Non è un concorso di bellezza per aspiranti premier

Di Nichi Vendola Mercoledì 26 Ottobre 2011 12:21 Stampa
Non è un concorso di bellezza per aspiranti premier Illustrazione: Alessandro Sanna

La crisi economica sta mettendo a dura prova le democrazie europee; la situazione “di emergenza” sembra giustificare lo smantellamento dello Stato sociale e avalla derive populiste. Di fronte a un tale scenario i cittadini chiedono a gran voce di essere ascoltati: serve un comune impegno per rigenerare il tessuto morale e civile della politica.


Intorno al desco spoglio di un’Italia tramortita da un inverno troppo lungo, la crisi entra a grandi balzi, come una iena che non ride, nel condominio della politica e porta via nelle sue fauci quello che resta della democrazia fatta a brandelli da un potere osceno e senza speranze. Tra i condomini, i troppo lividi politici che abitano quel Palazzo, c’è un’indifferenza colpevole, levigata dal troppo cinismo di cui un’intera classe dirigente s’è imbevuta.

Mi è tornato in mente un episodio marginale della cronaca torinese di questi giorni. Una elegante e sobria signora francese è entrata nella toilette di un elegante e sobrio caffè del centro di Torino e si è sparata un colpo alla testa. La signora, che frequentava abitualmente da anni la sala per le colazioni, ha staccato il suo biglietto per l’aldilà durante il tempo consacrato al freddo ripetersi del gesto domenicale del brunch. Gli altri avventori hanno continuato a sorbire cappuccini perfetti e succhi d’ogni genere, la proprietaria non ha pensato un momento a chiudere il locale («aspettavamo cento turisti a pranzo», dirà alle curiose croniste, aggiungendo che «per fortuna, il grosso l’hanno pulito dalla toilette portando via il corpo»), il massimo del risentimento è stato quello di vedere “invadere” il proprio spazio dall’irruzione della cruda vita che si schianta nella sorda detonazione di uno sparo disperato. Il commento più facile è recriminare per il fatto che cose del genere un tempo non sarebbero potute accadere. Non lo sparo, no. La compassata distanza verso la vita, che diventa morte quotidiana della propria coscienza. Un tempo, si potrebbe dire, tutti gli occhi sarebbero stati indiscreti e partecipi. Un tempo, si accostavano le disgrazie degli altri alle proprie e le si teneva vicine, per proteggersi gli uni con gli altri.

Questo episodio mi ha turbato e mi ha spinto a pensare a quanta strada abbia fatto la cattiva coscienza e, quindi, la cattiva politica nel nostro tempo. Ciò che una volta veniva dedicato al preoccuparsi dell’altro – almeno così per me è stata la politica che ho imparato alla cattedra dei braccianti pugliesi che mi spingevano a leggere, a istruirmi, a liberarmi imparando più parole e più concetti di chi li aveva fin lì dominati – oggi viene dissipato nell’indifferenza degli “esperti” e nel sordo e isolato rancore degli “esclusi”. Penso che la tragedia della politica contemporanea sia stata segnata, amplificata, ossificata dal suo porsi come specchio immobile delle peggiori pulsioni che covavano in una società sfibrata e sempre meno coesa. L’aver aderito come una panciera al basso ventre degli istinti più feroci non ha reso la politica più vicina alle persone, l’ha resa un mostro trasmutato: dall’esercizio dei chierici che celebravano riti inaccessibili nelle stanze chiuse del Palazzo, che solo l’asciutto furore dell’“io so” di Pasolini riusciva a penetrare, all’offerta del bar e del bordello dei potenti all’occhio dei cittadini, sempre più sudditi. È solo una questione di sintassi, non di linguaggio. La sintassi cambia e si fa più rozza ed esplicita, il linguaggio è sempre quello dell’assoggettamento e della separazione reale dalle sfere decisionali.

A questo furore devastante molta parte di quella che fu la sinistra storica non ha trovato di meglio che rispondere con l’alchimia, altrettanto pericolosa, della separatezza tecnica dell’amministrazione della cosa pubblica. Questa interpretazione del potere pubblico si è dipanata nel corso degli ultimi due decenni sull’onda della potente mutazione del laburismo inglese a opera di Tony Blair. Tale modalità è stata immediatamente sposata dalle élite tecnocratiche europee (ma non, ad esempio, da quelle nordamericane, né da Clinton, né da Bush e tantomeno da Obama), che hanno progressivamente colonizzato gli immaginari dell’europeismo con i postulati del monetarismo e del rigore. Si sono perse per strada, in quella che è stata la culla dei grandi progetti della democrazia, le aspirazioni e i sogni che furono di Altiero Spinelli ma anche di Adenauer e Schumann. Un’Europa che sapesse diventare una grande patria federata, terra di innovazione sociale, grazie al modello di società che nel dopoguerra si era affermato, e di integrazione di storie e popoli che, nel corso dei secoli, si erano spesso misurati sulle punte delle baionette. Quando l’Europa ha iniziato ad aver paura, davvero paura, dei suoi popoli, come dimostrò la reazione imbarazzata e isterica ai referendum che bocciarono il progetto di Trattato costituzionale in Francia e in Olanda, la chiusura delle élite dirigenti si è fatta sempre più sentire come una morsa. Anche per questa corrente di pensiero, quindi, separare i cittadini dalle sfere della decisione reale è stata concretamente l’unica strategia portata avanti.

Oggi, nel tempo della crisi, il rischio che si saldino i populismi autocratici di un Berlusconi o un Sarkozy con le ricette rigoriste della BCE, costituisce un serio pericolo per il nostro modello sociale di convivenza e per la stessa democrazia. La saldatura della cultura tecnocratica con l’anima populista di tanta parte delle classi dirigenti europee può innescare processi degenerativi e autocratici fino ad arrivare a vere e proprie svolte autoritarie. Non sarebbe, per altro, la prima volta nella tormentata storia del nostro continente. Ma per capire come si saldano queste due culture e pratiche di governo dello spazio pubblico è necessario trovare un filo che le leghi. Questo filo, da sempre, è il concetto di “emergenza”, che produce immediatamente i suoi corollari di “urgenza” ed “eccezionalità”.

Nei tempi di crisi – che si presentano come l’estensione senza soluzione di continuità di un eterno presente, privo di storia e di cause che l’hanno generato – le misure per far fronte all’emergenza devono sempre essere urgenti e, per santificarne l’eccezionalità, hanno sempre il carattere sussiegoso dell’unanimità per fronteggiare un nemico esterno. Questa prassi è stata abbondantemente utilizzata nel corso degli ultimi mesi. La crisi, prima negata e poi divenuta presenza incombente, non ha cause, ma solo obiettivi da colpire. «Avete vissuto sopra le vostre possibilità», ci viene ripetuto e, intanto, giù con i tagli allo Stato sociale, alle amministrazioni decentrate, alle pensioni. «I mercati ci stanno con il fiato addosso! Le agenzie di rating ci declassano!» e intanto non si fa neppure uno straccio di discussione parlamentare su quali siano state le cause di questi comportamenti e, per non farsi mancare nulla, il governo impone una normativa sul lavoro (che con il debito pubblico non c’entra nulla) con l’articolo 8 della manovra teso a distruggere il diritto del lavoro, a partire dallo Statuto dei lavoratori, cancellando i contratti collettivi nazionali. L’emergenza è sempre stata la terra dello stato d’eccezione di schmittiana memoria: quella terra dove la politica muore.

Abbiamo, collettivamente, il compito di impedire che questa deriva si impadronisca della nostra principale risorsa: la democrazia. Per questo, soprattutto nello sforzo di battere Berlusconi e di liberare l’Italia dal berlusconismo, non possiamo permetterci che anche il nostro campo, quello di centrosinistra, diventi territorio dello stato d’eccezione. Non condivido affatto, in questo momento in particolare, l’evocazione di un governo tecnico, di larghe intese o semplicemente senza Berlusconi al comando, in nome dell’emergenza democratica. Un atteggiamento siffatto produrrebbe un aggravarsi della condizione di deperimento democratico e condurrebbe i tanti elettori che ci hanno inviato segnali di forte ripresa, dalle amministrative ai referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento, a una disaffezione che porterebbe di nuovo forza e linfa a quella destra reazionaria che aspetta di rilegittimarsi. È in questo quadro che sento l’esigenza di un collettivo passo in avanti, fuori dai calcoli cinici e quasi sempre perdenti, della politica politicante. È da questo comune impegno che possiamo trovare le energie per rigenerare il tessuto morale e civile di una generazione politica erosa da troppi privilegi e troppe familiarità con il desiderio di arricchimenti personali.

Abbiamo il dovere di costruire una coalizione ispirata da un grande progetto di cambiamento per l’Italia. È il momento di incarnare quello spirito che Bersani, insieme a me e a Di Pietro, a Vasto, ha chiamato “nuovo Ulivo”. Un progetto che possa parlare a tanta parte del paese, da quella più tradizionalmente di sinistra ai moderati, per poter governare l’Italia e farla ritornare nel mondo, protagonista di un generale e necessario cambiamento di rotta. Per farlo c’è bisogno di restituire la parola alle persone che ci vogliono ancora dare fiducia. Bisogna dire la verità, ovvero che i partiti da soli non bastano più a esaurire le domande di senso che provengono dalla società e che gli stessi partiti sono apparsi come contenitori di ambizioni personali, spesso in conflitto tra loro, piuttosto che come luoghi da cui far sviluppare speranze collettive.

Le primarie sono questo, non un concorso di bellezza per aspiranti premier! Se non si combina la consapevolezza del limite dei partiti attuali con l’aspirazione a prendere parola di tantissimi cittadini (come spiegare altrimenti il successo clamoroso della raccolta di firme per abrogare il “Porcellum” di cui, con il mio partito, siamo stati promotori), non sarà possibile uscire dal circolo vizioso delle sconfitte e delle vittorie che preludono a sconfitte peggiori. Possiamo dire, senza infingimenti, che se non ci fossero state le primarie il sindaco di Milano sarebbe ancora Letizia Moratti? Che a Cagliari avrebbe continuato a governare, dopo sessant’anni, ancora la destra? E possiamo dire che le primarie sono anche un grande rito di riconoscimento reciproco di uomini e donne di centrosinistra che si sentono molto più in sintonia dei loro rispettivi partiti di riferimento? Se l’obiezione fosse “dobbiamo aspettare Casini”, non posso far altro che rispondere che è da oltre un anno che lo si aspetta, mentre l’UDC ha consolidato il suo ruolo di governo con la destra in Calabria, Campania, Lazio, Molise, Abruzzo, Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e, recentemente, anche con un passaggio acrobatico dall’opposizione al governo in Piemonte. Certo, c’è anche il “laboratorio Marche”, dove l’UDC governa e la sinistra viene tenuta a debita distanza... ma davvero si pensa che il tempo dell’attesa delle rispettabili decisioni del partito di Casini (qualora volesse aprire un dialogo serio sarei il primo a farmene carico) possa impedire la lingua comune dell’alternativa? Le primarie per costituire “un popolo” protagonista delle proprie scelte, insomma, non una massa in attesa degli ordini che promanano dai quartier generali delle segreterie.

Ognuno di noi costruisce il proprio destino nel groviglio di una società sempre più tormentata. Dobbiamo liberare la politica e le sue decisioni dalla durezza delle distanze del potere e renderla più familiare, presente, vicina alle possibilità straordinarie che questa stagione di cambiamenti, dal Nord Africa agli indignati del Nord del mondo, ci offre.