, finora assente, deve accompagnare e favorire questo cambiamento mettendo in campo politiche che promuovano l’indipendenza economica e la possibilità di trovare un lavoro, anche in presenza di un mercato del lavoro flessibile. Dati la difficile situazione finanziaria del paese e gli scenari internazionali in continua evoluzione, il compito che ci attende è in realtà più ampio e ha come obiettivo quello di formare giovani che, per spirito e competenze, siano all’altezza delle sfide che li attendono. E non sarà neppure facile, perché ciò richiede interventi strutturali, cambi di prospettiva e un recupero di responsabilizzazione degli adulti che hanno a che fare con i giovani, amministratori pubblici, famiglie, insegnanti, datori di lavoro.

Questi interventi avranno però effetti solo nel medio-lungo termine e non si può rischiare di perdere un’intera generazione di giovani che oggi hanno tra i venti e i trenta anni. È importante varare da subito iniziative che oltre a proteggere da periodi di disoccupazione e precarietà lavorativa, aiutino i giovani a trovare un’occupazione, o meglio un’occupazione che – anche indipendentemente dagli studi originari – permetta loro di disporre di un reddito proprio acquisendo contemporaneamente crediti e professionalità da spendere per rafforzare la loro posizione nel mercato del lavoro.

Non è questa la sede per affrontare l’argomento, ma alcune iniziative in risposta alla domanda di autonomia economica dei giovani potrebbero essere anche relativamente poco costose. Oltre a mettere in campo moderni ed efficaci strumenti di incontro tra domanda e offerta di lavoro, si potrebbero incentivare forme di part time che nel tempo possano trasformarsi in occupazione full time (ciò potrebbe anticipare, ad esempio, la realizzazione di progetti di genitorialità), mettere in rete e aiutare con forme di consulenza giovani che intendono avviarsi al lavoro autonomo (nel settore dell’agroalimentare di qualità ci sono già esperienze interessanti di giovani imprenditori; ci sono altri ambiti occupazionali che sono propri della tradizione italiana e che possono essere recuperati come lavori di qualità?). Ancora, le scuole professionali sono state trascurate per decenni con il risultato che le famiglie le rifuggono perché selettive verso il basso. Un’accelerazione nel rilancio di questo tipo di formazione potrebbe essere l’istituzione di corsi a numero chiuso che selezionino studenti meritevoli, provenienti anche da studi superiori; il risultato potrebbe essere una nuova figura di artigiano capace di portare innovazione nel suo settore proprio grazie alla sua maggiore duttilità e a una più robusta formazione.

Non è vero che i giovani sono poco disponibili a scommettere su se stessi, che sono restii alle sfide che vengono loro lanciate e che tendono a restare vicino ai genitori per comodità. Se si avanzano proposte credibili e chiare i giovani ascoltano e seguono, anche se ciò comporta per loro sacrifici e rischi iniziali. Bisogna però che gli adulti facciano la loro parte, e alcuni, da diverso tempo, non la stanno facendo.

 

 


 

[1] M. Corijn, E. Klijzing, Transition to Adulthood in Europe, Kluwer, Londra 2001.

[2] F. Ongaro, I giovani e la prima autonomia residenziale. Analisi del ritardo, in AA.VV., Famiglie, nascite e politiche sociali, Accademia Nazionale dei Lincei, Bardi, Roma 2006, pp. 15-37.

[3] C. Buzzi, A. Cavalli, A. de Lillo, Giovani del nuovo secolo, il Mulino, Bologna 2002.

[4] J. Vogel, Three Types of European Society, marzo 1998, disponibile su www.nnn.se/ n-model/europe3/europe3.htm.

[5] A. Aassve, F. Billari, S. Mazzuco, F. Ongaro, Leaving Home: A Comparative Analysis of ECHP Data, in “Journal of European Social Policy”, 4/2002, pp. 259-75.