Le vicende finanziarie della Regione Sardegna e il federalismo fiscale

Di Francesco Pigliaru Domenica 02 Marzo 2008 17:46 Stampa

L’esperienza di un assessore al bilancio e alla programmazione di una regione, e in particolare di una regione autonoma, permette di osservare da vicino le regole di ingaggio adottate da Stato e regioni nel discutere questioni rilevanti, quali la definizione, anno per anno, delle cifre da trasferire in virtù delle principali compartecipazioni IRPEF e IVA assicurate alla regione dalla carta costituzionale. Permette anche di valutare in che misura il patto di stabilità interno è (in)capace di indurre la necessaria «disciplina fiscale» e di farsi un’idea su quali rischi corre il cittadino italiano di fronte alla proliferazione di tributi regionali in assenza di un forte coordinamento statale.

Chi scrive, economista, è stato assessore al bilancio in una regione a statuto speciale, la Sardegna, presieduta da Renato Soru, tra il luglio del 2004 e l’ottobre del 2006, anni in cui si è dovuto finalmente decidere cosa intendiamo per federalismo fiscale.

Lo scenario della Regione Sardegna

Le finanze della Regione Sardegna dipendono in gran parte da compartecipazioni, senza vincolo di destinazione, a tributi erariali (articolo 8 dello Statuto sardo). La principale compartecipazione è quella che dà diritto al «70% del gettito delle imposte sul reddito delle persone fisiche e sul reddito delle persone giuridiche riscosse nel territorio della regione». Per la sua importanza, va anche segnalato il regime che riguarda la compartecipazione all’IVA: la Sardegna ha diritto a «una ‘quota’ dell’imposta sul valore aggiunto riscossa nel territorio della regione (…) in relazione alle spese necessarie ad adempiere le ‘funzioni normali’ della regione». Nel loro insieme, queste risorse contribuiscono in modo essenziale a finanziare le «funzioni normali» delegate all’ente regionale. I problemi strutturali e specifici (ad esempio il persistente ritardo economico dell’isola) sono poi affrontati con risorse ad essi esplicitamente dedicate (l’articolo 13 dello Statuto prevede risorse per un Piano di rinascita).

Questo «contratto», definito nel 1948 con l’approvazione dello Statuto sardo, ha caratteristiche simili a quelle previste dal nuovo assetto disegnato dalla riforma del Titolo V. Anche qui i tributi propri, le compartecipazioni e il fondo di perequazione, cioè i fondi senza vincoli di destinazione, rappresentano la componente principale delle finanze regionali e devono «finanziare integralmente le ‘funzioni pubbliche’ (…) attribuite» agli enti locali.

In secondo luogo, «per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni», e cioè «per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, (…) lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e regioni». Questo è lo scenario di base. Da più di mezzo secolo, importanti compartecipazioni hanno conferito alla Sardegna un certo grado di autonomia finanziaria nell’esercizio delle proprie funzioni. Secondo l’articolo 119, qualcosa di molto simile dovrà estendersi nel prossimo futuro alle regioni a statuto ordinario.1 Cosa è successo in Sardegna in questi anni? L’autonomia finanziaria ha favorito maggiore accountability e «disciplina fiscale»? Le compartecipazioni definite per legge hanno garantito ragionevole certezza sulle risorse disponibili su base pluriennale, favorendo orizzonti di programmazione sufficientemente ampi?

Come decuplicare il debito regionale in quattro anni

Nel 2001 la Regione Sardegna aveva uno stock di debito relativamente piccolo, intorno ai 370 milioni di euro. Quattro anni dopo, nel 2005, sfiorava i 3.200 milioni: quasi dieci volte di più, un tasso di crescita medio annuo del 70%. Non si può parlare in questo caso di disciplina fiscale.

Negli stessi anni, un fragile governo regionale di centrodestra, reso ancora più fragile da una forma di governo incapace di garantire un discreto livello di stabilità politica, gettava benzina sul fuoco perseguendo una strategia di sopravvivenza centrata sulla sistematica violazione del vincolo di bilancio. Così, ogni bilancio di previsione adottato dal consiglio regionale tra il 2001 e il 2004 ha stanziato spese insostenibilmente superiori alle entrate (i mutui autorizzati in quegli anni hanno superato sistematicamente il 20% delle entrate regionali). Sembra proprio un grave episodio di «indisciplina fiscale». Ed è anche un episodio recente e concentrato nel tempo, e dunque di facile interpretazione. Cosa non ha funzionato?

All’origine del problema

Almeno tre cose non hanno funzionato a dovere. Primo, la forma di governo. La grande instabilità iscritta nel disegno istituzionale in vigore sino alle elezioni del 2004 non ha incentivato la disciplina fiscale in chi si trovava al governo.

Un governo debole può facilmente ignorare il vincolo di bilancio perché può nascondersi dietro il facile alibi rappresentato dalla difficoltà a far passare le proprie proposte in consiglio. Allo stesso tempo, l’opposizione non ha alcun incentivo ad adottare comportamenti fiscalmente virtuosi perché non ha responsabilità formali di governo. Nel 2004 la regione ha adottato una nuova forma di governo che riproduce il sistema «presidenziale» delle regioni a statuto ordinario.

Oggi la responsabilità di chi decide è molto più chiara che nel passato, e questo certamente contribuisce alla soluzione del problema. Secondo, perché il patto di stabilità tra Stato e regione non è riuscito a evitare una dinamica incontrollata del debito regionale? La risposta è semplice. Il patto si ispira, con vari difetti, a regole del tipo multiannual spending limit, adottate da numerosi Stati per controllare un insieme di voci di spesa. Come è evidente, l’obiettivo di queste regole non è quello di controllare direttamente la formazione del debito. Per quanto riguarda quest’ultima, il principale controllo è affidato alla golden rule, che consente di indebitarsi solo per investimenti pubbli- ci, al netto dei quali il bilancio dovrebbe essere in pareggio. La regola di per sé ha una logica chiara, ma di nuovo è inefficace nel vincolare qualitativamente e quantitativamente la formazione del debito.

Fa bene dunque la «Relazione sull’attività svolta dall’Alta commissione per la definizione dei meccanismi strutturali del federalismo fiscale» (ACoFF) a citare la necessità «di sostituire il criterio di competenza economica a quello di cassa» e a sottolineare che «il patto di stabilità interno ha progressivamente abbandonato l’obiettivo di perseguire una riduzione degli stock di debito, obiettivo, al contrario, di estrema rilevanza e, in prospettiva, prioritario in sede comunitaria (…). Sarebbe (…) opportuno ripristinare meccanismi di vigilanza del debito».2 Su questo punto si tornerà tra poco. Terzo, le compartecipazioni. L’esplosione del debito della Regione Sardegna può essere letta come una storia di ordinaria follia in un sistema con vincoli interni ed esterni insufficienti. È una lettura legittima, ma incompleta. Nel quadro fin qui ricostruito manca un elemento importante: il gettito fornito alle casse regionali dalle principali compartecipazioni alle imposte nazionali.

Sono bastate poche settimane di lavoro dell’assessorato regionale al bilancio, subito dopo la nomina della nuova giunta di centrosinistra, per far emergere due dati clamorosi: il primo riguarda la compartecipazione all’imposta sui redditi delle persone fisiche, il secondo la compartecipazione all’IVA.

Il gettito della compartecipazione IPEF che confluisce nelle casse regionali (70% del riscosso nel territorio sardo) mostra un andamento del tutto anomalo. Fatto pari a 100 il dato a prezzi costanti dell’IPEF riscossa in Sardegna (dati comunicati dagli uffici statali) e in Italia nel 1991, il dato corrispondente del 2004 risulta pari a 95 per la regione e a 137 per l’Italia nel suo complesso. Un divario enorme, a tutto svantaggio della Sardegna, in assenza di differenze rilevanti nel tasso di crescita del reddito pro capite. Quale può essere la spiegazione? La Ragioneria generale dello Stato ha riconosciuto formalmente l’«anomalia» sarda, ma non ha ritenuto di poterne individuare le cause. Il problema principale è comunque noto: deriva dal metodo di calcolo della compartecipazione regionale. C’è una grande differenza tra usare come base di calcolo il gettito «riscosso» o quello «prodotto» nel territorio.3 Anche su questo si tornerà tra poco. Problemi seri sono stati riscontrati anche per la compartecipazione IVA. Innanzitutto, la quota contrattata annualmente tra Stato e Regione Sardegna per contribuire al finanziamento delle «funzioni normali» è stata una fonte continua di contenzioso, perché ancora oggi Stato e regione non hanno un linguaggio in comune per definire ciò che intendono per «funzioni normali».

Inoltre, lo Stato ha sostenuto a lungo che, indipendentemente dall’andamento dei costi associati all’esercizio delle funzioni normali della regione, la cifra conferita alla Sardegna non poteva essere modificata a causa della persistente difficoltà delle finanze pubbliche. La conseguenza è stata che la cifra davvero non grande pattuita all’inizio del periodo è diminuita in valore reale nel corso degli ultimi quindici anni (-11%). Negli stessi anni il gettito IVA è cresciuto rapidamente in tutte le regioni italiane. Se si sommano le dinamiche dei gettiti IRPEF e IVA corrisposti alla Sardegna in questi anni, il quadro che emerge è allarmante. Nel loro insieme, i due cespiti che avrebbero dovuto assicurare la copertura finanziaria alla fisiologica crescita dei costi associati alle funzioni normali della regione, sono invece diminuiti in valore reale.

Chiaramente, sono mancate buone regole di collaborazione e di manutenzione dei diritti concordati per legge, regole essenziali per affrontare con lealtà reciproca le conseguenze di continue e complesse variazioni della normativa nazionale.

Senza regole di questo tipo si creano inevitabilmente lunghi e costosi contenziosi istituzionali, che a loro volta forniscono facili alibi a governi regionali incapaci di produrre risultati tangibili e poco propensi alla disciplina fiscale.

Quel che è peggio, si indebolisce la capacità di controllo dei cittadini sull’operato degli enti locali e dunque si vanifica l’obiettivo di aumentare l’efficienza complessiva del sistema attraverso il decentramento.

Quali regole

Per impedire che il federalismo fiscale si trasformi in un continuo, costoso contenzioso istituzionale tra centro e periferia, bisogna far partire il processo su basi solide e poi lavorare con strumenti adeguati alla manutenzione di quelle basi.

Per creare solide basi, l’esperienza sarda conferma innanzitutto l’importanza di essere molto chiari su ciò che si intende per «funzioni normali ». Creare accountability a livello locale significa garantire risorse non solo certe, ma anche adeguate a prestazioni erogate secondo standard di efficienza prestabiliti. Come è ovvio, l’obiettivo della accountability sarebbe vanificato se ci fosse poca chiarezza su quali funzioni debbano essere considerate normali, su quali livelli di prestazione debbano essere associati a quelle funzioni, su quali siano i costi standard di elargizione. Un tema collegato è chiarire cosa si intenda per «compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio». È noto che fare riferimento al gettito «riscosso» o a quello «prodotto» non è la stessa cosa. I dati sardi aggiungono però un’informazione importante: la differenza tra le due grandezze può crescere nel tempo a tutto svantaggio dell’ente locale. Nel 2002 l’IPEF riscossa in Sardegna rappresentava appena il 57% di quella prodotta nel territorio. Secondo le stime dell’assessorato al bilancio della regione, dieci anni prima lo stesso indicatore era più alto di quasi trenta punti percentuali. Il riferimento al gettito «riscosso», dunque, ha reso un pessimo servizio alla Sardegna: cambiamenti regolamentari adottati unilateralmente dallo Stato, in presenza di forte asimmetria di informazione, hanno svilito la base sulla quale la compartecipazione è stata calcolata fino al 2006.

Ha ragione il Comitato tecnico-scientifico della ACoFF quando sostiene che bisogna adottare il riferimento al gettito «prodotto», «dato che nel caso contrario l’attribuzione delle risorse alle regioni e agli enti locali avverrebbe in modo più sperequato e, soprattutto, in modo piuttosto casuale».4 Usare il gettito «riscosso» significherebbe basarsi su un dato poco trasparente, soggetto a variazioni importanti di cui è difficile rintracciare l’origine, incapace, in sintesi, di dare certezza sulle risorse attribuite alle regioni sulla base delle compartecipazioni stabilite per legge. Infine, le regole di bilancio. Le regole attuali non sono in grado di mettere il sistema al riparo da improvvise accelerate di indebitamento regionale, anche clamorose come quella sarda. Per evitare episodi di questo tipo, è necessario dotarsi di strumenti efficaci per perseguire obiettivi appropriati: non un vincolo annuale sulla spesa o sul disavanzo, ma sulla dinamica del debito (debt target), calcolato su un periodo adeguatamente lungo.

Come è noto, vincoli sul debito di questo tipo funzionano quando sono associati a istituzioni capaci di coniugare il rispetto dell’obiettivo pluriennale con una certa flessibilità annuale, in un contesto in cui sia garantita grande trasparenza dei conti sia statali che regionali.5 Come ha scritto recentemente Guido Tabellini, anni di dubbi e discussioni sulla veridicità dei bilanci dello Stato e sulla loro coerenza con i parametri di Maastricht hanno rinforzato la convinzione che sia urgente «costituire un’autorità indipendente che certifichi lo stato dei conti pubblici e valuti la coerenza tra gli obiettivi di bilancio annunciati dal (…) governo e i provvedimenti concretamente adottati».6

Autorità di questo tipo sarebbero preziose per aumentare la trasparenza e confrontabilità dei bilanci regionali, per valutare la loro coerenza con gli obiettivi pluriennali condivisi tra Stato e regioni, e dunque per rendere credibili gli impegnativi accordi multilivello sulla dinamica del debito pubblico.

Disegnare istituzioni di questo tipo non è un compito facile. Tuttavia, esistono anche in Europa esperienze di istituzioni che si sono dimostrate capaci di ottenere ripartizioni condivise delle risorse tra i vari livelli di governo in coerenza con gli obiettivi aggregati di bilancio.7 Così come esiste una solida letteratura sulle istituzioni adeguate a perseguire debt target con la necessaria flessibilità.8 Con queste basi, disegnare un sistema capace di assicurare una migliore e diffusa disciplina fiscale non è una missione impossibile.

Le nuove entrate e le tasse turistiche della Sardegna

Ancora poche righe per citare la conclusione della lunga vertenza della Regione Sardegna sulle compartecipazioni e le «tasse turistiche» adottate in Sardegna nel 2006. Sul primo fronte, una collaborazione vera e leale tra il governo Prodi e la giunta regionale ha prodotto l’inserimento nella finanziaria statale del 2007 di una modifica del regime delle compartecipazioni che ripaga, con gli interessi, i torti accumulati dalla Sardegna nel passato. Al centro del nuovo sistema c’è l’abbandono del concetto di gettito «riscosso» a favore di quello «prodotto»: un risultato positivo non tanto perché aumenta di molto le entrate della regione, ma soprattutto perché garantisce un orizzonte pluriennale più affidabile e più responsabilizzante.

Sul secondo fronte, quello delle nuove tasse turistiche regionali, ci sono invece notizie meno buone.9 Ottima idea, penserà qualcuno: affiancare tributi regionali alle compartecipazioni è cosa giusta, perché in questo modo – dice la teoria – l’ente locale condivide con lo Stato «l’impopolarità dell’imposizione» e la comunità territoriale percepisce un chiaro incentivo economico a valutare con maggiore attenzione l’efficacia di chi governa localmente.

Tutto vero, se non fosse che le tasse sarde discriminano fortemente tra residenti e non residenti, e lo fanno nel senso politicamente più banale: semplicemente, chi risiede nella regione è esentato.10 Più che diffondere l’impopolarità dell’imposizione tra i vari livelli di governo, qui si rischia invece di trasformare i residenti in sostenitori di tributi che concentrano il gettito tra i cittadini esterni alla comunità locale. Il governo nazionale ha ricorso contro questi tributi di fronte alla Corte costituzionale. Ciò di cui però si sente soprattutto l’urgenza è che lo Stato metta ordine in una questione così delicata attraverso un forte coordinamento del sistema tributario, iniziando dalla esplicita elencazione dei «principi fondamentali »11 che devono essere rispettati da tutti i livelli di governo.

 

[1] Sulla opportunità che le regioni a statuto speciale non si isolino dal complessivo sistema delle autonomie disegnato dalla riforma del Titolo V, si rimanda a G. Macciotta, Competenze e finanziamento delle Regioni a statuto speciale e delle forme di autonomia differenziata, in A. Zanardi (a cura di), Per lo sviluppo. Un federalismo fiscale responsabile e solidale, Il Mulino, Bologna 2006.

[2] ACoFF, Relazione sull’attività svolta, settembre 2005, p. 56.

[3] Per fare un solo esempio, non fanno parte del «riscosso» le ritenute contabilizzate a Latina sugli stipendi dei dipendenti ministeriali che lavorano in Sardegna.

[4] ACoFF, op. cit., p. 56.

[5] Una sintesi efficace del dibattito sul debt target e sulle istituzioni ad esso associabili si trova in: C. Wyplosz, Fiscal policy: institutions versus rules, in «National Institute Economic Review», 191/2005.

[6] G. Tabellini, La verità sui conti e il peso sul futuro, in «Il Sole 24 Ore», 4 gennaio 2006.

[7] Per una breve rassegna si veda: E. Espa, L’attuazione del federalismo tra vincoli di solidarietà finanziaria, stabilità e crescita, in ISTAT, L’impatto delle riforme amministrative. Relazioni e materiali per l’analisi dei processi innovativi nella Pubblica Amministrazione, Roma, 2004.

[8] Si veda la bibliografia in Wyplosz, op. cit.

[9] La principale imposta introdotta in Sardegna nel 2006 riguarda gli immobili residenziali non uti lizzati come abitazione principale («seconde case»), localizzati nella fascia costiera, il cui valore dunque si presume sia influenzato positivamente dall’attività turistica.

[10] Una scelta ben diversa caratterizza il tributo sul turismo istituito dalla Provincia autonoma di Trento (L.P. 20/2005, articolo 32), il cui gettito alimenta un fondo per il finanziamento della promozione turistica. Il tributo trentino è «dovuto annualmente dai soggetti che beneficiano degli effetti della promozione turistica», senza alcuna discriminazione tra residenti e non residenti.

[11] Alcune ipotesi di «principi fondamentali» sono contenute nel Documento di sintesi del Comitato Tecnico Scientifico dell’Alta Commissione. A pagina 19 si cita il «principio di responsabilità», definito così: «in tanto una Comunità territoriale ha titolo a decidere attraverso meccanismi politici della dimensione del suo bilancio, cioè del livello dei servizi pubblici locali resi disponibili ai cittadini, in quanto i costi prodotti da variazioni della spesa sostenuta siano posti a carico, almeno in via prevalente, dei componenti di detta comunità, e non di altri soggetti». La discriminazione tra residenti e non residenti viola (tra gli altri) questo principio.